Tracciato asse Val di Susa – Palestina

Di Mariagrazia Nemour. Venaus – 26 gennaio 2013. 

“Sono venuti di notte, alle tre, mentre dormivamo. Ci hanno evacuato con il manganello in pugno. Io ero arrabbiato, impaurito, deluso. Avevo solo voglia di tornare a casa. Un posto di blocco: “Documenti!”, mi intimano. Non ho il tempo di mettere in moto la macchina e fare altri duecento metri che vengo fermato, di nuovo. Posto di blocco, documenti. Questa volta mi rifiuto di farmi trattare da terrorista, dico al poliziotto che li chieda al suo collega, quello che mi ha appena schedato, i dati. Sono sempre più arrabbiato, impaurito, deluso. “Documenti!” insiste, io abbasso il sedile e chiudo gli occhi, ma non dormo – intorno a me la polizia va in escandescenza – , non dormo, no, chiudo gli occhi e penso. Penso alla Palestina, alle tante volte che ho letto dei posti di blocco che laggiù regolano il diritto di muoversi per mangiare, per lavorare, per partorire e perfino per morire”. L’oratore ha la voce che vibra di commozione, ma continua: “Nessuno di noi ancora lo sapeva, ma l’otto dicembre 2005, due giorni dopo quella notte terribile, avrebbe avuto luogo una manifestazione pacifica “No Tav” di dimensioni inimmaginabili: nessun cittadino della Val Susa era riuscito ad accettare quei manganelli sulla testa, mentre opponeva parole, solo parole”.

Apre così, il Sindaco di Venaus, Nilo Durbiano, la serata in compagnia di Adballah Abu Rahmahil, con un aneddoto capace di tracciare immediatamente le coordinate dell’asse Val di Susa – Palestina. Perfino Luisa Morgantini si commuove davanti al collegamento dei movimenti di base non violenti e apartitici di due realtà tanto lontane, dalle Alpi al Giordano.

Quando Adballah Abu Rahmahil prende la parola ha fretta di dire che l’otto dicembre è una data importante anche per il popolo palestinese – un’ulteriore congiunzione dell’asse – che proprio quel giorno del 1987 diede inizio alla prima intifada di resistenza non violenta. Così come ritorna l’anno, il 2005, che ha visto nascere le prime manifestazioni palestinesi contro la costruzione del muro. Un muro che fu propagandato come baluardo per la sicurezza dagli israeliani, ma che si è rivelato da subito un segno tangibile di segregazione e di annessione illegittima di territori non ebrei.

Adballah Abu Rahmahil è il leader dei comitati popolari non violenti di Bil’in. Movimenti popolari che, giusto qualche giorno fa, hanno realizzato una grande vittoria: la costruzione del villaggio Bab al Shams, Porta del Sole. Tende innalzate in poche ore – con tanto di farmacie e negozi, a rappresentarne per intero il senso, del villaggio – nella zona di connessione tra il nord e il sud della Cisgiordania, proprio dove Netanyahu, all’indomani della proclamazione della Palestina quale stato osservatore ONU, ha promesso la costruzione di oltre tremila appartamenti ebraici.

Abdallah è riuscito nell’impresa di coordinare le tante forze della società palestinese, spesso divise, e riversarle in un obiettivo comune, la costruzione del villaggio. Si pensava a circa cinquanta tende e mille attivisti, numeri inimmaginabili per una regione punteggiata di check-point, dove ogni movimento sospetto e non, è controllato dai soldati. A rendere l’impresa ancora più ardua ci si è messa anche la neve che, dopo anni di assenza, proprio l’undici gennaio ha deciso di tornare a imbiancare la Palestina. Ma Abdallah, dopo il primo momento di sconforto, non si è dato per vinto: la neve convincerà qualcuno a starsene a casa, sì, ma anche i soldati ne subiranno gli effetti soporiferi. E così quattrocento persone, alle 5 del mattino, partono da Ramallah alla volta di Gerico. In due ore piantano le tende. I soldati arrivano mentre gli avvocati del movimento hanno appena presentato alla Corte di Giustizia israeliana la richiesta di autorizzazione all’insediamento del villaggio. “È importante conoscere bene la legge nella quale ci si muove per utilizzarla a proprio favore” sottolinea Abdallah. La Corte autorizza il villaggio per sei giorni, ma Netanyahu, che non rispetta alcuna legge, neanche le sue, ordina l’immediata distruzione dell’insediamento. Cinquecento soldati effettuano un’incursione notturna – alle tre, proprio le stesse modalità di evacuazione attuate in Val Susa, dice, guardando il Sindaco – e disperdono i manifestanti addormentati nelle tende. Persone “forti” dell’essere tutte disarmate.

Abdallah non si dà per vinto e il giorno dopo mette in scena un finto matrimonio per aggirare i controlli militari e raggiungere il villaggio. Prima di essere fermato, riesce ad avvicinarsi abbastanza per piantare una bandiera palestinese nell’accampamento, poi viene arrestato con il suo bell’abito da sposo indosso. Ma il vento che ha riempito quella bandiera ha fatto sì che un altro villaggio venisse costruito dopo qualche giorno, per manifestare contro la tratta dell’alta velocità che collegherà Gerusalemme a Tel Aviv. Una strada che verrà costruita in territorio palestinese – gli ambientalisti si sono opposti a un tale scempio paesaggistico nella parte israeliana e la soluzione ottimale è risultata costruire e devastare in casa altrui – ma che potrà essere utilizzata solo da cittadini israeliani. Assonanze, una sull’altra, che rafforzano l’ideale asse Val di Susa – Palestina.

Il Sindaco propone ad Abdallah di adottare il loro progetto “Un posto in prima fila” con cui i privati cittadini acquistano un metro quadrato di Valle, tentando poi di tenerselo stretto, quel metro. “Ci abbiamo già tentato, ma con scarsi risultati” – annuisce Abdallah, che poi rilancia con un sorriso –  “dobbiamo condividere i nostri progetti. Saremmo felici di ospitare una vostra delegazione, potremmo pensare a un gemellaggio”. Abdallah è consapevole del valore politico di un supporto esterno alla Palestina, un appoggio morale e di principio.

“Coraggio e forza della non violenza”, questo il titolo della serata che ha le legato la Val Susa alla Palestina. Perché ne richiede davvero tanto di coraggio e di forza, una scelta di resistenza non violenta. A un’ingiustizia che scopre il suo carattere di universalità, Abdallah e Nilo Durbiano, hanno saputo opporre una speranza che ha la stessa caratteristica, l’universalità, ma risuona con più forza, da una valle all’altra del Mediterraneo.