Sull’etica della promozione della non violenza da parte dei non palestinesi

Palestine Chronicle. Di Benay Blend. In “The Violence Debate: Teaching the Oppressed how to Fight Oppression” (2010), Ramzy Baroud spiega che per “i media e il pubblico progressisti e di sinistra, le storie che lodano la non violenza” sono le preferite, poiché invocano una strategia accettabile per i liberali occidentali. In nessun altro momento, forse, c’è stata tanta condanna delle vittime per la loro resistenza.

“In modi subdoli o palesi”, continua Baroud, “la resistenza armata in Palestina è sempre condannata”. È come informare gli africani (neri) che se fanno educatamente ciò che la polizia chiede loro, allora non verranno ammazzati.

“Il problema con il carrozzone della non violenza”, conclude Baroud, “è che rappresenta grossolanamente e in modo errato la realtà sul campo”. Come egli sottolinea, i palestinesi hanno impiegato la non violenza per decenni a partire dal prolungato sciopero del 1936.

In tempi recenti gli abitanti di Gaza hanno partecipato alla Grande Marcia del Ritorno, eventi settimanali che si sono protratti per due anni buoni. In cambio delle proteste non violente, le Nazioni Unite hanno documentato che i soldati israeliani hanno ucciso 214 palestinesi, compresi 46 bambini, e ne hanno feriti altri 36.100, di cui 8.800 bambini. Uno su 5 dei feriti è stato colpito da proiettili letali. Tra gli israeliani, un soldato è stato ucciso mentre altri 7 sono rimasti feriti.

Più recentemente, i palestinesi hanno organizzato uno sciopero generale, il 18 maggio 2021, per protestare contro l’attacco israeliano alla Striscia di Gaza. Per la prima volta in oltre 20 anni, i palestinesi si sono uniti per chiudere tutti gli istituti economici, commerciali ed educativi nella Cisgiordania occupata, inclusi Gerusalemme Est, Gaza e i villaggi e le città palestinesi in Israele. Lo sciopero ha anche richiamato l’attenzione sulla violenza della folla dei coloni, gli sgomberi forzati di palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah e diversi giorni di attacchi contro il complesso della moschea di Al-Aqsa.

Non solo questa strategia è considerata un mezzo di protesta non violento, ma in questo caso è stata unificata e sostenuta dai numerosi partiti politici palestinesi, sindacati, associazioni e movimenti popolari, che hanno pubblicato dichiarazioni di sostegno e incoraggiato le varie fazioni a partecipare.

In cambio, gli israeliani hanno ucciso circa 29 palestinesi in Cisgiordania, tra cui Islam Burnat, 16 anni, mentre partecipava a delle proteste settimanali organizzate da suo zio Iyad Burnat da lungo tempo nel villaggio di Bil’in.

La nonna paterna di Islam, Intisar Burnat, ha detto a Middle East News che la famiglia partecipa da tempo a proteste non violente contro la costruzione di insediamenti israeliani e la confisca delle terre nel loro villaggio. Suo zio, Iyad Burnat, è il protagonista di “5 Broken Cameras”, un documentario girato dal fratello Emad durante le proteste.

La lezione è che qualunque cosa facciano i palestinesi, essi vengono assassinati, a volte in modo incrementale, a volte spettacolare. Ma, in realtà, sono passati 73 anni di genocidio a partire da molto prima di Hamas. È significativo che, come sostiene Ramzy Baroud, il privilegio della nonviolenza distolga l’attenzione dalla violenza impartita dall’occupazione israeliana su tutti i tipi di protesta in Cisgiordania e Gaza – “e la pone esclusivamente sulle spalle dei palestinesi”.

In “The Hamas are Coming: A View of the Violence from Inside Israel”, l’attivista israeliano Miko Peled sostiene che,

“Non ci sono mai palestinesi, mai persone, solo ‘Hamas’ – e ‘Hamas’ è, tra l’altro, maschile e singolare (in ebraico). ‘Hamas pensa’, ‘Hamas crede’, ‘Hamas dovrebbe saperlo’, ‘Quando Hamas capirà, si fermerà’ e infine, ‘Quando Hamas sarà colpito duramente, non oserà mai più attaccare Israele”.

