“Un sondaggio conferma quello che già sappiamo: in Israele vige un sistema di apartheid”

Memo. I cittadini di Israele vogliono davvero mettere fine al conflitto israelo-palestinese che ha assediato il Medio Oriente per così tanti anni? I risultati del sondaggio condotto dalla società Dialog per conto del “Fondo Israela Goldblum” e pubblicati sul quotidiano israeliano Ha’aretz la scorsa settimana sembrano proprio indicare di no. Quello che vuole la maggior parte è la perpetuazione dell’esistente sistema di apartheid attualmente in atto a Israele.

I risultati dell’inchiesta indicano che il 58% degli intervistati ammette il fatto che Israele abbia già un sistema politico di apartheid. Secondo l’analista dell’opinione pubblica Dalia Scheindlin di Tel Aviv, il termine apartheid viene solitamente respinto dagli  gli israeliani. Ma i risultati della sua inchiesta si fermano lì.

In linea con i precedenti sondaggi che hanno mostrato che molti israeliani appoggiano le politiche discriminatorie del loro governo, l’inchiesta rivela che il 69%  crede che si dovrebbero privilegiare gli ebrei rispetto ai cittadini di Israele arabo-palestinesi per quanto riguarda le candidature per incarichi di governo. Il 42% afferma di non voler condividere edifici con Arabi, né di voler lasciare che i loro figli frequentino la stessa classe di bambini arabi.

I sondaggi confermano ciò che sta succedendo nella vita quotidiana. Le scuole israeliane sono separate, con scuole diverse per arabi ed ebrei e un’iniqua distribuzione dei fondi; ed è raro trovare arabi ed ebrei che abitano negli stessi condomini. Alla prova dei fatti, l’accesso al lavoro, alla sanità e a altri servizi pubblici è costellato di ingiustizie e discriminazioni.

Forti critiche sono sorte in reazione ad un acuto articolo del giornalista Gideon Levy, pubblicato sul quotidiano Ha’aretz e contenente opinioni in controtendenza riguardo i risultati del sondaggio. Il critico e blogger Avi Mayer ha chiesto perché nell’articolo non vengono menzionati i 53% di israeliani che hanno affermato che vivere nello stesso edificio dei palestinesi non creerebbe alcun problema. Tuttavia, in qualunque modo vengano presentati, i risultati del sondaggio sono sconvolgenti.

Uno schiacciante 74% di coloni ebrei nel territorio occupato della Cisgiordania ha dichiarato di essere favorevole alla separazione delle strade per tutto il territorio. Strade separate per diversi gruppi etnici sono una forma di discriminazione razziale e sono parte di un sistema che controlla la libertà di movimento dei palestinesi, così come lo sono i molteplici checkpoint e il muro di separazione tra i territori israeliani e quelli palestinesi.

Un’ampia sezione dell’inchiesta è basata su una situazione ipotetica. Immaginatevi, è stato chiesto agli intervistati, che Israele annetta la Cisgiordania: i cittadini ebrei sosterrebbero o contrasterebbero i diritti dei 2,5 milioni di palestinesi che ci vivono?

È importante qui far notare che il 48% si oppone del tutto all’idea dell’annessione, tuttavia il 38% (una minoranza ragguardevole) la appoggerebbe. Ancora più inquietante, se la Cisgiordania dovesse essere annessa, il 69% degli intervistati ha dichiarato che non si dovrebbe permettere ai palestinesi di votare. Un ulteriore 47% di israeliani appoggia l’espulsione degli arabi da Israele verso ai i territori controllati dai palestinesi.

I cittadini arabi di Israele sono sempre stati sottoposti a pratiche discriminatorie. Dal 1948, i cittadini palestinesi hanno fondato solo sette comunità entro i confini  di Israele precedenti al 1967, in contrasto con la fioritura di 700 comunità di israeliani. Il governo non ha avuto problemi a “ebraicizzare” quelle parti della nazione che avevano una percentuale maggiore di palestinesi rispetto ai cittadini ebrei. I palestinesi nella parte est di Gerusalemme lottano continuamente contro le demolizioni delle proprie case e contro l’iniquo accesso ai servizi pubblici.

Improbabili critiche, come quella di Sharon Mittleman sul giornale on line J-wire, che ha affermato che gli intervistati potrebbero aver frainteso il termine “apartheid”, servono a poco, né offrono una giustificazione ragionevole. Forse è vero che il campione di 503 persone che hanno partecipato al sondaggio (su un totale approssimativo di 6 milioni di ebrei israeliani) era troppo piccolo per essere rappresentativo, ma la realtà non può essere ignorata: non c’è bisogno di un sondaggio per dirci che in Israele è in vigore un sistema di apartheid. Le prove sono dappertutto.

Gideon Levy incolpa “anni di lavaggio del cervello” che hanno creato, agli occhi degli israeliani, l’immagine dell’arabo come terrorista, criminale o persona primitiva. Certo, la completa mancanza di responsabilità, l’approvazione dei coloni e la cinica retorica dei politici israeliani non hanno aiutato la situazione, ma le persone possono e devono pensare da sole.

Dunque cosa si può fare  a riguardo? Di certo, il riconoscimento degli orrori del Nabka (Catastrofe) del 1948 porterebbero in qualche modo verso la fine della continua pulizia etnica dalla propria terra nei confronti dei palestinesi. Sono poi essenziali, sia all’interno del sistema educativo che in quello mediatico, anche l’analisi e il racconto imparziale del passato (e del presente) di Israele.

Mentre questo sondaggio arriva ad appena tre mesi prima delle elezioni generali in Israele, i cambiamenti non sembrano essere imminenti. Nessuno dei partiti politici principali ha un programma che possa variare in modo significativo rispetto a quello della coalizione attuale, che è pieno di contenuti razzisti ed estremisti. Il cambiamento può avvenire solamente attraverso un aumento di consapevolezza nell’opinione pubblica israeliana, e attraverso la condanna, non l’appoggio, della comunità internazionale. L’apartheid è un crimine contro l’umanità che non può essere tollerato nel ventunesimo secolo, né in Israele né in qualsiasi altro posto.

Traduzione per InfoPal a cura di Daniela Sala