MEMO. Di Hossam Shaker. La Palestina non è mai esistita. Mille anni non sono un lasso di tempo sufficiente, e quello è solo un vetusto retaggio da rimuovere. Non è la mia immaginazione a parlare; questa è la mentalità di molti, troppi israeliani e sostenitori di Israele, grazie a decenni di propaganda, che hanno irretito le menti di diverse generazioni con convinzioni inoppugnabili, che non accettano di essere messe in discussione.
Uno dei tabù più delicati in tal senso è il riconoscimento stesso dell’esistenza del popolo palestinese nel passato, o nel presente. La verità è in contrasto con l’essenza stessa del Sionismo. Gli israeliani usavano il termine generico “Arabi”, una soluzione di comodo per non pronunciare la parola “Palestinesi”. Gli Arabi, a loro avviso, sono popolazioni venute dal deserto, che al deserto dovrebbero tornare o che dovrebbero essere espulse. “Questa terra non è abbastanza grande per tutti”, è questa la tesi dei Sionisti. “Esistono 20 Paesi Arabi, perché non vanno a vivere lì?” Una “logica” tanto semplicistica potrebbe essere usata al contrario: Siete così amici del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, perché non correte tra le sue braccia?
La forma mentis israeliana ha fornito il pretesto culturale per la pulizia etnica che i “nuovi storici” hanno descritto dettagliatamente, a partire da Benny Morris fino a Ilan Pappé. È inutile, quindi, cercare riferimenti al “Popolo Palestinese” da parte delle autorità israeliane durante il “processo di pace” durato oltre un ventennio, perché non ne troverete. Ci sono solo i “Palestinesi”, ma questo popolo ha una patria, una storia, delle radici e dei diritti, concetti che gli Israeliani non possono associare a una nazione che, a loro modo di vedere, non è la Palestina. Ciò che si tende a dimenticare oggi è che il fondatore del Sionismo politico, Theodor Herzl, e i suoi colleghi della prima Organizzazione Mondiale Sionista non avevano altra scelta se non definire quella terra Palestina, nome che fu incluso in tutta la documentazione successiva, anche nella dichiarazione di Balfour del 1917.
Gli Israeliani hanno impregnato di propaganda anche archeologia e storia. Gli scavi e i musei vengono presentati in modo arrogante e ideologico per supportare determinate tesi. La narrazione sionista è nata in Europa alla fine del XIX secolo e non in Palestina. La propaganda archeologica è costretta a inventare una nazione immaginaria per giustificare il mito di Israele. Nega quanto accaduto negli ultimi 2 o 3.000 anni.
Tuttavia, gli Israeliani si trovano di fronte a un dilemma: come gestire la cultura e i tratti autoctoni del luogo, in un contesto chiaramente arabo e palestinese, Islamico e Cristiano? Come aggirare il problema dei minareti, delle cupole e dei campanili che sono sopravvissuti a secoli di distruzione; o della ben nota architettura araba; o persino degli alberi di ulivo e delle palme, che resistono allo sradicamento e alle fiamme? L’escamotage usato dagli israeliani consiste nel fondare il loro stato su un lasso molto breve di storia recente, e di rivestirlo di ideologia nazionalista. È un dato interessante, perché gli elementi israeliani sono molto superficiali; basta rimuovere il primo strato per trovare caratteristiche che riconducano alla Palestina. Tuttavia, i miti sionisti hanno un certo ascendente su Trump, e anche sui suoi predecessori alla Casa Banca, sebbene solo lui abbia osato dichiarare che Gerusalemme appartiene solo agli israeliani.
La narrazione israeliana giustifica la negazione di estesi periodi storici, per creare un immaginario corrispondente alla proiezione della storia fondata sull’ideologia e sulla mitologia sioniste. Nel giugno del 1967, ad esempio, qualche giorno dopo l’occupazione della parte orientale di Gerusalemme (quella occidentale era stata già occupata nel 1948), i bulldozer israeliani distrussero un quartiere storico nel cuore della Città Vecchia. Si trattò di una delle più feroci campagne di demolizione nel corso del XX secolo. Nel Quartiere Marocchino sorgevano 135 edifici secolari di interesse storico; furono rasi al suolo per creare uno spazio vuoto nel cuore di Gerusalemme, che corrisponde adesso al vasto piazzale che costeggia il Muro del Pianto. Chi ha abbastanza coraggio da confrontare le foto di oggi con quelle dell’epoca? Chi ricorda il Quartiere Marocchino, con tutti i siti archeologici precedenti all’era di Saladino? Chi si domanda dove siano finite le macerie delle strade e dei monumenti che impreziosivano il quartiere da oltre mille anni?
Ciò che colpisce, in questo caso come in altri episodi di distruzione avvenuti in seguito all’occupazione militare, è che non siano scaturiti grandi dibattiti in seno agli israeliani, né a livello internazionale. Si tratta anzi di uno dei principali tabù degli israeliani. Per loro, tutto ciò che riguarda la storia e l’identità della Palestina occupata non dev’essere argomento di discussione.
La propaganda israeliana non consente di uscire da una concezione ideologica e inesatta della storia, che rimanda a una terra esistita 2.000-3.000 anni fa, senza riferimenti al prima né al dopo. Una propaganda inscritta nelle parole dell’inno sionista, Hatikvah, che l’Organizzazione Sionista ha poi modificato per includere Gerusalemme, che non era stata inserita dall’autore Naftali Herz Imber nel 1877. La finzione non è solo nelle montature storiche, ma anche nei versi dell’inno, ripresi in larga misura dall’inno nazionale polacco, e nella melodia, plagiata da diverse versioni di canti folcloristici europei.
