Viaggio nel giugno 1967 e ritorno: sulle narrazioni inventate dal sionismo

Palestine Chronicle. Di Ilan Pappe. In occasione del 55° anniversario dalla guerra del giugno 1967, vale la pena contestare, ancora una volta, le falsificazioni e i miti che la circondano e che hanno contribuito fino ad oggi a rendere Israele immune da qualsiasi rimprovero e condanna internazionale rilevante.

Un mito nel quale credono non pochi sionisti liberali, e persino autentici sostenitori della soluzione dei due Stati, è che la guerra del giugno 1967 sia stata l’origine di tutti i mali. In altre parole, questi affermano che fino al 1967 Israele era una democrazia pacifica, che si difendeva in un ambiente estraneo, un vero esempio di socialdemocrazia, se mai ne fosse esistita una.

Questo è il mantra della sinistra sionista che però ignora il ruolo determinante che il suo marchio di sionismo ha giocato nella pulizia etnica della Palestina del 1948. Non tiene conto del duro e disumano regime militare che Israele, guidato dai laburisti, ha imposto ai Palestinesi rimasti nello Stato ebraico fino al 1967. Un periodo in cui Israele ha continuato la pulizia etnica di un’altra decina di villaggi palestinesi. Le stesse scene crudeli della brutale occupazione militare in Cisgiordania, che hanno spinto tanti nel mondo a schierarsi con i Palestinesi, erano già evidenti negli anni ’50, all’interno dello stesso Israele.

Questa immagine benevola di un piccolo Israele che è diventato, senza alcuna colpa, un mini-impero e un occupante, ignora anche il disastro di Suez del 1956 quando Israele, colluso con la Gran Bretagna e la Francia, ha compiuto il tentativo imperialista abortito di rovesciare Gamal Abdul Nasser.

Anche la politica provocatoria israeliana al confine con la Siria, la deviazione israeliana del fiume Giordano e le minacce esplicite dei suoi leader di rovesciare il regime siriano, sono in qualche modo state dimenticate. Una politica aggressiva nel nord portò addirittura Nasser a credere realmente che un attacco israeliano contro la Siria sarebbe stato più devastante di quelli che Israele ha condotto nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

La piena consapevolezza dell’intransigenza di questo paese occupante non solo sfata il mito del piccolo e pacifico Israele, ma aiuta anche a comprendere meglio il percorso che portò allo scoppio della guerra del giugno 1967. Il principale attore arabo, Gamal Abdul Nasser, era chiaramente mosso da un genuino desiderio di aiutare la liberazione della Palestina, da un lato, e dalla sua personale ricerca di gloria panaraba, dall’altro. Per questo non aveva bisogno di una guerra, ma doveva solo dimostrare di essere disposto ad andare in guerra.

Per lui sarebbe stato un grande successo la disponibilità dell’ONU a riconsiderare il suo disastroso “piano di pace” del 1947 che permise la pulizia etnica della Palestina nel 1948. Per raggiungere questo obiettivo, egli perseguì una politica di brinkmanship (del rischio calcolato ndt), a volte incauta, in quanto fornì ad Israele il pretesto per completare l’annessione di quella parte di Palestina che non era riuscito a fare nel 1948.

Fin dal 1948, un numero rilevante di generali israeliani, che avevano partecipato alla pulizia etnica della Palestina, crearono una lobby che faceva pressione sul governo israeliano per l’occupazione della Cisgiordania, da loro considerata il cuore della nazione e una zona cuscinetto che proteggeva da eventuali attacchi provenienti da est contro lo Stato ebraico.

Se non fosse stato per David Ben-Gurion, l’architetto della pulizia etnica del 1948, questo tipo di operazione avrebbe potuto avvenire anche prima del 1967. Fino al 1963, Ben-Gurion era stato il politico più potente di Israele e non voleva includere un gran numero di Palestinesi, dopo aver espulso con successo quasi tutti quelli che vivevano in quello che divenne Israele. Ciononostante, un’occupazione simile si verificò praticamente nel 1960, quando Nasser dichiarò che non avrebbe tollerato il continuo sconfinamento israeliano negli estuari del fiume Giordano e la violazione della zona di interdizione che separava Israele dalla Siria (all’epoca era a capo della Repubblica Araba Unita, che durò come unione politica tra Egitto e Siria fino al 1961).

Nel 1960, come nel 1967, Nasser inviò l’esercito egiziano nella Penisola del Sinai e chiuse lo Stretto di Tiran, all’ingresso del Golfo di Aqaba, ma questo non provocò la guerra poiché il Generale Ben-Gurion frenò le sue mire bellicose. Israele rinunciò per un po’ di tempo alle sue politiche aggressive (anche perché le amministrazioni Eisenhower e Kennedy erano ancora capaci di portare avanti una politica più riservata nei confronti di Israele, prima che l’AIPAC diventasse una forza con cui dover fare i conti, piegando la politica americana verso il suo tristemente noto orientamento filo-israeliano).

Ben Gurion sapeva benissimo che Nasser, a differenza dei regimi più conservatori della regione, era impegnato moralmente per la liberazione della Palestina o, come spesso affermava, per il ritorno dei profughi e il ritiro di Israele dai territori assegnati nel 1947 dall’ONU ai Palestinesi (una posizione basata sul diritto internazionale secondo l’Occidente, ma che quando veniva ventilata da Nasser era considerata radicalismo arabo). A differenza di Ben-Gurion, Moshe Sharett (primo ministro nel 1954-1955) sarebbe stato disposto ad avviare negoziati con Nasser sulla base di questi principi – mossa vanificata nel momento in cui Ben-Gurion salì al potere – deciso a far cadere Nasser e il Baath in Siria.

