Una reinterpretazione della Storia d'Israele.

Una reinterpretazione della Storia d’Israele

   di Ilan Pappe

Conferenza tenuta a Tokyo a metà marzo e pubblicata su:

http://www.dissidentvoice.org/Mar07/gyaku18.htm

 

Viene omessa la parte introduttiva del moderatore e i ringraziamenti di Pappe.

 

Sono nato in Israele e ho avuto un’educazione molto tradizionale e una vita normale  tipo  quella che si ha in Israele fino a quando ho conseguito il mio diploma di laurea alla Hebrew University, il che avvenne molti anni fa nella metà degli anni settanta. Come tutti gli israeliani conoscevo molto poco della situazione palestinese e avevo incontrato pochissimi palestinesi. Già al liceo, ero uno studente molto appassionato di storia, sapevo che avrei fatto lo storico; tutto quello che mi veniva insegnato a scuola lo condividevo e non avevo dubbi  che ciò che i miei docenti mi insegnavano fosse l’unica verità sul passato.

Da quando ho deciso di intraprendere il dottorato fuori Israele la mia vita, sicuramente quella  professionale, ma anche quella privata e quella pubblica è cambiata. Giacché, quando si va all’estero, ti rendi conto di cose di cui sarebbe estremamente difficile accorgersi rimanendo nel proprio paese. E ho scelto come argomento della mia tesi di dottorato il 1948, perché, anche se non conoscevo molto del passato, avevo compreso che quello era un anno che mi avrebbe formato molto; conoscevo abbastanza da capire che era un caposaldo della storia, poiché il 1948 dal punto di vista israeliano, costituisce il miracolo, il miglior anno della storia ebraica. Dopo duemila anni di esilio gli ebrei finalmente fondano uno Stato e acquisiscono l’indipendenza. E per i palestinesi fu esattamente il contrario, fu il peggior anno della loro storia e lo chiamano Nakba, la catastrofe, quasi un olocausto, il peggior evento che una nazione possa desiderare. E il fatto che lo stesso anno, gli stessi eventi fossero visti in modo così diverso da entrambe le parti mi stimolava molto.

Vivere all’estero mi ha permesso  una maggiore capacità di comprendere e rispettare altri punti di vista; ho pensato che poteva esserci forse un altro modo  di interpretare la storia, diverso  da quello che avevo vissuto io; non solo la mia realtà, il modo di vedere della mia gente, del mio paese. Ma naturalmente ciò non era sufficiente. Per reinterpretare la storia non bastava il fatto che un giorno uno si svegliasse e dicesse: un momento ci sono altre persone che probabilmente interpretano la storia diversamente; e se sei un vero  studioso devi batterti  per rispettare il punto di vista dell’altro e non solo il tuo.

Sono stato anche fortunato per il fatto che quando ho deciso di studiare l’altra parte era l’anno in cui, per la legge israeliana, veniva tolto, dopo 30 anni, il segreto di Stato per  i documenti attinenti alla sfera politica, mentre l’accesso per quelli  militari, veniva consentito dopo 50 anni. All’inizio degli anni ottanta quando io cominciai a Oxford in Inghilterra, venne reso pubblico un bel po’ di materiale sul 1948. E io cominciai ad analizzare gli archivi in Israele, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia; anche le Nazioni Unite, che avevano archivi di grande interesse a Ginevra e a New York, aprirono i loro.

E subito cominciai a vedere un quadro della situazione del 1948 che non mi era per niente familiare. Gli storici hanno bisogno di un certo periodo di tempo per acquisire il materiale e trasformarlo in un articolo, in un libro o in una tesi di dottorato come nel mio caso. E dopo due anni  avevo raggiunto una chiara visione di quanto era accaduto nel 1948, e quel quadro era drammaticamente molto in contrasto con la versione che avevo appreso durante il mio periodo di formazione scolastica. E non ero il solo ad avere avuto  una simile esperienza. Due o tre, forse quattro storici, in parte storici e in parte giornalisti israeliani, studiarono lo stesso materiale e arrivarono alle stesse conclusioni: che il modo di interpretare  l’Israele del 1948 non era corretto, e che i documenti mostravano una realtà diversa da quella che conoscevamo. Venimmo definiti il gruppo di persone che avevano una diversa visione, venimmo chiamati i Nuovi Storici.  E se il termine sia giusto o meno lo possiamo discutere dopo, ma è un fatto che  venimmo chiamati i Nuovi Storici, e questo non può essere confutato.

