“Un’infanzia in prigionia e la politica di privazione dell’infanzia”, di Shalhoub-Kevorkian

Palestine-studies.org. Institute for Palestine Studies. Rivista di studi sulla Palestina.

“Incarcerated Childhood and the Politics of Unchilding” (lett. Un’infanzia in prigionia e la politica di privazione dell’infanzia, 2019), di Nadera Shalhoub-Kevorkian.

Esiste una relazione simbiotica e autosufficiente tra la violenza politica e l’abuso dei diritti dei bambini, in India, Messico, Australia, Europa, Stati Uniti, Canada, Medio Oriente e Nord Africa o altrove. Il potere globale e statale dipende, tra le altre fonti, dal dominio e dallo sfruttamento dei bambini. Grazie al lavoro innovativo di Nadera Shalhoub-Kevorkian, titolare della cattedra di diritto Lawrence D. Biele della Hebrew University, esiste attualmente un termine per descrivere il processo mediante il quale i bambini fungono da capitale politico (ovvero, da valuta spendibile per affermare regimi di controllo e raggiungere obiettivi di governo). Questa parola è “unchilding”. La terminologia è fondamentale per attirare l’attenzione su questioni importanti, oltre che per elaborare le possibili sfumature.

Prendendo spunto dal suo precedente libro sulle teologie e ideologie della sicurezza israeliane, Incarcerated Childhood and the Politics of Unchilding (lett. Un’infanzia in prigionia e la politica di privazione dell’infanzia) pone i bambini al centro delle interazioni del colonialismo israeliano. Il termine “unchilding” significa privare i bambini della loro infanzia per obiettivi politici, il tutto concesso dalle autorità e portato avanti da un meccanismo violento, razzista, sessista e classista che esiste ovunque e sempre. Shalhoub-Kevorkian ha coniato questa parola nel contesto del progetto coloniale sionista che utilizza i bambini palestinesi, dalla nascita fino alla morte, come strumenti per la costruzione dello Stato di Israele. L’autrice sostiene che, per eliminare la prossima generazione di palestinesi, Israele tratta i bambini palestinesi sia come entità nulle, indegne dei diritti globali dei bambini, sia come corpi pericolosi e uccidibili che devono essere imprigionati e smembrati, fisicamente e mentalmente. Questo processo opera attraverso un’ideologia autopropulsiva di rivendicazioni sociali, profitto economico e cartolarizzato, linguaggio del sacro e di controllo spazio-temporale.

Lo scopo generale di Incarcerated Childhood è dimostrare che la politica non può essere separata dalle questioni relative all’infanzia. Gli storici dell’infanzia in Occidente sanno già che questo è assolutamente vero, poiché esistono numerose opere che mostrano come l’emergere del concetto moderno di infanzia sia andato di pari passo con l’apparizione dello Stato-nazione e si sia manifestato sulle linee diseguali di razza, classe e genere. Il contributo dell’autrice è l’appello urgente al campo delle scienze politiche affinché prendano sul serio l’infanzia ma anche agli studiosi a considerare l’infanzia come una questione politica, non solo psicologica e di sviluppo. È interessante notare che l’autrice non fornisce mai una definizione dell’infanzia, tuttavia è possibile supporre che la intenda così come viene descritta ed esplicitata nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo.

Shalhoub-Kevorkian argomenta in modo convincente che lo Stato israeliano si rifiuta di vedere i bambini palestinesi in qualità di bambini. I “tragici incidenti” (p. 110) accaduti ai bambini palestinesi vengono liquidati come sfortunati ma inevitabili danni collaterali, o come un modo necessario per Israele di proteggersi dai pericolosi bambini palestinesi. Contro tale decontestualizzazione, la scrittrice mostra, ad esempio, che il bombardamento aereo israeliano del 2014 che ha causato la morte dei ragazzi Bakr sulla spiaggia di Gaza è stato solo uno dei tanti crimini sistematici dello Stato israeliano che funzionano su “un’industria di uccisione di persone indesiderate e non registrate, di già morti” (p. 114). Vengono forniti numerosi altri esempi per dimostrare che i crimini sistematici dello Stato contro i bambini non sono una novità, dai beduini del Negev durante la Nakba all’attuale incarcerazione dei palestinesi a Hebron e agli arresti domiciliari ordinati dallo Stato a Gerusalemme (pp. 96-97). L’infanzia non è un dato di fatto per i bambini palestinesi, “è qualcosa che deve essere determinato, recuperato e compreso all’interno di una complessa rete di implicazioni imposte dalle dinamiche di potere che sono in gioco in uno Stato di coloni” (p. 117). Tuttavia, per quanto devastante sia l’unchilding, Shalhoub-Kevorkian mostra che i bambini hanno il potere di bloccare l’ordine sociopolitico. E gli studiosi, gli attivisti e i politici, esorta la scrittrice, devono mostrare i vantaggi politici che lo Stato ottiene abusando, uccidendo e mutilando i bambini palestinesi.

Fedele al messaggio del suo libro che i bambini sono importanti, Shalhoub-Kevorkian adotta una metodologia che mette le loro voci in primo piano. Dalle lettere dei bambini alle loro conversazioni per le strade che percorrono per andare a scuola, l’autrice utilizza prove multiscalari per dimostrare che la violenza israeliana contro i bambini non è quantificabile ed è onnipervasiva nel tempo e nello spazio. La sua ampia conoscenza della letteratura sul dominio e sul colonialismo dei coloni le permette di collocare le parole dei bambini palestinesi accanto a quelle di Jasbir Puar, Suvendrini Perera, Sherene Razack e Denise Ferreira da Silva. I bambini palestinesi comprendono, al loro stesso livello, i complessi concetti di biopolitica, necropolitica, l’Altro superfluo, il diritto di mutilazione, il disumano, i limiti dell’umano e il nessuno. Qui l’autrice usa la sua penna come tramite per le intuizioni dei bambini.

Spetta ora agli studiosi di tutto il Medio Oriente e del mondo far progredire la nostra comprensione, attraverso un’analisi comparativa, del processo di unchilding in Palestina e non solo. Molte questioni politiche contemporanee sono legate al processo di unchilding. Gli studiosi devono esplorare ulteriormente il legame tra questo e i milioni di bambini rifugiati in Europa che fuggono dal Medio Oriente proprio per le ragioni descritte da Shalhoub-Kevorkian. Inoltre, vale la pena di esaminare i modi in cui la Primavera araba sia una risposta ai decenni di privazione dell’infanzia vissuti dai giovani in tutta la regione. Su scala più globale, gli studiosi devono collegare le strutture di oppressione che operano sui bambini al confine tra Stati Uniti e Messico con quelle che operano sui bambini in luoghi come lo Yemen. È essenziale che i politologi, gli storici, gli economisti e gli antropologi facciano del termine unchilding una parte del loro kit di strumenti di analisi del mondo moderno. E tutti noi dobbiamo trovare il modo di dare voce ai bambini e agli altri attori che trovano il modo di interrompere questa politica di privazione dell’infanzia giorno per giorno, nonostante le difficoltà.

BIOGRAFIA DELL’AUTORE:

Heidi Morrison, professoressa associata di storia presso l’Università del Wisconsin, La Crosse, è autrice di Childhood and Colonial Modernity in Egypt (lett. “Infanzia e modernità coloniale in Egitto”) (Londra: Palgrave, 2015) e curatrice del volume The Global History of Childhood Reader (lett. “Il lettore di storia globale dell’infanzia”) (New York: Routledge, 2012).

Traduzione per InfoPal di Rachele Manna