Tensioni medio-orientali. Una relazione del Cipmo.

 

Tra le principali vittime del conflitto libanese vi è sicuramente l’approccio unilateralistico alla soluzione dei conflitti, che accomunava l’amministrazione Bush ai Governi Sharon e Olmert.

Tale concezione, già uscita gravemente lesionata dagli sviluppi del conflitto irakeno, ha dimostrato tutta la sua incapacità di comprensione della realtà e di gestione delle crisi in questa occasione.

Il tentativo di blitz israeliano, per imporre il rilascio dei soldati rapiti, si è infranto di fronte alla resistenza di Hezbollah, e per uscire dall’impasse si è dovuto ricorrere ad una forza internazionale di quella ONU che il Presidente statunitense aveva dichiarato desueta, al momento dell’attacco contro Saddam Hussein: una forza internazionale che vede alla sua guida l’Europa, ed in particolare Italia e Francia, tra i paesi più critici rispetto all’attacco deciso dal Governo israeliano, che in precedenza aveva sempre respinto ogni ipotesi di forza internazionale alle sue frontiere.

 

Ma vi è un altro aspetto che è rimasto in ombra, e di cui si tarda a prendere coscienza.

La crisi libanese ha evidenziato la mancanza di strategie e di proposte realistiche per la soluzione della crisi mediorientale, da parte dei principali protagonisti del conflitto, proprio nel momento in cui un rilancio del processo negoziale appare più urgente, per non alimentare ulteriormente la presa sulle popolazioni dell’area delle forze fondamentalistiche, già rafforzate dall’esito del conflitto.

Tale perdita di prospettive riguarda in primo luogo Israele, che si trova privo di una proposta e di una strategia.

Olmert si era presentato alle elezioni, con il nuovo Partito di centro, Kadima, sulla base della piattaforma elaborata da Sharon prima della malattia. Sharon, fin dal dicembre 2003, aveva rinunciato alla sua precedente visione del “Grande Israele”, per motivi demografici e di sicurezza. Per motivi demografici, perché, in base ai trend di crescita della popolazione palestinese, la annessione dei Territori palestinesi nella loro totalità avrebbe portato a una predominanza della popolazione araba su quella ebraica, vanificando le possibilità di persistenza di uno Stato ebraico, a meno che questo non rinunciasse alle sue caratteristiche democratiche, trasformandosi in uno Stato basato sull’apartheid. Per motivi di sicurezza, perché l’esperienza aveva dimostrato al guerriero Sharon, come già prima di lui a Rabin, che in termini di pura repressione non si poteva affrontare la questione palestinese e garantire la sicurezza degli israeliani.

Su queste basi era stato realizzato il ritiro da Gaza, che aveva riaffermato lo Stato di diritto israeliano superando le fortissime resistenze dei coloni e dei loro sostenitori. Tale ritiro ha infranto il tabù dell’evacuazione degli insediamenti, dimostrando che era possibile procedere in questa direzione senza cadere nella guerra civile, ed è stato da questo punto di vista una svolta storica, anche se i limiti dell’operazione, nella sua unilateralità, sarebbero venuti ben presto alla luce.

Tale approccio era stato rilanciato da Olmert nella sua piattaforma elettorale, proponendo un nuovo ritiro dalla Cisgiordania, in sostanza da tutta la parte non compresa entro il muro di difesa, eccetto alcuni punti di osservazione lungo la Valle del Giordano, e la definizione unilaterale dei confini dello Stato entro il 2008, a meno che i leader palestinesi non ottemperassero alle condizioni imposte dalla Comunità internazionale per il rilancio del processo negoziale. Su queste basi, Kadima si era affermato come il primo partito israeliano, con 29 seggi su 120, e aveva potuto formare un Governo di Unità Nazionale con i laburisti di Amir Peretz.

