Di Nurhan Abujidi. L’aspirazione sionista alla “costruzione di uno spazio”
Izhak Schnell (Transformation in territorial concepts: from National bulding to concessions, Geo Journal, 2001) sostiene che il sionismo, fin dal primo momento in cui l’idea di uno Stato giudaico venne concepita, abbia posto la questione territoriale al centro delle proprie attività. Tale scelta ha implicato l’attuazione di pratiche d’insediamento e di controllo territoriale finalizzate alla creazione di un legame d’identità tra un artefatto nazionalismo giudaico e le terre desiderate. Secondo Schnell è proprio la concezione territoriale propria del sionismo ad aver originato l’opposizione ebraico-palestinese, la quale si è infatti radicalizzata sulla questione delle terre contese. Il sionismo ha dunque iniziato ad impiegare le proprie risorse al fine di assicurarsi terreni, attrarre coloni, costruire centri abitati, sviluppare attività agricole, costruire fabbriche ed avviare una battaglia politica finalizzata ad affermare la sovranità giudaica. Sempre seguendo le ricerche di Schnell, si deduce che sin dal primo momento, il sionismo ha basato la propria idea di territorialità su tre princìpi fondamentali: definire la propria ideologia nazionale attraverso una prospettiva etno-nazionalistica che prevedesse l’esistenza di una sola matrice etnica in ogni area stabilita, realizzare un progetto di colonizzazione che fosse coerente con le disposizioni etniche appena citate, sviluppare un sistema economico che fosse funzionale agli interessi nazionali.
I padri fondatori del sionismo come Theodor Hertzel erano convinti che l’obiettivo del controllo territoriale dovesse essere ottenuto con il sostegno delle potenze europee. In “Zionism: from the standpoints of its victims” (1979), Edward Said spiega come il sionismo abbia rafforzato la propria ideologia territoriale creando immagini affascinanti di un rimpianto passato. L’idea della “patria perduta” verrà poi affiancata a concezioni concernenti il livello di civilizzazione nei territori desiderati. In tale ottica, l’avvento dello Stato ebraico viene presentato come l’imperdibile occasione di introdurre finalmente civiltà, ricostruzione e sviluppo in tali aree. Nel suo studio, Said elenca inoltre i tre princìpi fondamentali sui quali il pensiero di ideologi e pensatori sionisti è stato basato: 1) non esistono abitanti arabi, da cui consegue la naturale 2) rivendicazione di “terre vuote” al fine di 3) istituire uno stato ebraico sulla base di concetti moderni come l’organizzazione di agglomerati distinti ed ordinati, la creazione di istituzioni adibite all’acquisto delle terre ecc.
Per realizzare uno Stato ebraico in Palestina e per permettere agli Ebrei europei di trasferirvisi era dunque necessario articolare e potenziare il concetto di “vuoto territoriale”. In base a quanto affermato in precedenza, per tale espressione possono essere individuate due accezioni: la prima consiste nella negazione dell’esistenza di abitanti autoctoni nelle terre desiderate, la seconda prevede la realizzazione forzata di tale realtà attraverso guerre, distruzione, acquisto di terreni, confische.
Il concetto di “vuoto territoriale”
Il sionismo cominciò dunque ad affermare la necessità di acquisire nuove terre al fine di garantire una sufficiente presenza ebraica, condizione ineludibile per realizzarne compiutamente la riunificazione con la “patria perduta”. L’ottenimento della “Terra d’Israele” così come era stata immaginata cominciò dunque attraverso pratiche di ampliamento territoriale. Secondo quanto sostiene Schnell, il sionismo cominciò a espandere il proprio territorio estendendo i propri insediamenti ed aumentandone al contempo la popolazione in modo da creare superiorità numerica nel maggior numero di aree possibile.
Gershon Shafir (Land, labour and the origin of Israeli-Palestinian conflict, Cambridge University Press, 1989) ha spiegato come nell’ottica sionista, i territori dovessero risultare quanto più “puri” possibile, in modo da assicurarne il controllo, sia sociale che economico, alla nazione ebraica. Un ruolo fondamentale nella strategia sionista fu svolto dal concetto di “vuoto territoriale”. Presentando infatti la Palestina come una “terra nullus”, (sostanzialmente uno spazio privo di potestà) e negando al contempo l’esistenza del popolo palestinese, il sionismo poté avanzare le proprie rivendicazioni.