Ora, che cosa avevamo da obiettare sul 1948? Penso che sia molto importante capire il vecchio modo di interpretare e  il nuovo che ne è seguito  in maniera che poi possiamo andare avanti.

Secondo la visione tradizionale, nel 1948, dopo 30 anni di dominio inglese in Palestina, la Nazione ebraica del Movimento sionista era pronta ad accettare un’offerta di pace con la popolazione locale palestinese. E quindi,  quando le Nazioni Unite offrirono di dividere la Palestina in due Stati, il movimento sionista disse    e i palestinesi e il mondo arabo dissero no; di conseguenza il mondo arabo si mosse in guerra per distruggere lo Stato d’Israele, incitò i palestinesi ad andarsene per facilitare l’invasione delle truppe arabe; i leader  ebrei chiesero ai palestinesi di non andarsene, ma loro lo fecero ugualmente; e come risultato di ciò si venne a creare il problema dei rifugiati palestinesi. Fu un miracolo che Israele vinse la guerra e divenne un fatto. E fin da allora il mondo arabo e i palestinesi non hanno cessato di voler distruggere lo Stato ebraico. Questa è più o meno la storia con la quale siamo cresciuti. C’è un altro mito sulla invasione del ’48, e cioè un contingente arabo molto potente entrò in Palestina e una piccola armata ebraica combatté contro di esso. Era una  mitologia  alla Davide e Golia, essendo gli Ebrei Davide e le armate arabe Golia e di nuovo fu un miracolo se Davide sconfisse Golia.

Questa è la versione.  Quello che abbiamo scoperto metteva in discussione la maggior parte del mito. Prima di tutto, abbiamo scoperto che i leader sionisti, la leadership israeliana, incuranti dei  piani di pace delle Nazioni Unite, avevano pensato molto prima del 1948 a espropriare i palestinesi, a cacciarli. Così non accadde che i palestinesi persero le loro case come risultato della guerra. Accadde che i sionisti, gli ebrei, gli israeliani, chiamateli come vi pare, pianificarono che la Palestina dovesse essere etnicamente ripulita nel 1948 della popolazione nativa

Devo ammettere che non tutti quelli che fanno parte dei Nuovi Storici sono d’accordo con la mia analisi. Qualcuno potrebbe dire che metà dei palestinesi fu espulsa e l’altra metà fuggì di propria iniziativa. Altri potrebbero dire che fu la guerra la causa di  tutto ciò. Io ho in testa un quadro chiaro della situazione. Naturalmente non posso obbligare nessuno ad accettarlo, ma sono sicuro, come ho scritto nel mio ultimo libro La Pulizia Etnica della Palestina, che già negli anni trenta, la leadership dello Stato di Israele,  che ancora doveva essere proclamato, aveva pensato e programmato in modo sistematico la cacciata dei palestinesi nel’48.

In sintesi, la visione della vecchia scuola storica israeliana era: Israele non ha alcuna responsabilità riguardo ai palestinesi divenuti rifugiati, sono i palestinesi a essere responsabili di ciò perché non accettarono il piano di pace e ascoltarono l’appello arabo di lasciare il paese. Questa era la vecchia versione. La mia, condivisa da  un gran numero di storici, è che Israele sia il solo responsabile del problema dei rifugiati, perché ha pianificato l’espulsione dei palestinesi dalla loro terra. Pertanto ne ha sicuramente  la  responsabilità storica.

Abbiamo scoperto un altro fatto riguardo all’equilibrio delle forze messe in campo dai contendenti: la storia di un Golia arabo e di un Davide ebreo non regge al confronto con la realtà. Gli arabi parlano molto, continuano a farlo anche oggi,  ma fanno ben poco quando si tratta della questione palestinese.  E così mandarono un numero molto ridotto di soldati in Israele e fondamentalmente per la maggior parte del tempo, l’esercito israeliano era superiore sia per  numero di soldati, che per qualità dell’equipaggiamento e dell’addestramento.