In sostanza, si trattava di rinunciare al controllo del 90% della Cisgiordania, per consolidare il controllo sul 10% entro il muro di difesa, comprendente non solo i grandi insediamenti realizzati intorno a Gerusalemme e lungo la Linea Verde, ed anche le loro possibili espansioni urbanistiche future. La proposta di definire da soli i confini definitivi dello Stato preludeva, in sostanza, ad una loro possibile annessione, in cambio della possibilità lasciata ai palestinesi di realizzare il loro Stato entro l’area restante e a Gaza.

Rispetto al negoziato di Camp David e Taba, quando si parlava di possibili scambi territoriali dell’ordine del 3-4%, il passo ipotizzato era assai lungo. E se era possibile programmare scambi territoriali su quella base iniziale di discussione, nel momento in cui si arrivava a ipotizzare un intervento sul 10% dell’area contesa le ipotesi di scambio divenivano di fatto impraticabili.

Di fronte alle resistenze in particolare della Unione Europea, vi era già stata qualche retromarcia. Tzipi Livni, Ministro degli Esteri israeliano, in un seminario riservato a Bruxelles aveva affermato che il ritiro poteva essere negoziato, e che si poteva discutere di tutto, inclusa la parte compresa entro il muro. Ma era da verificare se si trattasse di una apertura formale o sostanziale, di una disponibilità reale a rimettere in discussione quel 10% che si dava fino ad allora come irrinunciabile. La crisi ha vanificato tutto ciò.

Il rapimento dei soldati israeliani prima a Gaza, poi in Libano, i due territori da cui Israele aveva effettuato negli anni passati ritirate unilaterali (anche Barak si era ritirato unilateralmente dal Libano meridionale nel maggio 2000), ed il continuo lancio di razzi e missili da quelle aree verso i territori israeliani, dopo il ritiro, hanno dimostrato che l’unilateralità non produce sicurezza, ed al contrario crea le condizioni per la nascita di santuari del fondamentalismo terroristico.

Dopo il conflitto libanese, al Governo Olmert, fortemente indebolito dal suo risultato, non è rimasto che dichiarare “non più in agenda” il piano di ritiro dalla Cisgiordania, o “piano di convergenza” come era stato definito, pur senza dichiararlo cancellato. Egli afferma di volersi concentrare sui problemi interni del Paese, per affrontare le conseguenze della guerra. Ma questo, in sostanza, significa lasciar macerare la questione palestinese nello status quo, nel momento in cui le tensioni rischiano di diventare esplosive, rinunciando ad ogni prospettiva strategica di soluzione del conflitto. E soprattutto significa non considerare che le cause demografiche e di sicurezza, che erano state all’origine della scelta di Sharon, restano intatte e che queste ultime probabilmente si sono aggravate. La guerra infatti ha dimostrato che la pura dimensione territoriale non è in grado di garantire la sicurezza, come hanno dovuto sperimentare tutte le città del nord del paese sottoposte per più di un mese al bombardamento dei missili di Hezbollah.

 

Analoga, per certi versi, l’incapacità palestinese di proporre una credibile strada per rilanciare il negoziato.

Nei giorni precedenti il rapimento del soldato Shalit a Gaza, e della crisi libanese, era parso profilarsi un accordo interpalestinese tra il Presidente Abu Mazen e il Premier Ismail Haniyeh. A base dell’intesa non vi era solo il “Documento dei prigionieri”, reso noto nei mesi scorsi, ma anche il Piano Arabo del 2002.

Nel “Documento dei prigionieri” vi sono alcuni punti chiave: rivendicazione di uno Stato Palestinese entro i confini del ’67, e quindi non comprendente anche Israele, con un suo riconoscimento implicito; creazione di un Governo di Unità Nazionale; riforma e democratizzazione dell’OLP, in cui confluirebbero anche le organizzazioni islamiche; delega ad Abu Mazen, in quanto Presidente dell’OLP (e non in quanto Presidente dell’ANP), a trattare con Israele, salvo sottoporre i risultati alla approvazione del Consiglio Legislativo Palestinese, o se questa venisse meno, di un referendum popolare, che sicuramente lo approverebbe.

