“The wandering who?”: la strada verso “casa” di un ex israeliano

Gilad Atzmon è un famoso sassofonista e scrittore. E’ un ex israeliano, la cui forte e coraggiosa critica contro la propaganda della “Israeli lobby” nel mondo e contro i falsi anti-sionisti, ben mascherati da pro-palestinesi, lo ha reso bersaglio di accuse gravi e ingiuste. Paradossalmente, ma neanche troppo, tali accuse provengono anche da alcuni noti personaggi palestinesi, a sottolineare come la servitù verso l’Oppressore non è solo un fatto politico, economico e militare, ma anche culturale e psicologico. Un po’ come avviene con la Sindrome di Stoccolma…

Riportiamo qui di seguito alcuni paragrafi tradotti dal suo recente libro: The wandering who? 

 

Di Gilad Atzmon.

“Sono cresciuto in Israele, in una famiglia di sionisti piuttosto laici. Mio nonno era un carismatico e poetico veterano terrorista, un ex comandante di spicco dell’organizzazione terrorista di destra Irgun.

“(…) A quel tempo, come i miei coetanei, non vedevo i palestinesi intorno a me. C’erano senza dubbio – mettevano a posto l’auto di mio padre a metà prezzo, costruivano le nostre case, pulivano il caos che ci lasciavamo dietro (…), ma scomparivano giusto prima del tramonto e apparivano di nuovo prima dell’alba.

“(…) Ero abbastanza convinto che gli ebrei erano davvero il popolo eletto. La mia generazione era cresciuta con la magica vittoria della Guerra dei Sei giorni. Eravamo del tutto sicuri di noi stessi. Dato che eravamo laici, associavamo ogni successo con le nostre onnipotenti qualità. Non credevamo a un intervento divino, credevamo in noi stessi. Credevamo che la nostra forza provenisse dalla nostra anima e carne ebraica risorta”.

Guerra in Libano

“(…) Quando scoppiò la prima guerra del Libano, facevo il soldato da un anno. Non ci voleva un genio per capire la verità, sapevo che i nostri leader stavano mentendo. Ogni soldato israeliano sapeva che questa guerra era un’aggressione israeliana. Personalmente non sentivo più alcun attaccamento per la causa sionista. Non mi sentivo parte di essa. Tuttavia, non fu la politica o l’etica ad estraniarmi, quanto piuttosto la mia voglia di rimanere solo con il mio sassofono. Fare scale musicale alla velocità della luce mi sembrava di gran lunga più importante che uccidere gli Arabi nel nome della redenzione ebraica. Così, invece di diventare un killer specializzato misi ogni sforzo possibile cercando di unirmi a una delle bande militari. Ci vollero alcuni mesi, ma alla fine approdai alla Israeli Air Force Orchestra (IAFO).

“(…) Odiavamo l’esercito e non mi ci volle troppo tempo prima che odiassi lo stato che aveva un simile grande esercito con una tale grande forza aerea che aveva bisogno di fermarmi dall’esercitarmi (a suonare, ndr) 24 ore per sette giorni su sette. Quando ci chiamavano per suonare a un evento militare, cercavamo sempre di farlo peggio che potevamo tanto da essere sicuri che non saremmo più stati invitati. Nell’orchestra dello IAFO appresi per la prima volta a essere un sovversivo. E a distruggere il sistema per raggiungere una perfezione personale immacolata.

“Nell’estate del 1984, soltanto tre settimane prima che mi congedassi, fummo mandati in Libano per un tour di concerti. A quel tempo, il Libano era un posto pericoloso e l’esercito israeliano sprofondava in bunker e trincee per evitare il contatto con la popolazione locale. Il secondo giorno arrivammo ad Ansar, un noto campo di concentramento israeliano sul suolo libanese. Questo evento cambiò la mia vita”.

Il cambiamento

“Era una giornata bollente dei primi di luglio. Su una pista sterrata e polverosa approdammo ​​all’inferno sulla terra. Un centro di detenzione enorme circondato da filo spinato. Sulla strada verso il quartier generale del campo guidammo attraverso la visione di migliaia di detenuti che venivano bruciati dal sole. Era difficile da credere, ma le bande militari sono sempre trattate da VIP. Una volta arrivati alla caserma del comando ufficiale fummo portati a fare una visita guidata del campo. Stavamo camminando lungo un filo spinato senza fine e le postazioni delle torri di guardia. Non potevo credere ai miei occhi. ‘Chi erano quelle persone?’, chiesi all’ufficiale. ‘Sono i palestinesi’, rispose, ‘a sinistra ci sono quelli dell’Olp e sulla destra quelli di Ahmed Jibril. Questi sono molto più pericolosi (Fronte popolare per la liberazione della Palestina, PFLP-GC), così li teniamo in isolamento’.