“La violenza, il razzismo, gli atteggiamenti neofascisti e un mix tossico di religione e nazionalità”, conclude Peled, “rendono il sionismo molto pericoloso”, ma è un elemento che non spicca quando solo i palestinesi sono accusati della violenza inflitta loro. Inoltre, come spiega l’attivista Na’eem Jeenah, “la resistenza armata a Gaza non è solo Hamas. Include il PFLP, PIJ così come gli elementi di Fatah”.

Inoltre, è fuorviante ridurre la resistenza a “Hamas”. Si tratta invece, come spiega Baroud, di “una rivolta palestinese, un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta palestinese, sia per natura che per portata”. Per la prima volta in molti anni, continua, i palestinesi “stanno sfidando la faziosità, insieme a qualsiasi tentativo di rendere normale l’occupazione israeliana e l’apartheid”.

Guidato dalla gioventù palestinese, che Baroud descrive come costantemente emarginata e oppressa dalla propria leadership e dall’inesorabile occupazione militare israeliana, questo nuovo movimento “eclissa Fatah e Hamas e tutto il resto, perché senza un popolo unito non può esserci alcuna resistenza significativa, nessuna visione per la liberazione, nessuna vittoria per la giustizia”.

Nel 96esimo anniversario del compleanno di Malcolm X, il 19 maggio 2021, è giusto ricordare le sue parole. Al secondo raduno dell’Organizzazione per l’unità afroamericana (OAAU) il 5 luglio 1954, egli osservò quanto segue:

“Quindi, se abbiamo bisogno di alleati bianchi in questo paese, non abbiamo bisogno di chi scende a compromessi. Non abbiamo bisogno di quelle persone che ci incoraggiano a essere educati, responsabili. Non abbiamo bisogno di quelle persone che ci danno questo tipo di consigli. Non abbiamo bisogno di quelle persone che ci dicono di essere pazienti. No, se vogliamo degli alleati bianchi, abbiamo bisogno di qualcuno come John Brown, di nessun altro. E l’unico modo per arrivare a quel tipo è girarsi in una nuova direzione”.

Le sue osservazioni sono ancora rilevanti oggi perché i palestinesi, tra gli altri, riflettono su ciò di cui hanno bisogno. Di conseguenza, l’attivista Na’eem Jeenah suggerisce che “forse dovremmo chiedere ai palestinesi cosa pensano, prima di dire loro cosa dovrebbero fare”. Ricordando le parole del teorico Frantz Fanon, egli mette in guardia contro la tendenza a “fare la predica agli oppressi su come dovrebbero rispondere a tale oppressione”.

“La vittoria e la sconfitta delle guerre non possono essere misurate da raccapriccianti confronti tra il numero di morti di entrambe le parti”, conclude Baroud, “ma solo attraverso l’esame degli obiettivi.

L’obiettivo del popolo palestinese è crescere in unità, resistere e ispirare la solidarietà globale intorno alla loro causa; lo hanno fatto a pieni voti”. Guardando al futuro, Micha K. Ben-David, cofondatore di Grassroots Al-Quds ed ex Pubbliche relazioni di Breaking the Silence, avverte che “concentrarsi su pregiudizi, razzismo, odio … – o semplicemente porre fine a questa particolare ondata di violenza – distrae semplicemente dalle realtà politiche ed economiche del colonialismo che ha creato e perpetuato l’odio e la violenza”. Egli chiede invece che i suoi compagni della comunità ebraica – e tutti coloro che si occupano delle lotte globali – guardino oltre il ritorno allo status quo in un paese che, sostiene, “non è né uno stato ebraico né uno stato democratico”.

Nelle parole, ancora una volta, di Ramzy Baroud,

“L’abbiamo detto un milione di volte, e ora lo ripetiamo ma con maggiore fiducia che mai: solo la fermezza, solo il sumud, solo la muqawama, solo la resistenza porterà giustizia e libertà in Palestina. Non importa nient’altro. Nient’altro conta”.

È tempo che la comunità internazionale si mobiliti a sostegno di questa resistenza.

– Benay Blend ha conseguito il dottorato in studi americani presso l’Università del New Mexico. I suoi lavori accademici includono Douglas Vakoch e Sam Mickey, Eds. (2017), “‘Né la patria né l’esilio sono parole”: “Conoscenza situata” nelle opere di scrittori palestinesi e nativi americani “. Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

Traduzione per InfoPal di Stefano Di Felice