Inoltre, il Piano Arabo del 2002, ugualmente richiamato, contiene un riferimento più diretto ad Israele, che tutti gli Stati arabi si erano espressamente impegnati a riconoscere, stabilendo normali relazioni diplomatiche, una volta che questo avesse consentito la creazione di uno Stato palestinese, basato sui confini del ’67, con capitale Gerusalemme Est, e assicurato una soluzione “equa e concordata” della questione dei rifugiati.

Il riferimento al Piano arabo comportava perciò per Hamas, se non un riconoscimento preliminare di Israele, un superamento del rifiuto di principio al riconoscimento, che nel “Documento dei prigionieri” restava solamente implicito.

Il “Documento dei prigionieri” affermava inoltre l’esigenza di rinunciare alle azioni esterne ai territori occupati, e cioè dentro Israele, e quindi alle azioni terroristiche rivolte contro i civili.

Per quanto riguarda la lotta dentro i Territori, Hamas si dichiarava ripetutamente disposta a una tregua di lungo periodo, la cosiddetta “Hudna”.

Lo schema negoziale ipotizzato dall’accordo interpalestinese che si era profilato era il seguente: un governo di unità nazionale, basato su quei documenti, i cui ministri di maggiore rilevanza internazionale non fossero nelle mani di Hamas (si parlava di figure indipendenti e indiscusse come Salam Fayyad alle Finanze e di Hanan Ashrawi agli Esteri), che riconoscesse tuttavia, anche da parte degli esponenti di Hamas che ne facessero parte, i principi espressi dall’accordo, avrebbe potuto probabilmente superare l’attuale embargo internazionale, far riaprire la valvola degli aiuti internazionali, ed essere considerato meno impresentabile anche da Israele. Hamas non avrebbe  partecipato alle trattative, delegate a Abu Mazen, che avrebbe  potuto tuttavia andare al tavolo negoziale più forte, sulla base di un mandato largo e non a titolo quasi personale, come rinfacciatogli da Israele negli ultimi mesi.

Tuttavia, improvvisamente, dopo la crisi libanese, le trattative si sono complicate, e le condizioni poste da Abu Mazen all’organizzazione islamica si sono indurite. Il Presidente palestinese, nel suo intervento alla Assemblea annuale dell’ONU, ha dichiarato che il governo di unità nazionale in via di formazione avrebbe assicurato il rispetto delle tre condizioni della Comunità internazionale, incluso il riconoscimento di Israele, provocando l’immediata smentita di Hamas. Il braccio di ferro tra Fatah ed Hamas è straripato nelle strade di Gaza, con morti e feriti.

Alla base degli scontri vi sono le manifestazioni promosse da organizzazioni legate al Fatah, che protestano per il mancato pagamento degli stipendi dei pubblici dipendenti ed il peggioramento generale delle condizioni di vita della popolazione: manifestazioni che le forze di sicurezza legate al Governo Hamas cercano di reprimere, scontrandosi con quelle fedeli a Abu Mazen.

Il presidente palestinese sviluppa così la sua strategia di inclusione-competizione verso l’organizzazione islamica vincitrice delle passate elezioni: da un lato il negoziato sul governo di unità nazionale, dall’altro l’erosione del consenso nelle piazze.

Secondo quanto lui stesso ebbe a dirmi nel corso di un incontro, egli pensa che le elezioni non abbiano dato una effettiva maggioranza ad Hamas, e che solo il meccanismo elettorale e la dispersione dei voti di Fatah abbia prodotto la vittoria degli islamici.

Pertanto, è convinto di poter vincere in nuove elezioni, che ritiene di poter convocare in qualsiasi momento. Dimostrare il fallimento del Governo Hamas può rientrare in questa strategia.

Non è certo secondario, in questi sviluppi, il ruolo degli Stati Uniti, che puntano a rafforzare Abu Mazen, sia con finanziamenti volti a alleviare le condizioni economiche della popolazione, messi a disposizione del Presidente scavalcando il Governo, sia rilanciando i vecchi accordi per facilitare i movimenti delle persone. E’ in discussione anche un accordo sul valico tra Israele e Gaza simile a quello in atto al confine di Rafah, tra Gaza e l’Egitto.