È dalla propaganda che i politici traggono i fondamenti dei loro discorsi, tesi a condizionare la mente degli israeliani con un concetto ben preciso: Voi eravate qui ieri e siete tornati qui oggi. È implicito in questo il fatto che chiunque sia stato qui tra “ieri” e “oggi” non conta nulla. Si tratta solo di nomadi, senza radici né storia. I più accaniti sostenitori di questa logica la interpretano come un via libera per distruggere i “nomadi” ed espellerli, se necessario. È questo il fondamento dell’esodo forzato e della pulizia etnica; dei bulldozer che radono al suolo la storia in favore di una narrazione fittizia, in linea con l’orientamento del partito di estrema destra del primo ministro Benjamin Netanyahu, sostenuto dall’esercito, dai coloni illegali, dal Comune di Gerusalemme e dall’Autorità per le Antichità.
Danny Ayalon, stretto collaboratore di Netanyahu, per anni vice-ministro degli Esteri, è un fiero sostenitore degli insediamenti coloniali israeliani sui territori palestinesi occupati in Cisgiordania e a Gerusalemme. Ayalon compare in un famoso video di propaganda su Gerusalemme, mentre si aggira furtivo nei sotterranei della Città Vecchia e immagina di proiettarsi nel passato, a 2.000 anni fa. Il video, come sempre, contiene numerose inesattezze storiche, ma anche un’immagine di una violenza inaudita: la distruzione della Cupola della Roccia e di tutti gli elementi architettonici circostanti, come se il monumento più caratteristico di Gerusalemme fosse un fast food o un locale commerciale che può essere distrutto e sostituito da un garage.
Molto attivo sui social network, Ayalon ha fatto nel mondo virtuale ciò che le organizzazioni religiose neo-fasciste tentano di fare nel mondo reale, con attacchi e incursioni nel luogo sacro che si protraggono ormai da decenni. Questi gruppi ebraici di estrema destra vogliono radere al suolo la Moschea Al-Aqsa, la Moschea della Cupola della Roccia e altri siti Islamici e Cristiani. Tutto ha avuto inizio con un attacco incendiario ad Al-Aqsa nel 1969, seguito da numerosi progetti di distruzione di questi luoghi sacri. Per loro, Gerusalemme va eliminata, come suggerito nel video clip di Ayalon.
Tra i cosiddetti attacchi “price tag” da parte dei coloni ebraici vi sono incendi dolosi, atti di vandalismo ai danni di moschee, chiese, monasteri, case e tombe musulmane e cristiane, deturpate da scritte in ebraico con la richiesta di lasciare il Paese. I responsabili sono il prodotto diretto del sistema di istruzione israeliano. Sono stati indottrinati dalla propaganda sionista, che li ha convinti di essere i padroni della storia e della terra. Il risultato è una serie infinita di aggressioni sin dai primi anni del 2000, con alcuni attacchi incendiari ai danni di famiglie e bambini; nel 2015, in uno di questi incendi dolosi, Ali Dawabsheh, di soli 18 mesi, ha perso la vita con i suoi genitori nel rogo della sua casa; il fratellino Ahmed, che all’epoca aveva 4 anni, è sopravvissuto, seppure con gravissime ustioni.
Una propaganda artificiosa e teatrale continua ad alimentare quel clima di odio che produce i responsabili di simili attacchi. Una delle principali istituzioni dello Stato, fondata su rovine palestinesi, è proprio il Knesset, il Parlamento Israeliano. I suoi membri siedono di fronte a un gigantesco muro di pietra, costruito allo scopo di rievocare le radici storiche del Paese. Le leggi razziste pensate da questi parlamentari impongono un’identità ebraica, ignorando la storia reale e negando l’esistenza del popolo palestinese. Queste normative sono sempre più numerose, così come quelle che impongono restrizioni alle organizzazioni dei diritti umani che si oppongono alla propaganda ufficiale.
Tra i membri del Knesset, ci sono coloni estremisti che vivono in case erette su territori sottratti ai Palestinesi in Cisgiordania con la forza delle armi. Sono persuasi che Dio abbia dato loro questa terra migliaia di anni prima dell’insediamento del governo Netanyahu. Alcuni danno l’impressione che Dio sia al fianco dei criminali armati che, imbracciando fucili automatici, intimidiscono i Palestinesi nelle loro case e danno fuoco agli alberi d’ulivo. Perché sono i padroni indiscussi della Storia, e i loro insediamenti fortificati sono eretti in luoghi strategici posizionati sulle alture, da cui possono controllare dall’alto i villaggi palestinesi.
Nelle città e nei villaggi della costa del Mediterraneo, le domande più scomode da porre gli abitanti delle case sottratte a partire dal 1948 sono: “Chi ha eretto questa casa, papà?”, “Chi ha piantato questi alberi, mamma?” “Chi ha costruito questa strada, nonno?” Queste domande sono tuttora dei tabù, per gli israeliani; l’unica pace possibile è quella che potrebbe nascere dopo aver infranto tali tabù e aver avviato una discussione aperta e franca.
Traduzione per InfoPal di Romana Rubeo