Uso corretto del linguaggio: il “genocidio progressivo“ dei Palestinesi continua

Uso corretto del linguaggio: il “genocidio progressivo“ dei Palestinesi continua

Palestine Chronicle. Di Ilan Pappe. Scrivo questo articolo il 10 marzo 2023. Settantacinque anni fa, in questa data, il comando militare della leadership sionista pubblicizzò il Piano Dalet, o Piano D, che, tra le altre linee guida, dava ordine alle forze sioniste in procinto di occupare centinaia di villaggi palestinesi e diverse città e quartieri della Palestina storica, di mettere in atto:

“Distruzione dei villaggi (incendiandoli, facendoli saltare in aria e piazzando mine tra le macerie), soprattutto di quei centri abitati difficili da tenere costantemente sotto controllo”.

“Operazioni di ricerca e controllo secondo le seguenti linee guida: accerchiamento del villaggio e rastrellamento all’interno di esso. In caso di resistenza, la forza armata deve essere distrutta e la popolazione deve essere espulsa fuori dai confini dello Stato”.

Linee guida simili furono fornite anche nel caso delle aree urbane. Si trattava comunque di una versione più soft rispetto agli ordini veri e propri che venivano impartiti alle unità sul campo. Ecco l’esempio di un ordine dato ad un’unità che aveva il compito di occupare tre grandi villaggi nella Galilea occidentale, in base a quanto stabilito dal Piano D:

“La nostra missione è di attaccare avendo come obiettivo l’occupazione… uccidere gli uomini, distruggere e dare alle fiamme Kabri, Umm al-Faraj e An-Nahr”.

Quindi, non c’è nulla di nuovo nell’affermazione di Bezalel Smotrich, il ministro delle Finanze di Israele, che chiede la cancellazione di Huwwara. Inoltre si è scusato perché tali commenti dovevano essere pronunciati solo in ebraico, ma ha dimenticato che siamo nel 2023 e quindi le sue parole sono state immediatamente tradotte in inglese. Smotrich si è scusato quindi perché qualcuno ha tradotto il suo discorso, non perché lo ha detto.

Gli esperti palestinesi hanno capito fin da subito che le argomentazioni sioniste destinate al consumo interno sono molto diverse da quelle con cui si presenta all’esterno. A volte sono stati in grado di trovare espressioni simili, anzi peggiori, su un percorso storico che conduce dal Piano D agli attuali omicidi quotidiani di palestinesi, alla demolizione delle loro case e all’incendio delle loro attività.

Walid Khalidi ha reso noto al lettore inglese il Piano Dalet, ed Edward Said ha attirato la nostra attenzione, nel suo fondamentale volume “The Question of Palestine”, su un’intervista pubblicata nel 1978, su un giornale locale israeliano, a Mordechai Gur, allora capo di stato maggiore israeliano. L’intervista fu condotta all’indomani della prima, e in gran parte ignorata, invasione del Libano da parte di Israele avvenuta in quell’anno. Il capo dell’esercito israeliano disse:

“Non sono una di quelle persone che ha una memoria selettiva. Pensate che io finga di non sapere cosa abbiamo fatto in tutti questi anni? Cosa abbiamo fatto in lungo e in largo nel Canale di Suez? Un milione e mezzo di profughi!… Abbiamo bombardato Ismailia, Suez, Port Said e Port Fuad”.

Sono sicuro che pochi dei nostri lettori sanno che Israele ha fatto un milione e mezzo di profughi egiziani all’indomani della guerra di giugno.

E poi, a Gur viene chiesto se ha fatto una distinzione tra popolazione militare e civile:

“Per favore, sia serio. Non sa che l’intera valle del Giordano era stata svuotata dei suoi abitanti a seguito della guerra di logoramento [con la Giordania]?”

Il giornalista prosegue poi con una domanda: “Quindi lei sostiene che la popolazione dovrebbe essere punita?”

“Certamente. E non ho mai avuto dubbi su questo… Sono ormai 30 anni, dal momento della nostra indipendenza, che combattiamo contro la popolazione civile [araba] che abitava i villaggi e le città…”.

Questo accadeva nel 1978 e, come sappiamo, questa politica continua fino ad oggi con eventi-simbolo orribili che includono Sabra e Shatila, Kafar Qana in Libano, Jenin e la Striscia di Gaza. Eppure, anche quando ho esaminato quelle atrocità assieme ad altri, le abbiamo definite, legittimamente, pulizia etnica; o, come le ha definite Edward Said, un progetto di accumulo (di terra e di potere) e di sradicamento (di persone, della loro identità e della loro storia).

Ho evitato di usare, in tutti questi tetri capitoli, il termine “genocidio”. L’ho usato solo una volta quando, descrivendo la politica israeliana nella Striscia di Gaza dal 2006, l’ho accusata di essere un genocidio progressivo. I recenti episodi di omicidi, dall’inizio di quest’anno, e il beneficio di un ennesimo momento commemorativo, probabilmente giustificano l’estensione del termine oltre gli atroci assalti e l’assedio di Israele alla Striscia di Gaza.