In sostanza, la strategia degli USA è volta a minare la credibilità del Governo Hamas, facilitandone la caduta, nell’ottica della più complessiva lotta “all’asse del male”.

L’Unione Europea e il Quartetto avevano invece appoggiato con decisione il negoziato in corso per arrivare al Governo di Unità nazionale. Gli USA pare stiano spingendo in altra direzione.

Si tratta, però, di un gioco rischioso. La realtà è che oramai nel mondo palestinese si sono creati due blocchi, Fatah e Hamas, e che nessuno dei due è in grado di rappresentare da solo quella società. Respingere Hamas fuori dal Governo significherebbe indurlo ad abbandonare la scelta parlamentare, privilegiando la lotta clandestina. Le crepe apertesi tra i dirigenti dell’esterno, come Meshall, e quelli dell’interno, impegnati nel Governo, si ricomporrebbero.

Al contrario, un Governo di unità nazionale potrebbe rafforzare la componente interna di Hamas, provocandone una evoluzione centrista, in qualche modo analoga a quella di Kadima rispetto al Likud (anche se certamente Hamas e Likud non sono comparabili).

Lo stesso appoggio a Abu Mazen, certo essenziale, non può essere incondizionato e cieco, e deve tener conto di questo più complessivo quadro di riferimento.

 

Per concludere questa rassegna, anche la strategia sin qui seguita dalla Comunità internazionale, rispetto al conflitto, appare astratta e superata dai fatti.

Essa si basa su due pilastri, la Road Map e le tre condizioni poste ad Hamas per il negoziato.

Per quanto riguarda le tre condizioni poste dalla Comunità internazionale per aprire rapporti con la organizzazione islamica (riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza e riconoscimento dei trattati pregressi), si è già parlato della questione del riconoscimento a proposito del Documento dei prigionieri e del Piano arabo.

La questione essenziale pare non tanto il riconoscimento preliminare, ma la caduta del rifiuto pregiudiziale al riconoscimento, che quei documenti consentono di ottenere. D’altronde, Israele ha già trattato con la Siria e con la Giordania, che non lo riconosce, senza particolari problemi.

Per quanto riguarda le altre due condizioni, rispetto alla rinuncia alla violenza il “Documento dei prigionieri” propone la rinuncia alle azioni all’esterno, dentro Israele. Per quel che riguarda le azioni militari dentro i territori palestinesi, va detto che il diritto alla resistenza all’occupante è sancito dal diritto internazionale, e quindi appare sostanzialmente corretto che si parli, come fa Hamas, di tregua anche di lungo periodo (Hudna).

Più controverso il terzo aspetto, quello del rispetto dei trattati precedentemente sottoscritti. Su questo si hanno ancora dichiarazioni contradditorie di Hamas.

Tuttavia, gli stessi accordi di Washington del ‘93, la cui validità è certo indiscutibile anche in considerazione del fatto che su di essi si fonda la legittimità stessa della Autorità Nazionale Palestinese che da quegli accordi è originata, prevedevano la conclusione dei negoziati sul Final Status entro il settembre 1998, e che quel termine è abbondantemente scaduto. Le propaggini di quel processo sono stati i negoziati di Camp David e Taba, del 2000-2001, che si sono conclusi nell’insuccesso.

E’ altresì vero che quegli accordi furono sottoscritti dall’OLP, e non dalla ANP, che non esisteva ancora, ed è appunto all’OLP, e al suo Presidente Abu Mazen che verrebbe affidato il compito di negoziare con Israele, secondo il Documento dei prigionieri.

Peraltro, negli accordi di Washington si afferma che l’ANP non ha competenze in materia di politica estera e di sicurezza, dato che non è uno Stato.

