VIAGGIO NELL’INFERNO DI GAZA


Di Angela Lano



L’Egitto ci ha concesso 4 giorni nella Striscia di Gaza. Dopo 48 ore di attesa al valico di Rafah e una quantità incredibile di documenti, dichiarazioni, remissioni di responsabilità da parte loro, da parte dell’ambasciata italiana, ecc., il 29 gennaio siamo finalmente entrati nella Striscia.

Mentre eravamo fermi davanti all’ufficio passaporti, abbiamo raccolto alcune testimonianze, pubblicate su Infopal il 29: DALLA STRISCIA, DOLORE E FIEREZZA

Informazione imbavagliata e manipolata

. Come giornalista ho sentito il dovere morale e professionale di andare a raccogliere le notizie “sul campo”. Anche perché, in questo periodo storico, e su questo particolare contesto politico-geografico, è quanto mai necessario divulgare notizie corrette, veritiere.

Alcuni famosi, e altri meno, colleghi giornalisti dei grandi mainstream, in video e in carta, si sono recati nella Striscia, hanno constatato di persona il disastro umanitario creato dalle super-bombe di Israele, ma hanno ritenuto indispensabile, per la loro carriera e sopravvivenza professionale, raccontare un sacco di balle. Quelle che stanno intossicando da settimane il pensiero di quegli italiani che prestano ancora cieca fiducia nei mezzi di informazione e che credono che la colpa sia di Hamas, dei palestinesi, e non dello stato sionista che rifiuta di riconoscere ogni diritto o legge internazionale.

I nostri media raccontano fior di menzogne e distorcono le informazioni. Fanno a gara a chi riesce a censurare di più e a stravolgere la verità su ciò che è successo a Gaza. In questi giorni, addirittura, la Rai ha promosso un sondaggio basato sulla notizia, falsa, secondo cui Hamas avrebbe utilizzato i bambini come “scudi umani” (http://www.sondaggi.rai.it/index.php ). Questa manipolazione clamorosa è stata diffusa da un collega che ha preso per buona la propaganda israeliana. Sono notizie e “sondaggi” come questi che fanno accapponare la pelle a chi ha ancora un po’ di dignità umana e professionale, e che danno la misura dell’indecenza morale ed etica in cui è sprofondato il nostro Paese.

Per fortuna il giornalismo NON è solo quello becero italiano: l’emittente qatariota al-Jazeera sta facendo un ottimo lavoro di informazione, permettendo al mondo di conoscere fatti e verità altrimenti nascoste dalla Israel Lobby e dai suoi ascari. Da questo sito http://cc.aljazeera.net/node si possono liberamente scaricare video sul genocidio di Gaza.

Anche negli Usa ci sono tv nazionali che trasmettono servizi obiettivi e non manipolati: http://mirumir. altervista. org/2009/ 02/la-pace- e-irraggiungibil e.html

Ebbene, dunque, per dovere di cronaca, per etica professionale – sì, perché esiste un codice deontologico anche nel giornalismo italiano, seppur si faccia fatica a crederlo -, ho deciso di recarmi nella Striscia di Gaza, approfittando di un breve periodo di “tregua” e di “apertura” del valico di Rafah. Uso le virgolette perché una tregua in cui vengono fatte vittime giornaliere non è veramente tale e un valico che si apre a singhiozzo e selettivamente e a discrezione degli umori dell’Egitto, non è realmente aperto.

Le responsabilità egiziane

Innanzitutto, è necessario ribadire che a soffocare la Striscia, dal sud, è l’Egitto, che chiude perennemente il valico di Rafah e permette l’ingresso con il contagocce e dopo ore, o giorni di attesa, a delegazioni di medici, giornalisti, ingegneri, volontari e a malati o feriti palestinesi.

Nei due giorni di attesa, abbiamo assistito a scene penose: famiglie di palestinesi che tentavano di rientrare nella Striscia, bloccate al valico. Ne ricordo una, russo-palestinese, residente a Gaza, con figli cresciuti lì – e uscita per alcune settimane, durante la guerra, grazie al ponte aereo russo –, che tentava disperatamente di rientrare a Gaza. Il padre, un giovane di Gaza, la madre, una russa ormai gazawi, tre figli palestinesi, che urlavano disperati e arrabbiati contro le guardie di frontiera egiziane. Ad un certo punto abbiamo temuto il peggio. Non sappiamo se la famigliola ha potuto far ritorno a casa o se è stata rimandata indietro non si sa dove. Al papà, palestinese di nascita e residenza, ma con cittadinanza russa – per via del matrimonio – i poliziotti egiziani chiedevano “il passaporto palestinese”, che lui, ovviamente, non aveva.