Alla fine,  uno dei miti israeliani più comuni sul ’48 e non solamente sul ’48, è che tutte le volte che Israele tende la mano per raggiungere la pace, al mondo arabo in generale e ai palestinesi in particolare,  sono i palestinesi e il mondo arabo a irrigidirsi e a rifiutare qualsiasi proposta di pace. Penso che abbiamo dimostrato nel nostro lavoro, almeno per il 1948, che da parte del mondo vi era una genuina offerta di pace, cioè un’idea di pace dopo la guerra, e in effetti i palestinesi e i vicini stati arabi erano disponibili almeno  ad aprire uno spiraglio alla   pace, ma fu il governo israeliano a respingere l’offerta. Più tardi, uno dei Nuovi Storici, Avi Shlaim che stava ad Oxford, avrebbe scritto un libro intitolato Il Muro di Ferro. In questo libro egli dimostra che non solamente nel’48, ma dal ’48 ad oggi ci sono stati una serie di diversi momenti nella storia in cui si è presentata un’occasione di pace, ma  non ebbero seguito, non perché il mondo arabo rifiutasse di sfruttare l’opportunità, ma piuttosto perché furono gli israeliani a rifiutarla.

Così per me la reinterpretazione della storia parte dal ’48. E ci tornerò sopra alla fine della mia conferenza per parlare del mio ultimo libro. Ma voglio anche dire che un gruppo di studenti, studiosi israeliani, giornalisti e così via, analizzando il ’48 e mettendo in discussione la versione tradizionale e il suo divenire, non solo non si accontentarono di considerare unicamente quell’anno cruciale, ma si occuparono di altri periodi. Negli anni ’90 l’accademia israeliana ha passato un periodo insolito, ma ora tutto è finito. Negli anni ’90 professori israeliani ritornarono sulla storia del loro paese, come ho detto prima non solo sul ’48, ne analizzarono criticamente alcuni capitoli molto importanti ed elaborarono un’interpretazione alternativa a quella che avevano ricevuto a scuola e finanche all’università. Penso che sia stato un momento molto interessante che finì nel 2000 con l’avvento della seconda intifada. Oggi in Israele non troverete molte tracce di questo fermento. Questi studiosi o hanno smesso di occuparsi di Israele, oppure hanno riaccettato l’interpretazione ufficiale cambiando la loro opinione. Israele oggi è una società  molto omologata. Ma negli anni novanta era in una fase molto interessante, e io sono contento di essere stato uno dei protagonisti. Non mi pento, mi dispiace solo che quella fase non continui, e il tempo ci dirà se è stato l’inizio di una fase nuova oppure se è stato solamente un momento straordinario che non si ripeterà più.

Ora, cosa hanno fatto questi studiosi? Sono andati a studiare il movimento sionista  dall’inizio fino a oggi  e si sono soffermati a considerarne i vari momenti. L’inizio del movimento sionista avviene in Europa, alla fine del diciannovesimo secolo. I primi coloni ebrei arrivarono in Palestina nel 1882. Il luogo comune presente in Israele dice che costoro arrivarono in una terra più o meno disabitata, ed erano il focolaio del   progetto di costruzione di una nazione e che essi crearono una  patria per gli ebrei.  Per qualche inspiegabile motivo ciò non piacque agli arabi, che così continuarono ad attaccare la piccola comunità ebraica: il destino di Israele sembra essere quello di vivere in un territorio popolato da persone che non possono accettarlo.  Non l’accettano perché gli aggressori di Israele sono musulmani o arabi, e quindi hanno una   cultura politica che non concepisce una pacifica convivenza con una popolazione confinante; sono spiegazioni di questo tipo che Israele fornisce sul perché gli arabi e i palestinesi insistono nell’aggredire lo Stato ebraico.

I nuovi storici stabilirono di considerare l’arrivo degli ebrei dall’Europa nel mondo arabo come un fatto di colonialismo. Non era l’unico territorio del mondo dove gli europei, per qualsiasi motivo – anche per dei buoni motivi – erano partiti dall’Europa e si erano insediati in un paese non europeo. Essi sostengono che il sionismo sotto questo punto di vista non era diverso. Naturalmente è noto e accettato  il fatto che gli ebrei fossero stati perseguitati in Europa e che cercassero un rifugio sicuro. Ma il fatto che decidessero che l’unico rifugio sicuro fosse un luogo abitato già da un’altra popolazione connotò il progetto in senso colonialista. E così  gli storici  studiarono la nascita del sionismo considerandolo un esempio di  colonialismo.

