Un confronto costruttivo tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid

Di Joseph Dana. Quanto sono legittimi i confronti tra il controllo esercitato da Israele sui palestinesi e il trattamento di apartheid esercitato sui neri dal Sudafrica dell’apartheid? Mentre la Settimana contro l’Apartheid israeliana viene ospitata nelle università di tutto il mondo, una rinnovata attenzione è rivolta ai paragoni delle politiche dei due paesi. Quest’anno la frenesia generata dalla Settimana contro l’Apartheid israeliana, date le recenti conferenze sulla campagna Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds), e sulla soluzione dello Stato unico al conflitto israelo-palestinese tenutesi presso due università Ivy League statunitensi, è molto intensa.

Naturalmente, entrambe le conferenze hanno attinto a piene mani dalla storia del Sudafrica dell’apartheid, per sostenere che Israele è avviato a diventare esso stesso uno stato di apartheid, se non lo è già. Si può sostenere che Israele è un paese basato su privilegi etnici e che un gran numero di persone (i palestinesi di Cisgiordania, cittadini deprivati e oppressi) si trovano sotto il suo controllo, in una condizione, di fatto, di apartheid. Per non parlare della discriminazione istituzionalizzata che i palestinesi cittadini israeliani devono affrontare in quasi tutti gli aspetti della vita civile.

Gli individui e i gruppi reazionari che si auto-definiscono “Pro-Israele” tengono a bada con prontezza questa retorica. Israele è colpevole di molte cose, anche di razzismo, si sostiene solitamente: ma non è il Sudafrica dell’apartheid. Questa posizione radicata e attesa, ripetuta nel tempo dai passati primi ministri israeliani, e messa in dubbio dalla pubblicazione, nel 2010, del volume “The Unspoken Alliance: Israel’s Secret Relationship with Apartheid South Africa” ha assunto un tono incredibilmente ironico.

Ciononostante molti israeliani tuttora concordano sulla necessità di implementare il programma di segregazione, al fine di preservare il carattere ebraico dello Stato. Con una grossa dose di dissonanza cognitiva, viene spesso sostenuta senza problemi la definizione di Israele come “Stato ebraico e democratico”, che concede e garantisce privilegi su basi etniche.

In un periodo in cui il braccio di ferro tra Israele e Iran appare sempre più come una crisi su misura, progettata per tenere fuori dai riflettori la questione palestinese, gli attivisti palestinesi e i loro sostenitori stanno raddoppiando gli sforzi per riformulare la narrativa del conflitto. Lo scopo consiste nell’evidenziare la deprivazione dei diritti umani dei palestinesi, in contrapposizione alla narrativa, attentamente gestita, sulla sicurezza, diventata nel tempo il luogo comune della comprensione occidentale del conflitto.

Il dibattito sui diritti ha bisogno di una disamina dei metodi impiegati da Israele nella salvaguardia del suo programma di rafforzamento della separazione tra ebrei israeliani e palestinesi, sia nei territori occupati che in Israele. E’ qui che un confronto tra Israele e il Sudafrica dell’apartheid può rivelarsi proficuo.

Forse il modo migliore per comprendere le similitudini tra il Sudafrica e Israele, consiste semplicemente nel leggere le notizie quotidiane provenienti da Israele. Per esempio, in seguito a una protesta palestinese non-violenta, le recenti notizie mainstream hanno dedicato molta attenzione, in modo inusuale, al controverso utilizzo che Israele fa della detenzione amministrativa. Khader Adnan, 33enne padre di due bambini, portavoce del gruppo militante del Jihad islamico, ha intrapreso uno sciopero della fame durato 66 giorni – il più lungo nella storia palestinese – in segno di protesta contro la detenzione amministrativa subita dallo scorso dicembre, dopo che dei soldati israeliani, una notte, avevano fatto irruzione nella sua abitazione nel nord della Cisgiordania.

Inizialmente, la questione dibattuta nel caso Adnan non ha riguardato il coinvolgimento nel gruppo estremista islamico del Jihad, bensì la detenzione senza processo. Eminenti esperti americani hanno chiarito la questione della detenzione amministrativa israeliana paragonandola alle recenti disposizioni di legge americane, che accompagnano la “guerra al terrore”: ma solo alcuni hanno fatto osservare il paragone ovvio e scioccante tra la detenzione amministrativa e la detenzione senza processo del Sudafrica dell’apartheid. Ho trattato l’argomento sul Daily Mail e sul Guardian di venerdì scorso:

“L’obiettivo principale della detenzione senza processo dell’apartheid era il controllo della popolazione non bianca con la creazione di un’apparenza di giustizia. Utilizzando il linguaggio sulla sicurezza della prelazione, il Sudafrica dell’apartheid creò disposizioni di legge che servirono gli sforzi del regime atti a schiacciare qualsiasi protesta. Vi è una mole di prove crescente che sta a indicare come il sistema legale-militare israeliano, in Cisgiordania, serva a un proposito simile”.

Nel momento in cui l’occupazione israeliana della West Bank, e la discriminazione istituzionalizzata dei palestinesi, sembrano aver raggiunto il picco, si avverte la grande necessità di rivedere le strutture del Sudafrica dell’apartheid, e le loro affinità con le attuali procedure di governo israeliane. Paragonare Israele al Sudafrica dell’apartheid, può essere utile non tanto per accusare Israele di attuare condanne irragionevoli, quanto a fornire importanti lezioni storiche, utili a migliorare la situazione sul terreno in Israele e in Palestina. Tale procedura probabilmente svelerà paragoni dolorosi, ma rivelerà anche indizi cruciali su come muoversi verso la fine del conflitto israelo-palestinese.

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice