Trump peggiorerà la situazione? Cosa dovrebbero aspettarsi i Palestinesi

95783057PIC. Cresce un sentimento di paura e agitazione, ora che il neo-eletto Presidente Donald Trump sta rafforzando la squadra con individui capaci di condurre a scenari apocalittici, non solo per i cittadini americani, ma per il mondo intero.

Ancora più infausti sembrano i presagi per i Palestinesi. Dall’ex sindaco di New York Rudy Giuliani al leader Repubblicano Newt Gingrich, Trump si sta circondando di personaggi discutibili che hanno fatto carriera accondiscendendo a ogni richiesta di Israele e ignorando palesemente i diritti dei Palestinesi.

Nel 2011, Gingrich ha definito quello Palestinese un “popolo inventato”; Giuliani invece, a detta del Jewish News Service “viene ricordato con affetto in seno alla comunità ebraica per aver cacciato Yasser Arafat, Presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), da un concerto organizzato dalle Nazioni Unite al Lincoln Center, nel 1995”.

Se poi si considera la dichiarazione dello stesso Trump, nel mese di maggio, secondo cui le colonie illegali in Cisgiordania “dovevano andare avanti”, o i commenti più recenti da parte di Jason Greenblatt, consigliere del Presidente in Israele, convinto che gli insediamenti illegali “non costituiscano un ostacolo per la pace”, si può dedurre che l’amministrazione Trump è decisamente schierata contro una prospettiva di pace e contro il popolo palestinese.

Il governo israeliano, ovviamente, non vuole perdere l’opportunità di collaborare con la nuova amministrazione, tanto che il ministro dell’Istruzione Naftali Bennet ha dichiarato esultante: “È finita l’era dello Stato Palestinese”; mentre quello della Difesa, Avigdor Lieberman, ha chiesto a Trump di “coordinare lo sviluppo” degli insediamenti illegali.

Ma le prospettive dipinte dai media in relazione alle politiche estere degli Stati Uniti, con particolare riferimento a Israele e Palestina, partono da una base pregiudiziale. Se è vero che la squadra di vecchi politici scelta da Trump non condurrà in alcun modo al raggiungimento di una pace equa per i Palestinesi, è anche vero che sarebbe semplicemente ridicolo sostenere che tali condizioni esistessero con Obama.

La precedente amministrazione, nonostante i rapporti tesi tra il Presidente Barack Obama e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, è stata una delle più generose e ben disposte verso Israele. Gli USA di Obama sono rimasti saldamente al fianco di Israele e insieme hanno contrastato ogni aspirazione politica dei Palestinesi negli organismi internazionali.

Di recente, Obama ha siglato uno “storico accordo”, elargendo a Israele 38 miliardi di dollari in aiuti militari, la somma più alta nella storia degli Stati Uniti.

Chi teme che la situazione dei Palestinesi peggiorerà durante la presidenza Trump può stare tranquillo: è già precipitata.

Ci saranno ripercussioni sulla posizione dell’America in merito a un possibile Stato palestinese?

Anche in questo caso, la risposta è negativa, perché Obama, come i suoi predecessori, ha fatto di tutto per evitare che lo Stato Palestinese prendesse forma. La differenza tra le due esperienze di governo sarà più nella retorica che nella pratica: quella appena conclusasi era raffinata e articolata, questa è belligerante e demagogica. In ogni caso, i Palestinesi ne escono da perdenti.

Durante l’ultimo discorso alle Nazioni Unite, Obama ha dedicato una sola battuta alla questione israelo-palestinese, una frase che ha evidenziato in modo inequivocabile la sua incapacità di incidere positivamente sul conflitto più lungo e destabilizzante della regione mediorientale.

Entrambe le parti “starebbero meglio se i Palestinesi rinunciassero alla violenza e riconoscessero la legittimità di Israele e se, d’altro canto, Israele ammettesse che non può occupare e colonizzare in modo permanente il territorio palestinese”. Questa è stata la sua unica dichiarazione.

Nei discorsi precedenti, l’impianto retorico per descrivere il conflitto tra Palestina e Israele era stato più meritevole; in quest’ultimo, invece, e in particolare in questa unica frase, ha dimostrato che negli otto anni di governo non ha avuto una chiara visione da perseguire e non l’ha neanche cercata.