Per qualche tempo sembrò che la politica di Nasser avesse avuto successo. Gli Stati Uniti guidarono un’iniziativa internazionale tesi a riaprire i negoziati sul futuro della Palestina. Israele, però, non poteva permetterselo e iniziò la sua guerra il 5 giugno 1967. La sconcertata delegazione britannica all’ONU scrisse agli americani:

“Abbiamo esaminato queste prove e siamo giunti alla conclusione che sono stati gli israeliani a sparare per primi e riteniamo che sia stato riprovevole da parte loro non aspettare gli sforzi che noi e altri stavamo facendo per farli uscire dalla situazione, indubbiamente insostenibile, nella quale la RAU li aveva messi”.

Questo fu uno dei tanti punti di uscita dalla crisi. In un certo senso, Nasser costrinse la comunità internazionale a rendersi conto che il caso e la causa della Palestina non erano cessati nel 1948. Ciò di cui però lui, e molti altri nella comunità internazionale, non si resero conto è che, con o senza politica di brinkmanship, dal 1963 la leadership israeliana – da quando Ben Gurion venne estromesso da ogni ruolo importante – si era preparata all’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza e l’avrebbe portata a termine, prima o poi.

Come stato coloniale, annettere più territorio era la priorità maggiore rispetto al fatto di sbarazzarsi della popolazione nativa – il metodo era stato lo stesso per tutti i movimenti coloniali: una volta privata la popolazione indigena della sua patria, si può iniziare a trattare con gli indigeni che vivono su di essa (Israele ha fatto lo stesso nelle Alture del Golan nel 1967 – dopo l’occupazione, ha eliminato etnicamente più di 100.000 persone tra la popolazione locale).

I piani per l’occupazione e la gestione del 22% della Palestina (la Cisgiordania e la Striscia di Gaza) che Israele non riuscì, o decise di non occupare nel 1948, erano già definiti nel 1963. L’idea di base era semplice: nelle aree palestinesi all’interno dello Stato di Israele era già attivo un governo militare pronto ad agire; tutto ciò che si doveva fare era muoversi rapidamente per imporlo sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza nel 1967.

Quando l’occupazione militare venne completata e il nuovo governo militare fu istituito, il 13° governo di Israele prese una decisione strategica, dalla quale nessuno dei governi israeliani successivi si è mai discostato. La Cisgiordania sarà per sempre parte di Israele e, con il tempo, lo Stato ebraico farà tutto il possibile per ridurre il numero di Palestinesi che vi abitano (l’enclave di Gaza già allora era stata considerata un’opzione seria, come parte complementare del piano).

Ci furono dibattiti strategici su quali aree della Cisgiordania dovessero essere ufficialmente annesse (a parte il consenso sull’annessione di Gerusalemme Est) e su come presentare al mondo questo piano espansionistico, seconda fase delle operazioni di pulizia etnica del 1948. In quel momento, il “processo di pace” venne invertito, presentato in seguito addirittura come una soluzione a due Stati (vale a dire che qualsiasi parte Israele fosse disposta a governare indirettamente poteva essere gestita autonomamente dai Palestinesi). Il mondo e, ahimè, molti Palestinesi, all’epoca si bevvero l’ennesima montatura e manipolazione sioniste della verità.

Più Israele si spostava a destra, più riduceva l’autonomia. Con il rischio di fare previsioni, mi azzardo ad affermare che questa diminuzione della presenza palestinese autonoma in Cisgiordania (circa il 15% in questo momento, cioè meno del 4% della Palestina storica) porterà alla fine allo smantellamento da parte di Israele dell’AP o alla sua trasformazione in una semplice municipalità della grande Ramallah. Questo processo è già iniziato.

Ma ciò implica anche una buona notizia. Dato che Amnesty International, anche se troppo tardi e in modo un po’ troppo lieve, è arrivata a definire questo come uno stato di Apartheid, la futura politica aggressiva contribuirà all’accettazione dell’interpretazione di Amnesty da parte di molti altri in occidente, e forse anche la narrazione più puntuale offerta dalla società civile e dagli attivisti palestinesi (un riferimento più diretto, senza condizioni, alla realtà dell’apartheid). Questo potrebbe chiudere per sempre la porta alla soluzione dei due Stati, minare la logica dell’Accordo di Abraham e costringere la leadership ufficiale palestinese a tornare alla soluzione di un solo Stato come visione e strategia.

So che questo sembra ancora utopico e che la sua realizzazione dipende anche dall’unità e dall’organizzazione strategica palestinese. Ma sarà una parte importante di una possibile liberazione futura. Moshe Dayan disse al 13° governo di Israele che gli abitanti della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza sarebbero stati cittadini senza essere-cittadini – persone senza alcun diritto di discutere il loro destino e il loro futuro. “Per quanto tempo” sarà così, gli chiese il leader dell’Herut, poi del Likud, Menachem Begin. “Oh, almeno per 50 anni”.

Sono ormai 55 anni dalla creazione delle disumane e mostruose prigioni che Israele ha costruito e mantenuto in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Sono sopravvissute a due coraggiose rivolte, ma ne incontreranno una terza, che si profila in un futuro molto prossimo. E con essa, si spera, la narrazione falsificata che ha accompagnato la seconda fase della pulizia etnica israeliana nel 1967 smaschererà la vera natura del sionismo liberale, metterà fine a ogni sorta di colloqui di pace e farà passare la sbornia a coloro che credono alla soluzione dei due Stati – tra cui alcuni dei nostri migliori amici – e sfiderà chiunque sostenga che la Palestina è perduta.

(Foto: palestinesi fanno volare aquiloni con i colori della bandiera palestinese per commemorare il giorno di Naksa. Di Mahmoud Ajjour, The Palestine Chronicle).

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi