Un palestinese in sciopero della fame: ‘Seppellitemi nella tomba di mia madre’

Al Jazeera. Di Fayha Shalash e Ramzy Baroud.

(Da Zeitun.info). Ingiustizia e violenza hanno spinto molti prigionieri palestinesi a disperati e rischiosi scioperi della fame.

Uno dei tanti modi in cui Israele cerca di opprimere e controllare la popolazione palestinese è incarcerare chi guida la resistenza contro l’occupazione e il progetto coloniale di insediamento.

In Palestina un prigioniero palestinese in un carcere israeliano viene definito “aseer”, cioé recluso, perché lui o lei non è un criminale. Ciò che conduce i palestinesi nelle carceri israeliane sono atti di resistenza – dallo scrivere una poesia sulla lotta contro l’occupazione al compiere un’aggressione contro soldati israeliani nella terra palestinese occupata. Per l’occupazione israeliana, comunque, ogni atto di resistenza o provocazione palestinese è catalogato come una forma o di “terrorismo” o di “incitamento” [all’odio], che non può essere tollerata.

Attualmente ci sono 5.450 prigionieri nelle carceri israeliane, 205 dei quali sono minori e 48 donne. In base ad alcune stime, dall’occupazione israeliana di Gerusalemme est, Cisgiordania e Gaza nel giugno 1967, oltre 800.000 palestinesi sono stati imprigionati nelle carceri israeliane.

Superfluo dirlo, come Israele cerca di mantenere tutta la popolazione palestinese in continua miseria e oppressione, lo stesso fa nei confronti dei prigionieri palestinesi.

Nei mesi scorsi le già terribili condizioni in queste carceri sono ulteriormente peggiorate dopo che il governo israeliano ha annunciato che avrebbe adottato rigide misure nelle prigioni come tecnica di “deterrenza” – una iniziativa che in Israele è stata vista come propaganda elettorale.

“Compaiono in continuazione immagini irritanti di persone che cucinano nelle sezioni dei terroristi. Questa festa è finita”, ha detto a inizio gennaio il ministro israeliano della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan. I suoi progetti comprendono limitazioni all’uso dell’acqua da parte dei prigionieri, il divieto di cucinare in cella e l’installazione di dispositivi di interferenza per bloccare il presunto uso di cellulari entrati di contrabbando.

Quest’ultima misura, in particolare, ha provocato l’indignazione dei prigionieri, poiché quei dispositivi sono stati messi in relazione a gravi dolori alla testa, svenimenti e disturbi duraturi.

A fine gennaio il Servizio Penitenziario Israeliano (IPS) ha compiuto nel carcere militare di Ofer vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, un raid che ha provocato il ferimento di oltre 140 prigionieri palestinesi, alcuni dei quali colpiti da proiettili veri.

A fine marzo anche le prigioni di Naqab, Ramon, Gilboa, Nafha e Eshel sono state oggetto di incursioni, che hanno causato molti feriti tra i prigionieri palestinesi. La rabbia è esplosa e il 7 aprile centinaia di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno lanciato uno sciopero della fame di massa che è terminato otto giorni dopo in seguito a un accordo tra i prigionieri palestinesi e l’IPS.

In mezzo al baccano pre-elettorale in Israele, questa notizia è stata ampiamente ignorata dai media internazionali, che si sono invece focalizzati sulla dichiarazione del presidente USA Donald Trump sulle Alture del Golan e sulla promessa del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di annettere la Cisgiordania.

Invece per i palestinesi, la maggior parte dei quali soffre per avere un parente nelle carceri israeliane, tenuto in condizioni che violano i requisiti minimi del diritto internazionale e umanitario, questo è stato un grave motivo di preoccupazione e anche di rabbia. I palestinesi sanno che dietro ai numeri e alla propaganda israeliana che definisce questi uomini, donne e minori come “terroristi” vi sono tragiche storie umane di sofferenza e tenacia.

Una di queste storie è quella del giornalista palestinese Mohammed al-Qiq, marito della coautrice di questo articolo, Fayha Shalash.