Usarono anche altre interpretazioni per ogni argomento scottante, come ad esempio il legame esistente tra l’Olocausto e lo Stato di Israele. Studiosi molto coraggiosi hanno dimostrato quello che ora per noi è un fatto: come la leadership ebraica in Palestina non abbia fatto tutto quello che avrebbe potuto per salvare gli ebrei durante l’Olocausto, perché aveva più interesse per la sorte degli ebrei nella stessa Palestina. E ancora che la memoria dell’Olocausto venne manipolata in Israele per giustificare certe politiche e certi atteggiamenti   nei confronti dei palestinesi. Infine essi si occuparono del trattamento ricevuto dagli ebrei provenienti dai paesi arabi durante gli anni cinquanta e arrivarono alla conclusione che la pressione di Israele per essere co
nsiderata parte dell’Europa ebbe conseguenze molto dannose per le comunità ebraiche immigrate dai paesi arabi. Naturalmente la loro presenza in quanto arabi, avrebbe potuto aiutare Israele a integrarsi nel Medio Oriente, ma invece vennero dearabizzati: “Voi non siete arabi, siete qualcos’altro” così veniva detto loro. E siccome era l’unico modo per essere integrati nella società israeliana essi accettarono.

 

Tutta quest’opera di reinterpretazione della storia di Israele va dal 1882 fino ad almeno gli anni cinquanta. Cento/centoventi studiosi furono coinvolti in questa operazione. Naturalmente al principio l’opinione pubblica israeliana non accettò questi nuovi  risultati e si arrabbiò molto con loro, ma io penso che fu l’ inizio di una buona occasione per cominciare a influenzare l’opinione pubblica israeliana fino al punto di cambiare alcuni libri di testo usati nelle scuole.

Poi venne la seconda intifada e un sacco di gente pensò che Israele fosse ritornata in guerra, e quando si è in guerra non si può criticare il prprio paese. Ecco dove ora siamo arrivati;  molti di quegli studiosi “alternativi” misero la sordina al loro spirito critico, e di fatto persone come me – io posso parlare solamente della mia esperienza personale – in una notte si trovarono a passare da eroi a nemici. Non è un situazione facile. Negli anni novanta la mia Università era molto orgogliosa che io ne facessi parte. Al punto che il Ministero degli Esteri vi mandava un moltitudine di persone per  mostrare loro quanto fosse liberale questa Università a cui apparteneva una persona che era un Nuovo Storico, e che poteva mettere in evidenza il suo approccio critico. Così Israele veniva considerata una società aperta, l’unica  democrazia presente nel Medio Oriente.

Dopo il 2000 divenni per l’Università un nemico. Non solo il Ministero degli Esteri smise di mandare visitatori, ma anche l’Università cercò di mandarmi all’estero e  di boicottare le visite di persone e quasi ci riuscì nel 2002. Ci doveva essere un importante processo –  grazie a Dio il processo non ebbe luogo –  dove io avrei dovuto essere sottoposto di ogni sorta di accuse che non si penserebbe possano esistere in una democrazia: tradimento per il contenuto delle lezioni, mancanza di lealtà nei confronti del proprio paese e altre cose di questo genere. Le affermazioni che facevo nel 2002 erano le stesse che facevo negli anni ’90; non ho cambiato le mie opinioni, quello che era cambiato era il clima politico in Israele.

Vorrei ora, nell’ultima parte di questa chiacchierata, occuparmi della mia nuova pubblicazione.

Dopo aver lavorato sulla mia nuova tesi, ho scritto molti articoli e curato  diversi libri che la sintetizzano, cercando di valutarne l’impatto. Sono rimasto molto impressionato – e in uno dei miei libri ne ho lungamente discusso –  per  come la Scuola palestinese  ne sia stata influenzata nel senso di divenire più aperta e più dotata di senso critico.

Realmente ha determinato qualcosa che io definisco come “bridging narrative” (“una narrazione storica di interconnessione, che unisca le due parti”), un concetto che ho elaborato, a cui sto ancora lavorando.

C’è bisogno della presenza di entrambe le parti ciascuna con la propria interpretazione del processo storico, ma se queste vogliono contribuire al processo di pace, allora devono costruire una “bridging narrative”. Ho fondato a Ramallah, insieme ad un amico palestinese, un gruppo denominato Gli Storici della “Bridging Narrative”. Abbiamo iniziato a lavorare nel 1997, ancora adesso continuiamo a farlo, ed è un ottimo progetto di costruzione di un discorso storico elaborato insieme. Noi abbiamo  analizzato la storia perché crediamo che se si è d’accordo su quanto è accaduto nel passato, si può esserlo anche per il futuro.