La negazione dell’esistenza di popolazioni autoctone viene condotta sia a livello concreto (cioè di fatto non esistono esseri umani “altri” nella zona) che concettuale (non esiste e non è mai esistita presenza altrui né nel tempo, né nello spazio).
Norman Finkelstein (Image and reality in the Israeli-Palestinian conflict, London, 1995) afferma che l’obiettivo del sionismo è sempre stato quello di realizzare uno stato ebraico attraverso la creazione di condizioni di superiorità numerica in Palestina, senza curarsi dei diritti dei Palestinesi. Finkelstein spiega come all’inizio del ventesimo secolo la situazione demografica della Palestina e la diffusione del popolo palestinese facessero apparire del tutto utopiche le aspirazioni sioniste sulla realizzazione di una presenza ebraica maggioritaria. Finkelstein infatti descrive come nel 1917 (l’anno della dichiarazione di Balfour, con la quale la Gran Bretagna promise di sostenere la creazione di uno Stato ebraico in Palestina) il numero di abitanti arabo-palestinesi della zona (circa 600 mila persone) superasse con un rapporto di oltre dieci a uno la popolazione ebraica.
E’ proprio alla luce di tale dato di fatto che la questione territoriale ha assunto un’importanza critica in quanto in grado di fornire obiettivi concreti ed immediatamente ravvisabili attraverso l’ottenimento dei quali è possibile contrastare i gruppi rivali nelle proprie aspirazioni.
Rashid Khalidi (Palestinian identity: the construction of modern National consciousness, Columbia Univ. Press, 1997) spiega come il concetto di “vuoto territoriale” si declini, nelle strategie sioniste, in pratiche di conquista territoriale, in affermazioni di sovranità su terreni contesi, in atti di negazione di rivendicazioni altrui.
Il primo di tali atti si manifestò alla fine del diciannovesimo secolo, quando “i leader sionisti negarono (o ignorarono) la presenza di altri abitanti nelle varie aree della Palestina” (B. Morris, Righteous victims: a history of the Zionist-Arab conflict, Univ. Of Arkansas Press, 1998). Tale negazione fu resa possibile proprio attraverso la diffusione del concetto di “vuoto territoriale” all’interno della propaganda sionista sulla “terra promessa”.
Come delinea I. Nassar (Pilgrims, lepers and stuffed cabbages: essays on Jerusalem’s cultural history, al-Bireh, Inst. Of Jerusalem studies, 2005) il sionismo creò l’immaginario propagandistico sulla terra promessa facendo uso dei rapporti e degli scritti di viaggiatori e pellegrini europei che dipinsero la Terra Santa in modo selettivo, traendo ispirazione principalmente dal testo biblico. Tali descrizioni risultarono perfettamente congeniali alle necessità degli ideologi sionisti, intenzionati ad affermare l’immagine di un intimo e storico legame tra la presenza ebraica e quei luoghi specifici. Al contempo, il Palestinese viene tutt’al più presentato come inferiore, forestiero e retrogrado (in quanto mai stato capace di coltivare la terra). In questo modo la Palestina viene accomunata al popolo ebraico ed allo stesso tempo alienata da quello palestinese.
Da qui l’indottrinamento sionista: la Palestina viene descritta come vuota, abbandonata, in rovina. Un’immagine che certamente rafforza l’affermazione propagandistica “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, come ricorda Said (vedi sopra).
Eitan Bronstein (Studying the Nakba and recostructing space in the palestinian village of Lifta, EUI, 2005) sostiene che la cultura materiale palestinese (rurale ed urbana) non ha la minima importanza agli occhi dell’ideologia sionista, in quanto non facente parte, se non come elemento “altro”, della romantica immagine biblica della Palestina. Bronstein sostiene inoltre che la dinamica della negazione sionista procede in due direzioni: non solo la viene negata la presenza indigena, ma viene persino rifiutato l’avvenimeno storico dell’esilio della nazione ebraica da Sion. Il popolo palestinese, in tale ottica, viene dunque tutt’al più visto come un temporaneo occupante della terra promessa. La negazione dell’esistenza della popolazione indigena e della sua cultura materiale renderà estremamente semplice lo sradicamento dei Palestinesi compiuto nel 1948 e successivamente, parimenti, negato.
