InfoPal prosegue l’inchiesta sugli scenari geo-politici, attuali e futuri, nel Mediterraneo e nel Vicino e Medio Oriente, con l’intervista a Hamza Roberto Piccardo, direttore di Islam online.
Sulla situazione in Siria si leggono molte notizie, spesso contrastanti: quali sono le dinamiche reali e le prospettive del prossimo futuro?
“Innanzitutto credo sia giusto ricordare che la menzogna fa parte della guerra (e questo è perfino lecito anche islamicamente, se è vero, come è stato correttamente tramandato, che il Profeta* ebbe a dire “…la guerra è inganno”), ed è evidente che il Siria la guerra civile ci sia, oggi neppure più strisciante. Questo per dire che giudichiamo da quello che le parti comunicano e i media riportano, mai disinteressatamente.
Va da sé che il nostro cuore è con il popolo siriano che sta lottando per liberarsi di una delle peggiori dittature della seconda metà del ‘900 e che perdura. Tuttavia, poiché spesso l’emozione confligge con la lucidità, cercherò di rispondere tenendo a freno la prima e usando quel che mi riesce dell’altra.
“Mi sembra che il movimento iniziato ormai da molti mesi in Siria non possa arrestarsi se non al prezzo di una carneficina di proporzioni talmente orribili che neppure i più stretti alleati degli Assad potrebbero tollerare.
Al momento non mi sembra possibile fare ipotesi sui tempi, tuttavia, non credo che siano brevi, purtroppo. La dinamica geopolitica in cui si colloca la Siria penalizza pesantemente la rivolta e l’atteggiamento altalenante della cosiddetta ‘comunità internazionale’ non aiuta di certo.
Sono sempre stato convinto dell’esistenza di una collusione oggettiva tra gli interessi dei governi e dei poteri forti occidentali e l’Iran. Senza la connivenza di Teheran non sarebbe stata possibile la ‘vittoria’ in Iraq, e il mantenimento dell’occupazione in Afghanistan. Senza lo spauracchio sciita-iraniano non sarebbe possibile continuare a tenere sotto scacco le petro-monarchie del Golfo e questo metterebbe in pericolo tutta la strategia petrolifera di Usa e Gran Bretagna.
Per l’Iran, l’asse Golfo Persico-Mediterraneo che va dall’Iraq governato da Maliki, al Sud del Libano controllato da Hezbollah, passa necessariamente dalla Siria alawita degli Assad e la sua salvaguardia è di vitale importanza.
Non si devono, inoltre, trascurare gli interessi russo-cinesi duramente colpiti dalla vicenda libica e precari in Sudan, che si sono recentemente acclarati nel veto posto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Tutto questo scenario rende la situazione siriana estremamente complicata e il popolo siriano rischia di pagarne un prezzo pesantissimo”.
Cosa ne pensa di un intervento esterno, come nel caso libico?
“Credo che all’interno dell’opposizione siriana, variegata e per alcuni tratti disomogenea, ci siano forze che hanno sinceramente a cuore la libertà, l’indipendenza e i diritti civili del popolo, e altre, invece, del tutto minoritarie che hanno fretta di raccogliere i frutti del loro (tardivo) impegno anti-Assad e quindi sono disposte a radicalizzare lo scontro in un’atroce spirale di azione-repressione che potrebbe infine ‘giustificare’ l’intervento straniero. Questa ipotesi avventurista è oggettivamente contraria agli interessi arabo – islamici in un quadro di pluralismo e laicità dello futuro Stato siriano nel rispetto delle diverse componenti culturali e religiose che convivono nel Paese. Penso alla Tunisia e all’esempio virtuoso che sta dando a tutti i popoli del Mediterraneo”.
Dia un suo giudizio sulle Primavere arabe, e qualche cenno alle varie differenze da un Paese all’altro.
“Non mi piace il termine, frutto di un’operazione mediatica che mi ricorda molto la madre di tutte le primavere di rivolta: quella di Praga nel 1968 e come è finita. Nei Paesi interessati dalle rivolte del 2011, la pressione era arrivata ad un livello insostenibile, bastava un nonnulla per farla esplodere. La causa scatenante c’è stata in Tunisia e il popolo è sceso nelle strade coraggioso e coeso e ha dato l’impressione di essere davvero determinato a cacciare un regime corrotto e mafioso. Il regime ha accennato una reazione, con i soliti metodi repressivi e terroristici, ma l’esercito, che in quel Paese è davvero poca cosa, politicamente parlando, ha solidarizzato con il popolo e si è rifiutato di diventare strumento di repressione di massa. Ben Ali e la sua cricca erano del tutto isolati e non hanno potuto che cedere e fuggire. Il movimento islamico che sembrava non aver partecipato ai moti, ma invero era presente in modo sotterraneo ed efficace, ha poi elettoralmente raccolto i frutti della rivolta e di una trentennale opposizione, dando vita ad un’assemblea costituente dove pesa in modo determinante e ad un esecutivo che sta seriamente cercando di consolidare il risultato della sommossa e trasformarla in progetto durevole ed equo.
In Egitto, il tiranno che era espressione di potere militare ben più forte e connesso con quella che Marx chiamava la ‘borghesia compradora’ ha resistito un po’ di più, ma anche lui non ha potuto invertire una tendenza benedetta addirittura da Obama e il Dipartimento di Stato Usa.
La spinta di Tahrir e delle altre piazze egiziane è stata possente e al potere non è servito servirsi di tutte le provocazioni possibili. Oggi il problema è il Consiglio Militare che si è auto-nominato garante di quel popolo che aveva tanto duramente oppresso e che continua a farlo.