Dopo tutto ciò, ero ancora ossessionato dal ’48, e sentivo che l’indagine era rimasta incompleta. Ho scritto due libri su quel periodo e per me non era sufficiente. Poi si aprirono nuovi archivi. Nel 1998 gli israeliani resero possibile la consultazione degli archivi militari. Come ho già detto gli archivi politici venivano messi a disposizione dopo 30 anni, quelli militari, invece, dopo il 1990. E poi capii  di avere un quadro più completo, non solo del ’48, ma anche di come oggi il ’48 viene vissuto all’interno di Israele. I nuovi documenti dimostrano molto chiaramente – benché lo sapessi già –  , se mai ce ne fosse bisogno, che il movimento sionista, fin dall’inizio, era consapevole che nella terra di Palestina viveva qualcun altro e che l’unica soluzione consisteva nello sbarazzarsi di questa popolazione.

Non sto dicendo che sapevano esattamente come portare a termine il progetto, non sono sicuro che sapessero dal principio come farlo, ma erano certamente convinti che il principale obiettivo del progetto sionista, che era di trovare un luogo sicuro per gli ebrei da un lato, e dall’altro di ridefinire il giudaismo come un movimento nazionalistico e non solo  religioso, non poteva essere realizzato   fino a che la Palestina non fosse stata ebraica. Alcuni pensavano che un numero esiguo di palestinesi avrebbe potuto rimanere, ma sicuramente non potevano essere un gruppo maggioritario  e neppure una consistente minoranza. Secondo la mia opinione questo è il motivo per cui il ’48 offre una buona opportunità per la leadership sionista di provare a cambiare sul terreno il rapporto demografico fra i due popoli. E come ho provato a dimostrare nel mio libro, fin dal 1937, sotto la direzione del padre fondatore del sionismo David  Ben Gurion, il piano della pulizia etnica della Palestina venne accuratamente preparato.

Ciò comporta molte implicazioni di tipo morale e non solamente di tipo politico. Perché se ho ragione –  posso avere torto – ma se ho ragione, nel definire pulizia etnica quello che Israele fece nel ’48, accuso lo Stato d’Israele di crimine. Anzi, nel linguaggio giuridico internazionale, la  pulizia etnica è un crimine contro l’umanità. Se uno consulta il sito del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti,  vedrà che la sezione legale del Dipartimento afferma che,  qualunque gruppo che abbia convissuto nel passato o intenda farlo nel futuro con altri gruppi di popolazioni diverse, e che abbia programmato o programmi di cacciare uno di questi gruppi, commette un crimine contro l’umanità. E non ha importanza – questo è molto interessante – se ciò avvenga   con la violenza o con mezzi pacifici. L’idea stessa che tu puoi cacciare una popolazione perché è diversa  da te, oggi sicuramente per il diritto internazionale,  è considerato un crimine.

C’è un altro aspetto interessante: il Dipartimento di Stato afferma che l’unica soluzione, per chi ha subito un atto criminoso di pulizia etnica e normalmente si tratta di rifugiati che sono stati cacciati, con
siste nel ritorno di ciascuno alla propria casa. Ovviamente Israele, nella lista dei casi di pulizia etnica del Dipartimento di Stato, non compare. Chiunque altro è presente dai tempi antichi fino ad oggi, ma l’unico caso di pulizia etnica che non compare è quello della Palestina, perché Il Dipartimento di Stato sarebbe costretto a riconoscere il diritto al ritorno dei palestinesi, cosa che non vuole.

Vi è un altro risvolto. Non sono un giudice e non voglio portare davanti ai giudici singole persone anche se in questo libro, per la prima volta nella mia vita, ho deciso di non scrivere un testo che dice “ Israele è responsabile della pulizia etnica in Palestina”. Faccio nomi, scrivo i nomi delle persone. Faccio i nomi delle persone che hanno deciso che un milione e trecentomila palestinesi non hanno il diritto di continuare a vivere dove hanno vissuto per più di mille anni. Ho deciso di fare i nomi. Ho anche individuato il luogo dove è stata presa la decisione.