Said sottolinea come l’assenza della componente palestinese sia evidente anche a livello amministrativo. Le istituzioni dello stato ebraico furono implementate in modo da non tenere in minimo conto la voce della popolazione autoctona. Le stesse leggi adottate dal nuovo Stato furono redatte in modo da mantenere la popolazione palestinese in una sorta di limbo indeterminato, un “non spazio”, mentre alla componente ebraica venivano garantite tutela, posizioni e ruoli ben definiti. Una conferma di tali dati venne fornita dagli studi di Finkelstein: “fino alla prima guerra mondiale lo slogan israeliano ‘una terra senza popolo per un popolo senza terra’ bastava a rappresentare l’intero apparato propagandistico sionista. Con l’istituzione dello Stato d’Israele la letteratura sionista ha intrapreso enormi sforzi finalizzati alla riscrittura della Storia attraverso la rimozione della presenza araba dal passato della Palestina”.
Al fine di affermare il concetto di “vuoto territoriale”, i discorsi propagandistici sionisti si dotarono di una specifica terminologia, che permettesse di radicare nell’opinione pubblica l’idea dello scontro tra la nazione ebraica e gli “altri” e, in particolare, tra il territorio posseduto dalla prima e lo “spazio di nessuno” occupato dai secondi. Tale linguaggio venne utilizzato con l’obiettivo di giustificare azioni ed iniziative che potevano anche assumere carattere del tutto arbitrario contro “altri” definiti appunto come “diversi”, “non-umani”, “retrogradi”, “incivili”. La terminologia disumanizzante nei confronti dei Palestinesi fu elaborata dal sionismo al fine di sostenere le proprie convinzioni di fronte ai Paesi occidentali ed alle comunità ebraiche europee. Tale linguaggio prorompe con particolare veemenza in occasione degli scontri che si verificano in Palestina (come si poté vedere ad esempio nel 2002 in seguito alle distruzioni arrecate nei territori occupati).
Al momento della creazione dello Stato d’Israele (1948), il concetto dell’“altro” proprio della componente arabo-palestinese era ben diverso rispetto a quello sostenuto dal sionismo. Ben-Gurion sintetizzò tale differenza nel suo libro “My talks with arab leaders”:
“Sebbene il nostro sangue fosse orientale, la nostra cultura si era notevolmente europeizzata ed il nostro desiderio era quello di fare ritorno in Palestina da un punto di vista puramente geografico. Avevamo intenzione di trapiantare laggiù una cultura europea ed eravamo legati alla più grande potenza culturale al mondo”.
Sempre Ben-Gurion, in una dichiarazione del 1938 disse:
“Quando affermiamo che gli Arabi sono gli aggressori e che noi non facciamo che difenderci diciamo solo metà della verità… Politicamente siamo noi gli aggressori e loro quelli che si difendono. Il Paese è il loro perché lo abitano, tuttavia noi vogliamo solo stabilirci laggiù e questo nella loro ottica equivale a volergli strappare la loro terra”.
Anche Simha Falpan (Zionism and the Palestinians, Barnes and Nobel, 1979) si occupò del diverso modo di considerare l’elemento “altro” nella diatriba israelo-palestinese. Secondo quanto affermato nelle sue ricerche, per i Palestinesi il sionismo era solamente votato alla distruzione cui sarebbe seguita l’istituzione di una potentissima realtà politica nel bel mezzo del medio oriente arabo.
Lo stesso Said ha discusso di tale aspirazione sionista verso l’”Oriente” affermando:
“I progetti di trasformazione della Palestina proposti dal sionismo hanno razionalizzato l’idea dello scardinamento radicale della reale situazione in cui versava il Paese mostrando il miraggio di uno “sviluppo” (tutto più moderno, più avanzato, più giusto) che avrebbe costituito il coronamento di una giusta causa, una missione. E’ in ragione di tali “benefìci superiori” che i “chiamati” possono considerare come privi della minima importanza gli abitanti autoctoni, o addirittura negarne l’esistenza. Il popolo palestinese e persino la stessa Palestina vengono definiti come “ormai superati”, corrotti e perduti nel ricordo, nonostante l’evidenza dei fatti quotidiani dimostri il contrario”.
Traduzione di Giuliano Stefanoni
Scheda del libro: “Urbicide in Palestine: Spaces of Oppression and Resilience”