Verso un colpo di Stato in Palestina?

Verso un colpo di Stato in Palestina?

 

Di Alain Gresh

 

La questione può sembrare assurda. Dopotutto, non esiste uno Stato palestinese. Tuttavia, appare chiaro che esiste una volontà comune del governo israeliano, del governo americano, di una parte dei governi europei e di quelli arabi moderati, e di una parte stessa di Fatah, di rovesciare il governo nato dalle elezioni legislative del gennaio 2005, accordando una maggioranza ad Hamas.

 

Si sono così potuti sentire strani propositi dal portavoce di Fatah al Consiglio legislativo, Jamal Al-Tirawi che affermano «rovesceremo il governo Hamas. Adesso noi siamo la maggioranza». Ciò che il portavoce di Fatah non precisa è che questa maggioranza è resa possibile solo grazie all’arresto di numerosi deputati di Hamas da parte dell’esercito israeliano. Questa dichiarazione, aggiunta allo sciopero dei funzionari (dichiarato da sindacati vicini a Fatah) che reclamano il pagamento del salario (reso difficile dal boicottaggio della “comunità internazionale” e il rifiuto da parte d’Israele di pagare diritti doganali pari a 50 milioni di dollari mensili dovuti all’Autorità palestinese), caratterizza il clima. Le milizie di Fatah non hanno d’altronde esitato, a più riprese, ad imporre ai commercianti palestinesi degli scioperi di protesta contro il governo palestinese.

 

Questi scioperi non sono solamente manipolati. Poggiano su di un reale scontento dovuto al blocco imposto dalla comunità internazionale contro il popolo palestinese. Tutti i rapporti confermano il deterioramento senza precedenti della situazione materiale dei Palestinesi. Un nuovo rapporto dell’inviato speciale delle Nazioni Unite sui territori occupati, Special John Dugard, reso pubblico il 26 settembre, ha segnalato che l’azione israeliana a Gaza corrisponde ad una «pulizia etnica» e che la vita dei palestinesi è divenuta «tragica e insopportabile». Ha anche accusato Israele e i paesi occidentali di essere la causa del deterioramento della situazione.

 

Se Fatah può approfittare di questo contesto, può farlo solo relativamente. La giornalista Amira Hass in un articolo apparso oggi su Haaretz intitolato «Missing the governement of thieves» (Quando si rimpiange il governo dei ladri) riportava gli slogans dei manifestanti palestinesi in sciopero: «No Ismaïl, no Haniyeh, rivogliamo il governo dei ladri» (ricordiamo che Ismaïl Haniyeh è il primo ministro palestinese, scelto da Hamas). E Amira Hass riassume il sentimento di una parte della popolazione: «Il governo Hamas è forse pulito, ma i ladri di Fatah valgono di più. Dopotutto, quando Fatah era al potere, eravamo pagati». Ed è la giornalista che spiega, «chi fa fatica a digerire l’allontanamento dal potere, si serve della logica delle richieste internazionali e agisce in modo da rovesciare un governo eletto».

 

Nonostante questa situazione, un sondaggio pubblicato il 26 settembre indica un mantenimento della popolarità di Hamas. Secondo i risultati, il 42% di Palestinesi è soddisfatto dell’azione del governo e il 54% è insoddisfatto. La gente disposta a votare per Hamas rappresenta ancora il 38% (stessa percentuale di tre mesi fa), mentre la popolarità di Fatah è solo leggermente salita al 41%. Se la popolarità di Mahmoud Abbas raggiunge il 55%, in caso di nuove elezioni presidenziali, soltanto il 31% degli elettori voterebbe per lui, contro il 24% per Haniyeh e il 13% per Marwan Barghouti, il dirigente di Fatah fatto prigioniero dagli Israeliani. (Osserviamo che secondo questo sondaggio, il 56% degli Israeliani sono favorevoli a negoziati con un governo palestinese diretto da Hamas).