 Secondo me  la cosa più importante non fu quello che successe nel ’48. La cosa più importante fu che il mondo era a conoscenza di quanto avveniva e decise di non fare nulla; allo Stato di Israele arrivò un messaggio molto sbagliato: va bene sbarazzarsi dei palestinesi. E  per questo che oggi, mentre parliamo, continua la pulizia etnica in Palestina. Perché il messaggio della comunità internazionale dice che, se vuoi costruire uno Stato ebraico, va bene distruggere molti villaggi e paesi e città edespellere così tanti palestinesi. E’  un diritto. Perché il mondo permise ad Israele di fare quello che non avrebbe permesso a chiunque altro di fare, è un argomento  che  non voglio affrontare.

Il fatto è che il Mondo sapeva e ha assolto Israele. Il risultato fu che lo Stato di Israele, il nuovo Stato di Israele che venne costituito nel 1948, aveva alla base questa ideologia: è da considerare uno scopo giusto quello di pensare alla realizzazione di uno Stato etnicamente puro. Voglio spiegarmi. Il sistema scolastico israeliano, quello politico, e quello dei media mandano un messaggio molto chiaro a tutti noi ebrei  dai primi giorni di vita fino alla morte. Lo potete trovare in tutti i programmi dei partiti politici israeliani. Ciascun partito lo condivide, che sia  di destra o di sinistra. Il messaggio è il seguente. E  secondo me – ve lo dirò tra un minuto – è  un messaggio molto pericoloso, un messaggio razzista, contro il quale io lotto senza alcun risultato. Il messaggio riguarda la vita singola di ognuno –  non quella della società, e nemmeno quella politica – ed è che la vita singola di ogni ebreo in Israele avrebbe potuto essere molto migliore se non ci fossero stati arabi intorno. Ora, questo non significa che ognuno, per questo, possa pensare di uscire di casa e cominciare a sparare agli arabi o anche cacciarli. State a vedere il paradosso.

Oggi ho concesso un’intervista ad un giornalista qui in Giappone, e mi ha detto di qualcuno –  non voglio farne il nome –  di un personaggio politico della sinistra molto  ben conosciuto in Israele, che gli ha detto: “Il mio sogno è quello di svegliarmi un mattino e vedere che non ci siano più arabi in Israele”. E lui è uno dei dirigenti sionisti progressisti, è uno di sinistra, molto impegnato nell’area pacifista. Questo è la conseguenza del 1948, che  l’idea di educare le persone, per risolvere i loro problemi, a togliere di mezzo qualcuno solo perché è un arabo o un musulmano è legittima, e naturalmente si tratta della sparizione di qualcuno appartenente alla popolazione del posto, nato in quella terra e non  un immigrato. Voglio dire che si può capire, forse non accettare, come una società si comporti con gli immigrati. Qualche volta dicono che gli immigrati vengono per portare via i posti di lavoro, conoscete bene questa politica razzista che è una risposta al fenomeno dell’immigrazione. Ma non stiamo parlando di immigrati, parliamo di un paese in cui qualcun altro è immigrato e ha trasformato la popolazione locale in  immigrati e  ha detto loro che lì non avevano alcun diritto.

Se qualcuno molto a sinistra e appartenente al campo pacifista israeliano sogna che tutti gli arabi dovrebbero sparire da Israele, si può capire cosa succede se uno non è di sinistra. Non si sogna. Si comincia a lavorarci sopra. E per questo non bisogna appartenere all’estrema destra. Basta essere dell’area della parte maggioritaria del paese. Vi ricordo che la pulizia etnica nel 1948 fu attuata dal Partito laburista e non dal Likud, cioè da una ideologia che allora riscuoteva i consensi maggiori.

In altre parole, abbiamo una società  convinta del fatto che il bisogno di   supremazia etnica se non di  totale esclusività etnica su tutto la Palestina sia alla base del futuro Stato ebraico; che questo valore, questo obbiettivo sia in Israele al di sopra di qualsiasi altro. E’ più importante della democrazia. E’ più importante dei diritti umani. E’ più importante dei diritti civili. Per la maggior parte degli ebrei israeliani, se non si costituisce una maggioranza dal punto di vista demografico, si perde, sarebbe un suicidio. E se questa è la loro posizione, non bisogna meravigliarsi se la gente dice che se i palestinesi in Israele superassero il 20% , ci sarebbe da suicidarsi. Chi ti dice questo sono intellettuali, democratici, radicali, umanisti.

