Una nuova legge identitaria solleva timori sugli sforzi israeliani per dividere i cristiani

Betlemme – Alex Shams, Ma’an. Lunedì 24 febbraio 2014 è passata al Knesset, con più di tre quarti dei voti a favore, una nuova legge che crea una nazionalità “cristiana” separata per i cittadini palestinesi di Israele. La legge, che crea una distinzione dall’esistente nazionalità “araba”, ha sollevato timori tra molti dei palestinesi sul fatto che sia in corso una nuova spinta da parte dello stato per dividere la società a seconda della religione.

I sostenitori della legge affermano senza mezzi termini che la nuova misura non è solamente una formalità legale, ma che intende invece togliere enfasi all’identità araba dei cristiani, razzializzando e politicizzando le distinzioni religiose esistenti. “È un passo importante e storico che può bilanciare lo stato di Israele e connetterci con i cristiani; e sono attento a non riferirmi a loro come arabi, perché non sono arabi”, ha detto a gennaio il promotore della legge, MK Yariv Levin (Likud), aggiungendo che i cristiani sono “i nostri alleati naturali”, a differenza dei musulmani, “che vogliono distruggere lo stato dall’interno”.

Mercoledì, il membro della commissione esecutiva dell’Olp Hanan Ashrawi ha condannato la legge, definendola uno sforzo per trasformare l’occupazione in un “confronto religioso bello e buono”, e sottolineando che Israele sta adottando una “politica della classificazione dei suoi cittadini basata sulla religione o sull’etnia” come parte di un più largo sistema di “apartheid”.

Una commissione del Knesset sta persino cercando di istituire il servizio militare obbligatorio per i 120 mila cristiani palestinesi, una proposta che ha sollevato le ire di musulmani e cristiani, al momento esentati dall’obbligo.

Ma la società palestinese non sta subendo passivamente questi sforzi. Un membro del Knesset si è addirittura appellato al papa affinché intervenga. I gruppi della società civile di entrambe le parti della Green Line, nel frattempo, stanno mobilitando una campagna di resistenza locale e globale per quella che temono essere una campagna più grande per fare a pezzi la loro società religiosamente variegata.

Strategia del divide et impera

“Faremo tutto ciò che è in nostro potere per fermare questa legge”, afferma Rifat Kassis, capo del gruppo attivista cristiano-palestinese Kairos.

“Siamo contrari. Tutti i cristiani bene informati sono contrari”, dice, sottolineando che la grande maggioranza dei cristiani di Israele, così come i 50 mila cristiani palestinesi della Cisgiordania – dove ha sede l’organizzazione – si oppongono alla misura.

“I cristiani sono parte integrante della comunità palestinese… Siamo palestinesi come tutti gli altri”.

Kassis riconosce che alcuni cristiani palestinesi sostengono la legge, ma insiste che sono una piccola minoranza. “Dovremmo rispettare le differenze di opinione, ma [il movimento per il boicottaggio] è sostenuto dalla vasta maggioranza dei cristiani” sia in Cisgiordania che in Israele, spiega. “Una minoranza la pensa diversamente, ma questo fenomeno viene incoraggiato dallo stato stesso”.

Secondo l’opinione di Kassis, la legge riflette la “natura di apartheid” dello stato israeliano e la sua incapacità di “trattare i propri cittadini come cittadini” bensì come un miscuglio di gruppi religiosi.

Le radici della legge, afferma Kassis, si trovano “nelle strategie britanniche del divide et impera”, in riferimento a come i colonizzatori britannici hanno sfruttato le differenze religiose per arruolare i locali nel progetto coloniale. I colonizzatori hanno spesso favorito alcuni gruppi – in particolare i cristiani – ed enfatizzato i loro legami con la civiltà europea. Questa negazione dell’identità indigena agli arabi cristiani era intesa a recidere i legami con i vicini e a indebolire società e resistenza palestinesi.

Un piano metodico fin dal 1948

Molti vedono questi sforzi in un’ottica simile, sottolineando che le autorità israeliane hanno storicamente cercato di manipolare e politicizzare le divisioni culturali o religiose per indebolire il movimento nazionale palestinese.