Durante questi otto anni, in cui migliaia di persone innocenti sono morte, soprattutto tra i Palestinesi, Obama si è verosimilmente impegnato a raggiungere il proverbiale, quanto inefficace, “compromesso”. Le sue politiche hanno avuto conseguenze disastrose: ai Palestinesi, ha venduto solo false speranze, mentre ha soddisfatto ogni bisogno di Israele in termini di aiuti militari, proteggendolo anche dalla condanna della comunità internazionale.

Inoltre, durante la guerra su Gaza del 2014, in cui migliaia di persone sono morte o rimaste ferite, Obama ha assicurato all’esercito di Israele munizioni e armamenti.

Dal punto di vista meramente politico, ha fatto in modo che fallissero tutti i tentativi dei Palestinesi di ottenere il riconoscimento del futuro stato. Si è spinto fino a negare all’UNESCO il 25% dei finanziamenti che percepiva, solo perché l’organizzazione aveva ammesso la Palestina come suo membro.

Eppure, c’è ancora chi, con una buona dose di ingenuità, spera che Obama riconosca lo Stato di Palestina presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU durante queste ultime settimane alla Casa Bianca. Speranze alimentate dai retroscena riportati dalla stampa, secondo cui Obama avrebbe dato istruzioni al Dipartimento di Stato per sviluppare una strategia sulla risoluzione del conflitto.

I Palestinesi e i loro sostenitori sembrano ottimisti su una possibile, seppur simbolica, redenzione di Obama, ma questa prospettiva appare altamente improbabile, tanto più che Trump annullerebbe ogni provvedimento in tal senso subito dopo l’insediamento.

L’ex Presidente ha avuto otto anni per dimostrare coraggio e determinazione; avrebbe potuto approfittare della popolarità di cui godeva nel corso del primo mandato per sfidare la lobby pro-Israele e presentare il suo Paese come un “onesto intermediario” in un conflitto impari. Quanto meno, avrebbe potuto schierarsi con la stragrande maggioranza della comunità internazionale, per unirsi al coro di quanti avevano riconosciuto lo Stato Palestinese.

Solo nel settembre dello scorso anno, il riconoscimento è stato approvato da 139 Paesi membri dell’ONU e da due che non sono stati membro. Tuttavia, si tratterà di azioni puramente simboliche, fin quando gli Stati Uniti ostacoleranno le legittime aspirazioni dei palestinesi. Nel tentativo di dimostrare il proprio sostegno a Israele, gli USA non si limitano a impedirne lo status di Stato membro a tutti gli effetti, cercano anche in ogni modo di ostacolarne l’accesso presso gli organismi internazionali.

A prescindere dalla posizione che il Dipartimento di Stato consiglierà di assumere a Obama negli ultimi giorni alla Casa Bianca, le sorti della Palestina non sono destinate a cambiare nell’immediato. A giudicare dalle aperture amichevoli di Trump a Israele, come l’invito a visitare Washington rivolto a Netanyahu e sua moglie subito dopo la vittoria, il futuro non sembra roseo.

La storia ci insegna che la politica estera degli Stati Uniti nei confronti della questione israelo-palestinese sembra destinata a peggiorare, non a migliorare. L’attuale divario con la società civile americana, con gli organi di stampa e le élite politiche non sembra intaccare il solido rapporto con Israele: la guerra senza campo contro i diritti dei palestinesi e le loro ambizioni continuerà indisturbata.

La classe dirigente palestinese sembra incapace di cogliere una realtà tanto ovvia. L’ANP è inconsapevole, o forse incurante, del fatto che la salvezza non arriverà certo da Washington, ma dalla sua capacità di gestire l’alleanza tra USA e Israele in modo unitario e risoluto.

Il ruolo di Obama, o anche quello di Trump, sarà comunque marginale se i Palestinesi dovessero restare divisi. Al di là delle banali provocazioni di Gingrich e Giuliani, il vero ostacolo per i Palestinesi sono le divisioni interne e l’incapacità di fronteggiare l’occupazione israeliana con una strategia unitaria ed efficace.

Traduzione di Romana Rubeo