E  se, come sapete, Israele vuole annettersi – e la  vuole annettere –  metà della Cisgiordania, e nella metà della Cisgiordania vivono moltissimi palestinesi, non c’è una persona in Israele che pensi che sia sbagliato costringere con la forza la popolazione che ci vive ad andarsene nell’altra metà della West Bank. Perché altrimenti l’equilibrio demografico in Israele cambierebbe. E ancora non c’è da meravigliarsi che gli israeliani non abbiano mostrato alcun pentimento per quello che hanno fatto nella Striscia di Gaza. Prendere un milione e mezzo di persone e chiuderli in una terribile prigione con due cancelli e una sola chiave posseduta da Israele  pensate che la gente possa vivere in queste condizioni senza reagire? Per delegittimare il diritto di quelli che vogliono vivere nella loro patria, si deve disumanizzarli. Se sono esseri umani non verrano considerati tali.

Secondo me fino a quando questa è l’ideologia della Stato d’Israele, e questa è l’ideologia dello Stato di Israele, molte cose buone  – e ce ne sono tante in Israele, è un progetto di grande portata quello che il movimento sionista ha fatto: il modo in cui ha salvato gli ebrei, la capacità di creare una società moderna quasi dal nulla – tutti questi meravigliosi risultati andranno persi. Prima di tutto i palestinesi saranno sconfitti, questo è vero.  I palestinesi perderanno   perché gli israeliani non cambieranno – e non sembra probabile che  vogliano cambiare la loro politica e non sembra che ci sia qualcuno nel mondo che voglia costringerli  a cambiare la lo
ro politica. Ma nel lungo periodo, Israele non è sola, è un piccolo paese nel mondo arabo e in quello musulmano, e l’America  non sarà sempre lì a salvarla.

Se Israele fa come il Sud Africa, non capisce che non si può vivere in mezzo ad altri paesi e allo stesso tempo comportarsi da alieni dicendo “Non mi piacete”, o “Non voglio stare qui”. Alla fine non  può non aspettarsi una reazione. Potrebbe succedere tra cent’anni, o duecento, non so. Ma secondo me gli israeliani fanno male i conti con  la storia. Solamente gli storici capiscono che sessant’anni nella storia non sono niente. Considerate il caso dell’Unione Sovietica. Per il fatto che la sua politica, seppur sbagliata, si sia imposta per sessant’anni non significava che nei successivi sessant’anni le cose sarebbero andate allo stesso modo. Stanno compiendo un terribile sbaglio, come lo stanno facendo nel mondo le comunità ebraiche a sostenere questa politica.

Il mio nuovo libro tenta di convincere che la cosa più importante riguardo alla pulizia etnica non è stato solo quello che è successo nel 1948, ma soprattutto il modo in cui il mondo ha reagito rispetto agli avvenimenti del ’48, cioè mandando un messaggio sbagliato a Israele: “questo va bene, puoi esistere e anche far parte della comunità occidentale . Puoi appartenere alle cosiddette nazioni civili“. Così non vi meravigliate, se andate nei Territori Occupati  e vedete in prima persona  come la popolazione viene trattata lì; la stragrande maggioranza degli israeliani  in primo luogo non conosce quello che avviene lì, in secondo luogo quando ne viene a conoscenza non sembra preoccuparsene molto. Perché lo stesso messaggio che hanno avuto dal mondo nel ’48 lo hanno ricevuto nel 2007. Potete prendere tutta una città – pensiamo a Tokyo – circondatela con una barriera elettrica e una sola persona deterrebbe la chiave dell’unico cancello. In qualsiasi altro posto del mondo se   veniste a sapere che una città si trova alla mercé di un guardiano come in una prigione, rimarreste di sasso. Non permettereste che la cosa continuasse per un solo giorno   senza protestare. Il mondo,invece,  accetta che in Israele accada . E nonostante che in Israele e in Palestina ci siano il maggior numero per kmq di giornalisti internazionali che in qualsiasi altra parte del mondo. Questo è un dato. E ancora nonostante la presenza dei media internazionali, Israele non ha cambiato nessun aspetto della sua politica di occupazione in Palestina.

Vi  è un’ interessante domanda da porre anche se non ho il tempo per rispondere: Perché il mondo permette ad Israele di fare quello che fa? Ma è realmente un altro problema; così vorrei fermarmi qui e darvi la possibilità di fare domande e considerazioni critiche. Grazie.

 

(Traduzione di Graziella Ricupero e Carlo Tagliacozzo)

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