“Guardai i detenuti e sembravano molto diversi dai palestinesi che vedevo a Gerusalemme. Quelli che vedevo ad Ansar erano arrabbiati. Non erano sconfitti ed erano tanti. Mentre ci spostavamo lungo il filo spinato e guardavo i detenuti, mi resi conto di quella insopportabile verità, stavo camminando lì in divisa militare israeliana. Mentre stavo ancora contemplando la mia uniforme, cercando di venire a patti con una sensazione di grave vergogna affiorante, arrivammo in un grande terreno piatto in mezzo al campo. Rimanemmo lì intorno all’ufficiale guida e apprendemmo da lui altre menzogne sulla guerra in corso per difendere il nostro rifugio ebraico.

“Mentre ci stava annoiando a morte con alcune menzogne irrilevanti, notai che eravamo circondati da due dozzine di blocchi di cemento delle dimensioni di un metro quadrato e circa 1,30 centimetri di altezza. Avevano una piccola porta di metallo ed io ero inorridito dal fatto che il mio esercito avrebbe potuto decidere di chiudere a chiave i cani da guardia in quelle costruzioni, per la notte. Mettendo tutta la mia Chutzpah (ebraico per “insolenza”) israeliana in azione, chiesi alla guida che cos’erano quegli orribili cubi di cemento. Fu veloce a rispondere: ‘sono i nostri blocchi di isolamento. Dopo due giorni in uno di questi si diventa un devoto sionista’.

Questo fu abbastanza per me. Realizzai già nel 1984 che la mia relazione con lo stato di Israele e con il Sionismo era finita. Tuttavia, ne sapevo poco di Palestina, Nakba e persino di ebraismo ed ebraicità. Ritenevo soltanto che, per quel che mi concerneva, Israele era una cosa cattiva e che non volevo averci niente a che fare. Due settimane dopo, consegnai la mia uniforme, afferrai il mio sassofono e presi un autobus per l’aeroporto di Ben Gurion e partii per l’Europa per alcuni mesi. Ciondolai in strada. All’età di 21 anni ero libero per la prima volta. Il mese di dicembre era troppo freddo e tornai a casa con il chiaro intento di riuscire a tornare in Europa.

***

“Mi ci vollero altri 10 anni prima di lasciare definitivamente Israele. In quegli anni iniziai a conoscere da vicino il conflitto israelo-palestinese, l’oppressione. Iniziai ad accettare che stavo effettivamente vivendo nella terra di qualcun altro. Iniziai a prendere in considerazione il devastante fatto che nel 1948 i palestinesi non erano partiti spontaneamente, ma, piuttosto, che avevano subito una brutale pulizia etnica da parte di mio nonno e dalla sua gente.

“Iniziai a realizzare che la pulizia etnica in Israele non era mai finita, ma aveva solo assunto forme diverse. Iniziai ad ammettere che il sistema legale israeliano era completamente orientato a livello razziale. Un buon esempio era, ovviamente, la Legge del Ritorno, una legge che accoglie gli ebrei dopo 2000 anni ma ferma i palestinesi dal far ritorno nella propria terra e villaggi dopo due anni all’estero.

(…)

“Mi trasferii a Londra (…)

“Tuttavia, non passò molto tempo prima di iniziare a sentire un po’ di nostalgia di casa. Con mia grande sorpresa, non era Israele che mi mancava. Non era Tel Aviv, Haifa o Gerusalemme. In realtà era la Palestina. Non era lo sgarbato tassista all’aeroporto Ben Gurion, o un centro commerciale a Ramat Gan, era il piccolo locale dove si mangia hummus a Jaffa, in strada Yesfet / Salasa. Erano i villaggi palestinesi sparsi sulle colline tra gli ulivi e i cactus Sabbar. Me ne rendevo conto ogni volta che desiderando fare una visita a casa, finivo in Edgware Road, e passavo una serata in un ristorante libanese. Una volta che presi a esplorare i miei pensieri su Israele in pubblico, mi fu ben presto chiaro che Edgware Road era forse così vicino da sentirmi a casa”.