Nidaa Nassar, project coordinator per Baladna, un’organizzazione giovanile palestinese di Israele, afferma che queste mosse “non sono un fenomeno marginale, ma un piano metodico che è stato attuato gradualmente fin dal 1948”. “Fanno parte di un progetto politico per dividerci, perché se diventiamo piccoli gruppi smetteremo di condividere la nostra identità nazionale”, sostiene. Le istituzioni governative israeliane “tentano di trovare partner per cercare modi di collaborare con i palestinesi” al processo, sfruttando i “punti deboli” nella società palestinese in Israele per scopi politici.

Nassar afferma che il settarismo – religioso, tribale, regionale ed altri – esiste, ma diventa un problema molto più serio quando “viene reclutato per obiettivi politici”. A dicembre Baladna ha lanciato una campagna contro il settarismo in tutte le sue manifestazioni, tenendo laboratori nelle comunità palestinesi in tutta Israele e lanciando una campagna di sensibilizzazione. Un video della campagna rappresenta un dottore che diagnostica il “disturbo” del settarismo ad un paziente. “La base del nostro lavoro è far crescere l’identità nazionale, mettendo insieme diversi gruppi e assicurandole forza”, spiega Nassar.

“Pura propaganda”

Negli ultimi anni, le autorità israeliane hanno sempre più cercato di promuovere l’arruolamento dei palestinesi tra i militari. Nonostante questi sforzi si siano scontrati con il rifiuto pubblico, alcuni cristiani e musulmani si sono arruolati. Il maggiore dell’esercito Shadi Rahal ha raccontato l’anno scorso ad Associated Press che si sono arruolati volontariamente 208 musulmani e 137 cristiani.

Le pubblicità dei militari israeliani dirette in particolare ai cristiani palestinesi, nel frattempo, sono aumentate. Uno di questi video, pubblicato in gennaio, si concentra su una giovane cristiana che si è arruolata volontariamente nell’esercito. In arabo fluente, sia Monalisa Abda che sua madre parlano con orgoglio della sua decisione di servire il paese, e incoraggiano gli altri ad arruolarsi.

Gli utenti di Facebook hanno reagito con rabbia e molti hanno deriso il tono ottimistico di un video su qualcuno che si arruola per combattere nell’esercito.

Elias Hawila, di Haifa, uno studente di Medicina palestinese con cittadinanza israeliana, considera il video “pura propaganda”. “Non si sa se ridere all’assurdità della situazione o essere tristi che sia lei che la madre vengano usate in quel modo”, spiega, e aggiunge: “Sembra che sua madre stia tentando di vendere qualche tipo di detersivo per lavatrice, non tentando di convincere i genitori a spedire i loro figli ad usare violenza contro il loro stesso popolo!”.

Proveniente lui stesso da un ambiente cristiano, Hawila definisce gli sforzi di promuovere la leva un’idea “assurda”, spiegando di opporsi “fortemente alla falsa nozione del governo sull’integrazione della popolazione cristiana”.

“I palestinesi sono sempre stati di diverse religioni e tutti fanno parte integrante della società palestinese”, aggiunge.

“Tutti dobbiamo lavorare insieme per combattere”

La possibilità dell’arruolamento obbligatorio dei cristiani nell’esercito israeliano solleva lo spettro dei drusi e il processo di meticolosa de-arabizzazione che la comunità ha sperimentato fin dalla fondazione di Israele.

Per la minoranza religiosa drusa il servizio militare obbligatorio è stato istituito nel 1957. Generazioni di giovani nella comunità drusa hanno combattuto per Israele contro i palestinesi e gli stati arabi vicini. Oggi, pochi drusi si identificano come arabi, e ancora meno come palestinesi, anche se condividono la stessa lingua, gli stessi costumi e la stessa storia dei loro vicini arabi.

“C’è il timore che l’esperienza dei drusi si ripeterà con i cristiani, grazie all’attuazione dell’arruolamento forzato”, spiega Nassar di Baladna. La sua organizzazione sostiene un movimento crescente tra la gioventù drusa per il rifiuto della leva, ma il movimento affronta ancora una battaglia in salita all’interno della comunità.

Tuttavia, Nassar non crede che questa volta le autorità israeliane avranno successo, sottolineando che i palestinesi sono più “consapevoli e organizzati” di quanto lo fossero in passato.

“Dicono che è un problema dei drusi, ma non lo è. Non è un problema dei cristiani. Sono problemi nazionali”, sottolinea. “Dobbiamo lavorare tutti insieme per combattere”.

Traduzione di Elisa Proserpio