Collegare i puntini delle uccisioni tra un periodo di alcuni mesi, nei quali “soltanto” un numero esiguo di persone viene ammazzato quotidianamente, e i massacri commessi da oltre 70 anni è qualcosa che non viene facilmente accettato come prova sufficiente di politiche genocide.

Eppure, quella storia è la genealogia del genocidio secondo quanto affermato dall’art. 2 della “Convenzione per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio” delle Nazioni Unite, che stabilisce che i seguenti atti costituiscono genocidio se sono stati compiuti “con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”:

1. Uccidere i componenti del gruppo

2. Causare gravi danni fisici o mentali ai componenti del gruppo

3. Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale

4. Imporre misure volte ad impedire le nascite all’interno del gruppo

5. Trasferire con la forza i bambini del gruppo a un altro gruppo.

Sono certo che molti dei nostri lettori reagiranno dicendo di essere a conoscenza del fatto che si tratta di un genocidio. Ma nessuno di noi, che facciamo parte del team di Palestine Chronicle e in generale del movimento di solidarietà con i palestinesi, è qui per predicare ai convertiti. Abbiamo tutti contribuito allo sforzo, guidato dal movimento Boycott, Divestment and Sanctions (BDS), di convincere la società civile internazionale a considerare Israele come uno Stato di apartheid. Non si tratta di un risultato semplice, anche se la maggior parte dei governi del mondo si rifiuta ancora di farlo. È un progetto meritevole perché, quando avrà successo, porterà a sanzioni significative.

Allo stesso modo, il chiarissimo dispiegamento delle politiche genocide israeliane in Cisgiordania, non solo nella Striscia di Gaza, e non solo di recente, ma dal 1948 – anche sulla base delle prove fornite dagli stessi alti generali israeliani – potrebbe finalmente permetterci di rendere applicabile il diritto internazionale anche per la Palestina. Per anni, le istituzioni e i tribunali più importanti hanno deluso i palestinesi, garantendo a Israele l’immunità, soprattutto grazie alla pretesa di avere un sistema giudiziario indipendente e forte. Quest’ultima è una pretesa infondata, per non dire di peggio, e totalmente ridicola, soprattutto ora visti i recenti sforzi legislativi in Israele.

Anche se le istituzioni di diritto internazionale fossero state più sincere nel loro sostegno ai palestinesi, avrebbero avuto difficoltà a portare a processo i leader o i militari israeliani sulla base dell’accusa di pulizia etnica dei palestinesi. La “pulizia etnica” non è un termine giuridico, nel senso che i suoi autori non possono essere portati davanti alla giustizia sulla base di questa specifica accusa; non è riconosciuta come un crimine dal diritto internazionale. Questa è un’ingiustizia e può cambiare, ma è la realtà con cui dobbiamo fare i conti. Il crimine dell’apartheid è riconosciuto dal diritto internazionale come crimine contro l’umanità e i suoi autori possono essere portati davanti alla giustizia.

È importante analizzare l’uso del termine anche per un’altra ragione. Una delle opinioni comuni tra i sionisti liberali è che quanto accaduto in Palestina sia una piccola ingiustizia commessa per correggerne una ancor più orribile. Questa assurda giustificazione è stata recentemente accompagnata dalla nuova definizione di negazionismo dell’Olocausto adottata da molti Paesi e università che non ammettono invece alcun paragone tra l’Olocausto e la Nakba; un’equazione che verrà inquadrata come antisemitismo.

Questi due presupposti sono sbagliati per due motivi. In primo luogo, la “piccola” ingiustizia è tuttora in corso; non sappiamo ancora quanto sarà orribile alla fine, ma ciò che sappiamo è che non è affatto piccola e che rientra nella definizione di genocidio.

In secondo luogo, non si tratta di fare un paragone con l’Olocausto. È importante insistere sul fatto che un crimine contro l’umanità, ben definito dal diritto internazionale, possa ancora continuare. E perché questo possa cessare, forse non sarà sufficiente parlare di apartheid e pulizia etnica.

Possiamo e dobbiamo usare un linguaggio più incisivo e preciso, visto quel che vediamo succedere quotidianamente in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove vengono uccisi soprattutto giovani uomini e bambini. Ciò è necessario anche alla luce della continua criminalizzazione degli arabi del 1948, nei cui villaggi e città le forze di sicurezza israeliane permettono a bande locali, di palestinesi purtroppo, di uccidere per conto dello Stato.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi

(Foto: una donna palestinese esamina i danni causati dal pogrom dei coloni ebrei nella città di Huwwara, nella Cisgiordania occupata. Oren Ziv, via ActiveStills.com).