Il governo del Cairo sembra che curi più gli interessi israeliani che quelli propri o arabi in generale. Si pensi solo al gas naturale che vende allo stato sionista per pochi spiccioli e che questi rivende a caro prezzo ai palestinesi…. Basterebbe chiudere i rubinetti con Israele e aprirli con i palestinesi, per fare già qualcosa di rivoluzionario, per la pace. Invece, no. I palestinesi, e chi si reca in Palestina, sono trattati a pesci in faccia e con sospetto, gli israeliani, invece, ricevono trattamenti privilegiati. Se questi sono i “fratelli”, pensate un po’ come devono essere gli “estranei” o i nemici…

In viaggio verso Gaza

Con me, viaggiavano Mohammad al-Abed e Daniele Parracino, “aiutanti sul campo” di Infopal, testimoni della distruzione compiuta dallo stato sionista, e volontari delle associazioni Abspp onlus e Api (associazione palestinesi in Italia).

Essi hanno portato carichi di aiuti umanitari – pacchi alimentari, kit scolastici, denaro – alla popolazione profondamente provata da due anni di feroce embargo e assedio e da 23 giorni di genocidio.

La maggior parte dei palestinesi della Striscia è infatti costretta a vivere di sussidi, di donazioni umanitarie, a causa dell’assedio israelo-internazionale che ha paralizzato le diverse attività produttive palestinesi.

Sì, perché in questo fazzoletto di terra, i palestinesi avevano creato industrie alimentari, di abbigliamento, cementifici, aziende per la lavorazione del ferro, ditte di edilizia, distese di serre per le produzioni agricole, allevamento di bestiame. Prima dell’embargo provocato dalla “scelta elettorale sbagliata”, cioè il voto in massa a Hamas, nella Striscia si lavorava, si produceva. Ora, invece, con le fabbriche polverizzate e quelle ferme a causa della mancanza di materie prime, e i campi divelti, imperversano disoccupazione e fame.

E’ la ricetta criminale di Israele per tentare di annientare un popolo.

Ma i palestinesi resistono e reagiscono. Sorridono, invocano la “pazienza” e vanno avanti. Quasi quasi, anziché cercare noi di consolare loro, loro hanno dato forza a noi. Chiunque si rechi in Palestina, oltre all’orrore per le mostruosità continuamente e impunemente reiterate dallo stato ebraico, coglie subito lo spirito combattivo e mai vinto del popolo, un orgoglio e una fermezza nel voler raggiungere i propri legittimi diritti, che gli hanno permesso di sopravvivere a 60 anni di genocidi e di pulizia etnica.

Nella Striscia c’è un disastro. Una vera ecatombe. Da non credersi. Israele ha commesso crimini di guerra: basta andare in giro per le cittadine e i campi, per accorgersene. Ovunque c’è distruzione. Il senso di impotenza e di rabbia nasce in molti di coloro che arrivano a Gaza: non si capisce come mai l’Onu e l’Europa non fermino la mano di Israele e le permettano di massacrare impunemente migliaia di esseri umani e di distruggere tutto. L’Attila, il Barbaro dei nostri giorni.

A Israele non interessa la pace. Il suo progetto, molto chiaro ed evidente, è la conquista di tutta la Palestina storica. Sono 60 anni che sta compiendo genocidi e pulizia etnica contro i palestinesi, nonostante le moltissime risoluzioni dell’Assemblea delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E’ sopra ogni legge e non rispetta il diritto internazionale e umanitario, e tantomeno gli effimeri Accordi di Pace, teatrino dell’impotenza e della codardia internazionale.

Il “tour” della distruzione. Nel pomeriggio del 29, abbiamo attraversato la Striscia da sud a nord – il viaggio richiede poche ore – e abbiamo fotografato l’Armageddon israeliana.