Al-Qiq lavorava come corrispondente della rete di informazioni saudita Al-Majd, occupandosi della Cisgiordania. I suoi reportage televisivi relativi all’esecuzione da parte dell’esercito israeliano di presunti aggressori palestinesi nel corso di quella che è stata chiamata la rivolta di Al-Quds hanno ricevuto molta attenzione in tutto il Medio Oriente e gli hanno procurato molta ammirazione tra i palestinesi.

A causa del suo lavoro è stato giudicato una “minaccia” dallo Stato israeliano e nel novembre 2015 è stato arrestato. Questa è la sua storia.

‘Seppellitemi nella tomba di mia madre’.

Sabato 21 novembre 2015, un mese e mezzo dopo l’inizio della rivolta di Al- Quds, i soldati israeliani hanno fatto irruzione in casa nostra. Hanno sfondato la porta d’ingresso della nostra modesta casa e sono entrati. È stata la scena più spaventosa che si possa immaginare. Nostra figlia di un anno, Lour, si è svegliata e ha incominciato a piangere. Mentre Mohammed veniva bendato e ammanettato, Lour continuava ad abbracciarlo e accarezzarlo.

Per fortuna Islam, che allora aveva tre anni, dormiva ancora. Sono felice di questo perché non volevo che vedesse suo padre portato via dai soldati in un modo così violento.

Al mattino ho dovuto dirgli che suo padre era stato portato via; mentre cercavo di spiegargli, gli tremavano le labbra e il suo viso aveva una smorfia di paura e di dolore che nessun bambino dovrebbe mai provare.

Era la quarta volta che Mohammed veniva arrestato. Il primo arresto fu nel 2003, quando è stato detenuto per un mese; poi nel 2004 è stato nuovamente arrestato e detenuto per 13 mesi e nel 2008 è stato condannato da un tribunale israeliano a 16 mesi di prigione per le sue attività politiche e per il suo impegno nel Consiglio studentesco dell’università di Birzeit.

Poi Mohammed è stato portato nel famigerato centro di detenzione Al-Jalameh per l’interrogatorio. Non gli è stato permesso di vedere un avvocato fino al ventesimo giorno di detenzione. È stato torturato fisicamente e psicologicamente e gli è stato ripetutamente chiesto di firmare una falsa confessione [in cui ammetteva] di essere impegnato in “istigazione attraverso mezzi di informazione”, cosa che ha rifiutato di fare.

Abbiamo saputo che la sua detenzione è stata prorogata diverse volte, ma non avevamo nessun’altra notizia da lui. Le nostre richieste di visita in quanto familiari sono state respinte e tutto ciò che potevamo fare era aspettare e pregare.

A inizio dicembre mi sono imbattuta in una notizia riportata online, secondo cui mio marito aveva iniziato uno sciopero della fame. Ho immediatamente telefonato all’Associazione dei Prigionieri, una Ong nata nel 1993 per sostenere i prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane, e per pura fortuna sono riuscita a contattare un avvocato di nome Saleh Ayoub che aveva visto Mohammed in tribunale. Mi ha detto che mio marito veniva processato a porte chiuse, il che significa che né la sua famiglia né il suo avvocato erano stati informati del processo.

Mentre Mohammed veniva riportato in cella, si è avvicinato a Ayoub ed è riuscito a dirgli queste parole: “Sono il prigioniero Mohammed al-Qiq. Dite alla mia famiglia e ai media che sto facendo uno sciopero della fame. Attualmente sono in arresto a Al-Jalameh.”

Quando ho sentito ciò, mi sono molto spaventata. Nella mia famiglia non abbiamo mai fatto questa esperienza. Non comprendevo del tutto le conseguenze di una tale decisione, ma ho deciso di appoggiare mio marito.

Per mesi ho seguito ogni associazione per i diritti umani che potesse aiutarmi a ottenere qualche informazione sulla salute mentale e fisica di Mohammed. Gli israeliani non avevano prove contro di lui, ma continuavano a trattenerlo, nonostante la sua salute andasse peggiorando. Quando ha incominciato ad avere emorragie e a non reggersi più in piedi è stato trasferito all’ospedale del carcere di Ramleh.

A nessuno è stato permesso di visitarlo nell’ospedale del carcere, né a noi né alla Croce Rossa. Il caso di Mohammed non è l’unico, in quanto Israele consente il completo isolamento di ogni prigioniero che faccia uno sciopero della fame.

Mohammed è diventato ancor più determinato a portare avanti il suo sciopero della fame quando il tribunale israeliano lo ha condannato a sei mesi di “detenzione amministrativa”, che significa che loro non avrebbero potuto sostenere le accuse contro mio marito con alcuna prova tangibile, ma rifiutavano di liberarlo. L’ordine di detenzione amministrativa è rinnovabile fino a tre anni.

Per me è stata una corsa contro il tempo. Dovevo fare in modo che il mondo mi ascoltasse, ascoltasse la storia di mio marito, perché si facesse sufficiente pressione su Israele perché lo liberasse. Temevo che potesse essere troppo tardi, che Mohammed morisse prima che quel messaggio risuonasse in tutta la Palestina e nel mondo.

Dato che la sua salute continuava a peggiorare, è stato portato all’ospedale di Afouleh, dove hanno cercato di alimentarlo a forza. Lui si è rifiutato. Quando hanno tentato di alimentarlo con una flebo, si è strappato l’ago dal braccio e lo ha gettato a terra. Conosco mio marito, per lui la vita senza libertà non vale la pena di essere vissuta.

Dopo un mese di sciopero della fame Mohammed ha cominciato a vomitare bile gialla e sangue. Il dolore al ventre e alle articolazioni e le continue emicranie erano insopportabili. Nonostante tutto questo, continuavano a legarlo al letto d’ospedale. Il suo braccio destro ed entrambi i piedi erano bloccati agli angoli del letto da pesanti ferri. È stato lasciato così per tutto il tempo.

Sentivo che Mohammed stava per morire. Ho cercato di spiegare a mio figlio che suo padre rifiutava il cibo per lottare per la sua libertà. Islam continuava a ripetere: “Quando crescerò, lotterò contro l’occupazione”. Lour sentiva la mancanza del padre ma non capiva niente. Quando combattevo per la libertà del loro papà, non avevo altra scelta che stare lontana da loro per lunghi periodi. La nostra famiglia era spezzata.

Il 4 febbraio 2016 Mohammed è entrato nel 77mo giorno di sciopero della fame. In seguito alla pressione popolare ed internazionale, ma soprattutto a causa dell’irremovibile volontà di Mohammed, l’occupazione israeliana è stata costretta a sospendere l’ordine di “detenzione amministrativa”. Ma per Mohammed non era abbastanza.

Con questa mossa, l’occupazione israeliana intendeva mandare un segnale che la crisi era stata scongiurata, nel tentativo di ingannare i media e il popolo palestinese. Ma Mohammed non ne voleva sapere, voleva essere lasciato libero, perciò ha proseguito lo sciopero per altre settimane.

In quel momento mi è stato dato il permesso di fargli visita, ma ho deciso di no, per non dare l’impressione che tutto adesso andasse bene, giocando inavvertitamente a favore della propaganda israeliana.

È stata la decisione più difficile che abbia mai dovuto prendere, stare lontana dall’uomo che amo, dal padre dei miei figli. Ma sapevo che se lui avesse visto me o i bambini si sarebbe troppo emozionato, o peggio ancora avrebbe potuto avere un crollo fisico ancor più grave. Ho mantenuto l’impegno di sostenerlo nella sua decisione fino alla fine.

A un certo punto ho pensato tra me che Mohammed non sarebbe mai più tornato e sarebbe morto in prigione.

Era così legato ai nostri figli. Li amava con tutto il cuore e cercava di passare il maggior tempo possibile con loro. Giocava con loro, li portava entrambi a passeggiare intorno alla casa o nei dintorni. Perciò quando la sua morte è diventata una reale possibilità, mi sono chiesta che cosa avrei detto loro, come avrei risposto alle loro domande quando fossero cresciuti senza un padre e come avrei potuto andare avanti senza di lui.

Quando è arrivato all’ottantesimo giorno di sciopero della fame, il suo corpo ha cominciato ad avere convulsioni. Ho saputo in seguito che questi spasmi involontari erano molto dolorosi. Ogni volta che sopraggiungevano, lui recitava la Shahada [la professione di fede nell’Islam, ndtr.] – “Non c’è altro dio all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta” – in previsione della sua morte.

Consapevole di ciò che sembrava essere la sua inevitabile morte, Mohammed ha scritto un testamento di cui io non ero a conoscenza. Mi è crollato il mondo addosso quando ho ascoltato le parole del suo testamento lette in televisione:

“Mi piacerebbe vedere mia moglie e i miei bambini, Islam e Lour, prima di morire. Voglio solo essere sicuro che stiano bene. Vorrei anche che l’ultima preghiera per il mio corpo fosse recitata nella moschea Durra. Per favore seppellitemi nella tomba di mia madre, in modo che lei possa prendermi in braccio come faceva quando ero bambino. Se questo non si può fare, per favore seppellitemi il più vicino possibile a lei.”

Durante il suo sciopero della fame le fotografie dei bambini sono rimaste accanto al letto d’ospedale di Mohammed. “I miei bambini si ricordano di me?”, soleva chiedere a chiunque lo andasse a trovare.

Alla fine, la sua determinazione si è dimostrata più forte dell’ingiustizia dei suoi aguzzini. Il 26 febbraio 2016 è stato annunciato che era stato raggiunto un accordo tra il Comitato dei Prigionieri Palestinesi che rappresentava Mohammed e l’amministrazione penitenziaria israeliana. Mio marito sarebbe stato rilasciato il 21 maggio dello stesso anno.

Mohammed ha ottenuto la libertà dopo 94 giorni di sciopero della fame. Ha dimostrato al mondo di non essere un terrorista come sostenevano gli israeliani e di essere stato punito per aver semplicemente informato il mondo delle sofferenze del suo popolo. Grazie alla sua inflessibile resistenza le autorità militari israeliane sono state costrette a cancellare tutte le accuse contro di lui.

L’incarcerazione di Mohammed rimane un ricordo doloroso, ma anche una grande vittoria per i palestinesi di ogni luogo. Quando è entrato in carcere Mohammed pesava 99 chili; quando ha terminato lo sciopero della fame ne pesava solo 45. Il suo corpo era ridotto a pelle ed ossa. La sua struttura atletica era collassata su sé stessa, ma il suo spirito ha continuato a crescere, come se più fisicamente debole si sentisse, più diventasse forte la sua volontà.

Quando sono andata a trovarlo coi nostri figli una settimana dopo la fine del suo sciopero, non l’ho riconosciuto. Ho pensato di essere entrata nella stanza sbagliata, ma quando mi sono avvicinata ho visto i suoi begli occhi amorevoli, l’ ho abbracciato e ho pianto.

Mohammed è stato rilasciato alla data concordata, ma è stato nuovamente arrestato otto mesi dopo. Ha immediatamente iniziato un altro sciopero della fame che è durato 33 giorni.

Oggi Mohammed è libero, ma parla ancora della prigione e la nostra famiglia non ha ancora superato il trauma che abbiamo subito. Islam è preoccupato che suo padre possa essere nuovamente arrestato di notte. Gli dico di non preoccuparsi, ma io stessa sono terrorizzata da quella possibilità. Sogno il giorno in cui non avrò più paura di poter perdere mio marito.

Rivivo anche quella straziante esperienza tutte le volte che un prigioniero palestinese inizia un altro sciopero della fame. So che non è una decisione facile mettere in gioco la propria vita, rischiare tutto per ciò in cui si crede. Gli scioperi della fame non comportano solo un alto prezzo per i corpi e le menti dei prigionieri. Anche le loro famiglie e le loro comunità devono sopportare gran parte di quel pesante fardello.

Mi sento accanto a tutti loro e prego dio che tutti i nostri prigionieri vengano presto liberati.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Al Jazeera.

Fayha Shalash è una giornalista palestinese che vive nella città di Birzeit in Cisgiordania.

Ramzy Baroud è un giornalista noto a livello internazionale, consulente di media e scrittore.

(Foto: Mohammed al-Qiq).

Traduzione per Zeitun.info di Cristiana Cavagna.