Quanto alla Road Map, essa viene tenuta in vita perché è l’unico gioco sul tavolo, riconosciuto da tutti i contendenti, ma è divenuta l’araba fenice della diplomazia mediorientale.

Nessuno può seriamente pensare che si inizi oggi quel lungo tragitto di cinque anni, lungo due conferenze internazionali, con lo stabilimento di uno stato palestinese transitorio e così via. Non è su queste basi che si può interrompere la catena della violenza e dell’odio.

La stessa Tzipi Livni, in quel seminario a Bruxelles, ipotizzava la possibilità che si passasse direttamente alla seconda fase della Road Map, e alla discussione sul Final Status.

 

La realtà è che il processo per tappe, avviato a Washington nel ’93, ha in sostanza fatto fallimento. Il suo limite è stato che la scelta di avviare il processo, senza avere chiaro il possibile punto di arrivo almeno nelle sue linee essenziali, e confidando che lungo il percorso sarebbe stato possibile chiarirsi le idee in base all’esperienza, non ha funzionato e probabilmente non poteva funzionare.

Pare oggi più che mai necessario “ricominciare dalla fine”, definendo i parametri della possibile soluzione del conflitto, anche attraverso la convocazione di una nuova Conferenza internazionale, che deve però essere adeguatamente preparata attraverso canali anche informali. I punti di riferimento essenziali esistono già, dai parametri di Clinton, ai verbali di Moratinos a Taba, al Piano Arabo di Beirut, alla Risoluzione 1397/2002 del Consiglio di Sicurezza,  allo stesso” Modello di Accordo di Ginevra”. 

Si deve essere consapevoli, tuttavia, che israeliani e palestinesi stanno vivendo una difficile transizione interna, i palestinesi per superare il conflitto interno e trovare un accordo, gli israeliani per assorbire gli effetti della guerra in Libano, ed è probabile che entrambi i campi debbano passare attraverso un passaggio elettorale.

Per riempire il vuoto di questa fase, sempre pericoloso in Medio Oriente, accanto ai lavori preparatori e ai canali da costruire per trovare le soluzioni legate al Final Status, potrebbe essere utilizzata la strada di procedere ad “atti unilaterali, paralleli e (di fatto) concordati”, utili per ristabilire la fiducia fra i due popoli, gravemente compromessa da questi anni di violenza e di conflitto. Questi alcuni possibili esempi:

         Per la parte palestinese, una generalizzata accettazione del Documento dei Prigionieri e del Piano Arabo di pace, il rilascio del soldato rapito, la rinuncia al terrorismo contro i civili e la parallela sospensione della lotta armata contro l’occupazione attraverso la riconferma di una tregua a tempo indeterminato (la cosiddetta Hudna).

         Il Governo israeliano, per parte sua, potrebbe decidere di bloccare gli omicidi mirati (se la tregua regge), di liberare un consistente numero di prigionieri palestinesi (anche appartenenti ad Hamas), di sbloccare il trasferimento delle tasse di spettanza palestinese, di consentire la riunione del Parlamento e del Governo palestinesi (oggi costretti a convocarsi per teleconferenza), e di prendere misure specifiche per alleviare la vita quotidiana della popolazione palestinese sotto l’occupazione, a partire dalla rimozione dei blocchi fisici che impediscono la circolazione dentro i Territori palestinesi (e regolando l’afflusso ai valichi con Israele, analogamente a quanto si è fatto al valico di Karni tra Gaza e l’Egitto).

 

L’Europa, e in particolare il Governo italiano, che hanno dato prova di creatività e di un nuovo impegno in occasione della crisi libanese, contribuendo a superare l’unilateralismo israeliano, statunitense e anche degli Hezbollah, hanno ora l’occasione di misurarsi con un nuovo e più realistico approccio col conflitto mediorientale, facendolo uscire dalle secche in cui l’inconcludenza del processo di pace per tappe e la reazione unilateralista l’hanno condotto.

 

Janiki Cingoli

Direttore Cipmo

 

Ottobre 2006

 

 

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