Abbiamo percorso questa striscia di terra di 7 km di larghezza per 50 di lunghezza, da sud a nord: Rafah, Khan Younes, Abasan, Deir al-Balah, al-Bureij, an-Nuseirat, Gaza, Jabaliya, Beit Lahiyah…, e dovunque abbiamo visto lo stesso scempio: case, palazzi di 15-18 piani, moschee, ospedali, scuole, acquedotti, caserme della polizia urbana, industrie alimentari e per l’edilizia, cascine, strade, tutto ridotto in briciole. Ai campi agricoli, ai frutteti, agli uliveti, non è toccata sorte migliore: chilometri di terre spianate dai bulldozer, montagne di spazzatura, detriti e carcasse di animali in putrefazione. Un odore che toglie il respiro.

La Rafah palestinese ci dà il benvenuto con la visione di una sequenza di casa e campi distrutti:

  

In successione, vediamo anche diversi quartieri della cittadina di Khan Younis completamente spazzati via. Tsahal non ha risparmiato case, uffici postali, uffici pubblici, ecc. I morti, qui, sono stati oltre 120 e i feriti 150.

Nella Striscia di Gaza non ci sono più alberi da frutta – peri, meli, cachi, ecc.: i militari israeliani li hanno sradicati tutti. Ora gli abitanti devono comprare la frutta a caro prezzo, da Israele.

A Khan Younis visitiamo un’associazione benefica islamica, gemellata con la Abspp di Genova. Negli uffici, ci mostrano le foto dei martiri, giovani della cittadina ammazzati nel primo giorno di bombardamento. Poi, ci mostrano le immagini degli orfani che hanno lasciato soli: bimbi piccolissimi.

Proseguiamo il viaggio dell’orrore lungo strada Salah ed-Din, che collega l’intera, piccola, Striscia: entriamo nell’area di Deir el-Balah, con i suoi campi-quartiere di el-Maghazi, el-Breij, an-Nuseirat, Deir al-Balah. Ovunque, la stessa distruzione.

A Nuseirat, ci fermiamo a guardare frastornati le rovine della sede della polizia urbana. “Covo di terroristi”, hanno tuonato i nostri media al servizio della propaganda d’Israele. In realtà, era la caserma della polizia municipale. Gli omologhi dei nostri vigili urbani. Molti dei poliziotti, con ogni probabilità, non erano né di Hamas né di Fatah né di altri partiti. Sono morti in 70. Intrappolati e spappolati sotto le macerie e i lastroni di cemento.

 

Poi, andiamo avanti, sempre più basiti, increduli, verso Gaza City – e i suoi quartieri di Zaytun, ash-Shujaiyah, at-Tuffah -, verso Jabaliya, Shati, Beit Lahiyah. Siamo arrivati al nord della Striscia, in poche ore. Ma la nostra mente e le nostre emozioni già non ne possono più di tanta disumana, bestiale distruzione.

La dignità delle piccole cose. Venerdì 30 gennaio, Khan Younis. L’albergo dove alloggiamo in questi giorni appartiene alla Mezzaluna rossa palestinese. È un’ampia costruzione di nove piani, con centinaia di stanze, molte delle quali destinate a 40 famiglie rimaste senza tetto a seguito dei bombardamenti israeliani delle settimane passate.

Nell’atrio c’è un piccolo contingente di guardie armate che vigila sulla sicurezza di tutti gli inquilini.

Le nostre stanze sono all’ottavo piano. Da qui si ha la vista di tutta la cittadina e oltre. Ci commuove un particolare, insignificante in altri momenti: nei bagni ci sono asciugamani pulite e sapone e shampoo confezionati. Come in qualsiasi hotel. Solo che non siamo in un qualsiasi hotel, ma in una sorta di ostello per scampati ai bombardamenti. Ecco, questo sforzo di “normalità” e dignità nell’accoglienza ci fa venire le lacrime agli occhi. I palestinesi hanno una forza d’animo e una fierezza senza pari.

Per contrasto, qualcuno ci racconterà, nei giorni successivi, che i “gloriosi” soldati di Tsahal, rinchiusi nei corazzati, indossano pampers per non dover uscire a far pipì e rischiare di essere bersaglio della resistenza palestinese….

Tantissimi bambini. Ciò che balza subito agli occhi, in qualsiasi cittadina o villaggio, è la presenza di moltissimi bimbi, di tutte le età. Colpire la Striscia significa fare macelleria di questi piccoli. Certo, per giustificarsi agli occhi ciechi del mondo, lo stato sionista inventa la bugia degli “scudi umani usati da Hamas”. Semplicemente, ogni qual volta un missile dell’aviazione o dell’artiglieria israeliane si abbatte sulla Striscia densamente popolata, fa strage di bambini. E’ impossibile non centrarli. Sono in ogni luogo, a nugoli. Uno degli obiettivi della guerra israeliana è, appunto, far piazza pulita delle nuove generazioni, così “non cresceranno altri terroristi”, come ha limpidamente affermato un giovane e ruspante esponente della comunità ebraica di Roma durante la vituperata trasmissione Anno Zero dedicata alla mattanza di Gaza (in realtà, raro caso di giornalismo televisivo dignitoso).

  Jabal ar-Rais, ovvero scenari lunari, tra crateri, macerie, spazzatura e tendoni per profughi.

Si tratta di un’altura dove si erano sistemati i soldati di Tsahal per colpire con mezzi di artiglieria pesante le case sottostanti, i campi agricoli, le industrie. Ora l’area è completamente devastata. Di intatto non rimane più nulla. Sono macerie, cumuli di spazzatura putrescente, carcasse di animali in decomposizione. E un olezzo da togliere il fiato. Sullo sfondo, una grande tendopoli, per accogliere le famiglie rimaste senza casa.

Lo scenario va oltre ogni nostra pur catastrofica previsione. Sembra di essere atterrati su Marte o nei crateri lunari, o su una Terra del futuro post-guerra nucleare. Eppure, doveva essere un’area industriale e abitativa con un certo sviluppo. Ma ora non rimane più nulla, se non le rovine.

Palazzi distrutti

In questo e nei giorni successivi, faremo altri “tour” delle rovine cittadine. Uno spettacolo che toglie il respiro, annichilisce la mente.

Beit Lahiyah. Palazzina di 15 piani bombardata.

  Scuola

A Gaza City, il compound dei ministeri delle Finanze, degli Esteri e degli Interni è stato totalmente distrutto:

Il parlamento:

L’ospedale al-Quds:

 

Incontri e interviste


Sabato 31 gennaio. Incontriamo il ministro degli Affari sociali, Ahmed el-Kurd. Arriviamo con un’ora di ritardo, da bravi italo-palestinesi, e nell’ufficio del cordiale e simpatico ministro troviamo una delegazione turca, entusiasta per la presa di posizione coraggiosa del loro premier, Tayyp Erdogan a Davos (Grande accoglienza popolare per Erdogan di ritorno da Davos).

Quando, dopo quasi un’ora, la delegazione se ne va, dicendo che, oltre al premier, “tutta la società turca è con voi”, noi italiani ci guardiamo e non riusciamo a trattenere un commento sarcastico sul nostro governo e sul nostro parlamento, sguaitamente filo-israeliani.

Per il contenuto dell’incontro e l’intervista con el-Kurd: STRISCIA DI GAZA, MINISTRO ELKURD: L’EUROPA CI AIUTI AD APRIRE I VALICHI.

Vittorio, il gazawi

All’ora di pranzo, al ristorante Deira, in riva al mare di Gaza City, incontriamo l’ormai mitico Vittorio Arrigoni, il gazawi d’Italia, attivista dell’Ism (International solidarity movement), scampato a 23 giorni di guerra e unico testimone italiano della mattanza.

Vittorio ci racconta delle collaudate tattiche terroristiche di Israele durante Piombo Fuso: bombardare un palazzo pieno di civili, aspettare che giungano i soccorsi e i giornalisti, e bombardare di nuovo massacrando questi ultimi. Le ambulanze distrutte ne sono ampia testimonianza.

Oppure, terrorizzare le famiglie con telefonate che annunciano bombardamenti imminenti.

Ci parla anche dei bambini morti d’infarto, il primo giorno di guerra.

Un vero paese di gente civilizzata, Israele! Maestri di umanità e diritto.

Nel pomeriggio, ci rechiamo alla sede dell’Ordine degli Ingegneri di Gaza – una struttura moderna e ben tenuta, in una strada altrettanto ben curata -, dove incontriamo due ministri tecnici del governo Hamas: Osama el-Essawi, architetto che ha studiato e vissuto a lungo in Italia, e con fluente italiano, ministro dei Trasporti, e Yousef al-Mansi, ingegnere e ministro dei Lavori pubblici e delle politiche abitative.