 

Ricordiamo brevemente la cronologia degli avvenimenti. Alla fine di giugno, Fatah e Hamas si mettono d’accordo sul famoso «documento dei prigionieri», elaborato da prigionieri politici di ogni tendenza politica (il Jihad islamico emette qualche riserva). Contiene tre principi: accettazione della creazione di uno Stato palestinese sui territori occupati nel 1967 (e quindi riconoscimento de facto d’Israele); limitazione delle azioni armate ai territori occupati; Mahmoud Abbas sarebbe incaricato di svolgere i negoziati di pace con Israele (segnaliamo che secondo gli accordi di Oslo è l’OLP e non l’Autorità palestinese l’incaricato dei negoziati con Israele). Il sequestro del soldato israeliano il 25 giugno determina un’offensiva israeliana generale e i negoziati fra Hamas e Fatah per la creazione di un governo di unione nazionale vengono sospesi.

 

Riprendono e sembrano giungere ad un accordo all’inizio di settembre, con un governo di unione nazionale diretto da Hamas. Alla vigilia della sua partenza per New York, il presidente Abbas sospende i negoziati. Incontra il presidente Bush e, in seguito a questo colloquio, interviene all’Assemblea generale affermando che qualunque governo palestinese si baserà sulle trattative di riconoscimento reciproco intercorse fra Arafat e Rabin, il 9 settembre 1993 (alla vigilia della firma degli accordi di Oslo). Ricordiamo che, in queste trattative, l’OLP riconosce lo Stato d’Israele, mentre Israele si limita a riconoscere l’OLP come rappresentante dei Palestinesi.

 

Questa richiesta di Mahmoud Abbas a un futuro governo, incluso quindi Hamas, di riconoscere esplicitamente Israele, non è assolutamente realista in questo momento. Hamas non può acconsentire per due ragioni: prima per ragioni interne, un cambiamento così profondo al suo programma può portare solamente alla scissione del movimento; ma soprattutto perché un riconoscimento di questo tipo sarebbe accettato senza alcuna contropartita seria da parte di Israele. Il giornalista israeliano Dany Rubinstein, nel quotidiano Haaretz, poneva la domanda «Why recognize Israel?» (perché riconoscere Israele?). Ricordava che l’OLP, che ha riconosciuto Israele, non ha guadagnato niente in seguito a questo gesto. D’altronde tutti i sondaggi mostrano che l’opinione pubblica palestinese non chiede a Hamas di fare questa concessione. Tenuto conto dell’ampiezza della colonizzazione che non si è mai fermata un istante dal 1971, Dany Rubinstein annota che «non vi sono equivoci nel messaggio israeliano: voi, Palestinesi, non avete scelta. Avete riconosciuto Israele e ciò che avete ricevuto in cambio è la liquidazione di ogni vostra speranza nazionale. Perché bisognerebbe che Hamas riconoscesse nuovamente Israele, visti i risultati ottenuti in precedenza?»

 

Per il momento, la direzione di Fatah non è unita. Mahmoud Abbas stesso è esitante. È sottomesso a una quantità di pressioni: interne (numerosi dirigenti di Fatah sono ostili all’accordo e non vogliono divisioni di potere). Ma le pressioni dei governi stranieri non sono meno forti: Israele e gli Stati Uniti non vogliono Hamas; gli Stati arabi moderati ancora meno (un governo di unione nazionale con gli islamici rischia di suggerire anche da loro idee simili); una parte dei governi europei (ma, globalmente, l’Unione è piuttosto neutra)… Se il governo eletto in gennaio doveva cadere a queste condizioni, la lezione impartita ai popoli della regione è “chiara”: avete il diritto di votare, a condizione di votare come vogliono gli Stati Uniti, Israele e i paesi arabi “moderati”…Non ci si stupirà poi che i discorsi più estremisti di rigetto della “democrazia occidentale” trovino nel Vicino Oriente orecchie più sensibili…

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Di Alain Gresh

Giovedì 28 settembre 2006

(Traduzione di Barbara Monaco)

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