Per leggere l’intervista ai due ministri: MINISTRI TECNICI DELLA STRISCIA: AIUTATECI A RICOSTRUIRE GAZA.

Lo Shifa hospital, e la tenda degli orrori

 

Domenica 1° febbraio. Alle 9 ho l’appuntamento con il dott. Ashur, direttore dell’ospedale Shifa, il più grande della Striscia di Gaza.

Per leggere il resoconto dell’intervista e della visita allo Shifa: LA STRISCIA DI GAZA E GLI INGIUSTIFICABILI CRIMINI D’ISRAELE

In tarda mattina, con Vittorio Arrigoni e un suo amico, giornalista freelance palestinese, ci rechiamo nella redazione della tv al-Quds, diretta da Imad Efranji, direttore anche del nostro ufficio di corrispondenza, al-Watan.

Nella sede della tv, incontriamo lo speaker del governo di Gaza, Taher an-Nuno, anche lui, come gli altri politici e ministri finora incontrati, molto cordiale e disponibile.

Per leggere l’intervista: GOVERNO HAMAS: TREGUA A CONDIZIONI ACCETTABILI

Nel pomeriggio, ci fermeremo qualche ora a scrivere nel bel giardino dell’Hotel Marna, a Gaza City. A lavorare, seduti ad altri tavoli, alcuni giornalisti stranieri. In giro per la città ci sono un reporter di Rai3 e una giornalista di un’agenzia stampa italiana. Per il resto, oltre a noi, non ci sono altri cronisti italiani.

Verso le 16, mentre sto intervistando un docente di Studi culturali dell’Università al-Aqsa di Gaza, il prof. Haidar Eid, Israele riprende a bombardare la Striscia. Il giardino dell’hotel è scosso da un sussulto. Pochi istanti dopo, sentiamo nel cielo il macabro sorvolo degli F16. Sarà l’inizio di una nuova serie di attacchi contro diverse aree della Striscia, sebbene, per il momento, non segni l’avvio di una nuova guerra.

Si legga anche: STRISCIA DI GAZA, ISRAELE RIPRENDE I BOMBARDAMENTI DAL MARE. F16 IN CIELO.

Un comando di polizia e due siti presso Rafah colpiti dagli F16 israeliani

Nel frattempo, nella serata di sabato e nella giornata di domenica, Mohammad el-Abed e Daniele Parracino, a nome della Abspp e dell’Api, hanno consegnato numerosi aiuti umanitari alle famiglie palestinesi in difficoltà.

Si chiudono le porte del Lager-Gaza. Lunedì 2 febbraio. Il nostro “permesso” di visita alla prigione di Gaza è scaduto. Dobbiamo far ritorno in Egitto e poi in Italia. Al mattino, salutiamo i nostri amici dell’associazione benefica islamica di Khan Younis, e facciamo rotta verso il valico di Rafah, sapendo di chiuderci alle spalle 1,5 milioni di persone intrappolate nella Alcatraz voluta da Israele (e dall’Egitto).

Ci sentiamo tutti e tre avviliti e in colpa per questa nostra “libertà” di entrare ma anche di uscire dal lager-Gaza. All’interno, rimangono i nostri amici, i nostri colleghi, i nostri fratelli e sorelle, la maggior parte dei quali a noi sconosciuti, ma altrettanto cari.

Piombo Fuso, le dimensioni del disastro

1366 palestinesi uccisi (430 bambini e 111 donne, 6 giornalisti, 6 medici, 2 operatori Onu), 5360 feriti (1870 bambini e 800 donne), 16 strutture ospedaliere colpite (tra cui l’ospedale al-Quds distrutto), 3 scuole dell’Unrwa in macerie, 18 scuole danneggiate; 19 moschee, 215 cliniche, 28 ambulanze, 20 mila edifici bombardati; distruzione totale dei campi coltivati e delle serre, degli alberi e delle industrie; 5000 famiglie senza tetto, 90 mila persone fuggite da casa… 1 milione di kg di bombe (di cui il 5% ancora inesplose) lanciate dall’aviazione, dalla marina e dall’artiglieria israeliane.

Nei primi giorni di bombardamento molti bambini sono morti di infarto.

Israele ha fatto uso di ADM, armi di distruzione di massa: uranio impoverito, DIME, fosforo bianco…

 

Tutte le foto pubblicate in questo reportage sono di Angela Lano e di Daniele Parracino

 

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