D’altronde da Camp David in poi sono gli Usa che pagano la fattura dell’esercito egiziano, in prima (e forse unica) istanza sentinella del confine occidentale d’Israele.
Le elezioni, come tutti ben sanno, hanno espresso una schiacciante maggioranza a favore dei due partiti d’ispirazione islamica ed entro quest’anno sono previste le elezioni presidenziali che nessuno sa, invero, se si terranno realmente. Ad ogni buon conto, il Consiglio militare ha già detto che il parlamento ‘non rappresenta l’intero popolo egiziano’, dando un chiaro segno della propria interpretazione della democrazia.
Lo scontro, a velocità variabile, come è tipico del mondo arabo, è in corso e nessuno può ipotizzarne l’esito nel breve e medio periodo. E’ certo che l’attenzione alla ‘sicurezza’ d’Israele sarà un elemento che l’Occidente terrà in maggior conto e il futuro governo egiziano avrà il difficile compito di rispettare la volontà del popolo che gli avrà dato mandato di governare e le enormi pressioni che si troverà a dover fronteggiare”.
Qual è il ruolo dell’Occidente e la sua relazione con il mondo arabo e islamico dopo la vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto, Tunisia e altri Paesi?
“Già a metà degli anni 2000 ho avuto notizie della strategia di attenzione che importanti centri studi collegati con il Dipartimento di Stato Usa avevano messo in atto nei confronti dell’Islam democratico che identificavano, in parte a buona ragione, nella tendenza dei Fratelli Musulmani.
Oggi che (con significative differenze culturali ed ideologiche) la tendenza della Fratellanza governa in Turchia, Marocco e Tunisia e partecipa ai governi di Algeria, Libia ed Iraq, ci troviamo di fronte ad una doppia scommessa politica.
Da un lato, l’Occidente spera di poter attuare con i Fratelli quello che gli è magnificamente riuscito con i partiti della sinistra storica europea e, cioè, coinvolgerli nella gestione del potere e sterilizzare la loro carica eversiva dello status quo in una strategia d’inclusione avvelenata, che da qualche decennio definiamo ‘gattopardesca’ – che si riassume nel motto ipocrita di ‘cambiare tutto affinché non cambi nulla’.
Dall’altro, i quadri di alto e medio livello della Fratellanza, divisi al loro interno in diverse tendenze che definiremmo (secondo nostri parametri), conservatori, riformisti e rivoluzionari, non vogliono perdere l’occasione storica di poter dimostrare la loro capacità di governare interi Paesi e mettere in pratica i grandi principi che li hanno ispirati. Ma qual è il prezzo che saranno disposti a pagare e, soprattutto, quale sarà la corrente che conquisterà la leadership?
In questo scenario non possiamo trascurare la strategia mirante a consentir loro il successo elettorale, ma allo stesso tempo, minarlo sostenendo Arabia Saudita interposta, il partito salafita a forza di fatawi (pareri giuridici) e molto denaro che con la solita rozzezza e intemperanza, più che altro verbale, funge da valido spauracchio dei moderati”.
Quali sono, secondo lei, le prospettive in Egitto, e in relazione con la Palestina, a seguito della vittoria della Fratellanza?
“Alla prima parte della domanda mi pare di aver già risposto. Ho letto le dichiarazioni di Mushir Al-Masri e mi auguro di tutto cuore che le speranze che esprime siano ben riposte e che la stabilità in Egitto non debba essere pagata con il perdurare dell’ingiustizia a Gaza, in particolare, e, in generale, in tutta la Palestina occupata.
La nuova situazione nell’intero quadrante sud Mediterraneo e mediorientale mette il complesso militare-sicuritario che governa Israele in difficoltà. Questo stato dei fatti potrebbe essere foriero di un cambiamento epocale, decretando finalmente il fallimento dell’ideologia sionista e aprendo la strada a un percorso atto all’affermazione dell’unica idea vincente e praticabile: un solo Stato sul territorio della Palestina mandataria, laico e pluralista, magari bi-nazionale in cui possano vivere in pace quelli che vogliono convivere in pace e dove possano tornare quelli che hanno diritto a tornare.
Questa è la speranza più bella. Non possiamo, tuttavia, non prevedere un altro scenario. Quello di una reazione estrema di quel sistema di potere, magari con un attacco ai siti nucleari iraniani (che ritengo comunque improbabile), destabilizzando gravissimamente l’intera regione e costringendo gli Usa a intervenire per limitare i danni dell’immaginabile reazione di Teheran”.
Possiamo parlare di “venti di guerra” contro l’Iran? Qual è, secondo lei, lo scenario possibile? Quali dinamiche mondiali e regionali scatenerebbe una guerra contro l’Iran? E a chi gioverebbe?
“Come ho detto più sopra, credo che ci sia un’oggettiva alleanza tra Usa e Iran, che certamente non sono amici ma hanno interessi in comune, qualcuno inconfessabile, ma tuttavia reali e operanti. Ritengo che di loro iniziativa gli Stati Uniti non attaccheranno mai la Repubblica Islamica, per ragioni militari, economiche e geopolitiche. A meno di scatenare sul territorio iraniano una guerra atomica, con conseguenze inimmaginabili, l’opzione militare sarebbe impraticabile. L’Iran di oggi non è certo l’Iraq di Saddam Hussein dopo 10 anni di embargo e minato da pesantissimi contrasti interni. Il Paese e il popolo resisterebbero anche a pesanti bombardamenti convenzionali e un’invasione terrestre sarebbe un disastro insostenibile per qualsiasi amministrazione occidentale.
Nella remotissima ipotesi di una vittoria contro l’Iran, l’effetto politico sarebbe quello di eliminare l’unico potere sciita offrendo così al mondo sunnita una totale egemonia sul mondo islamico. E quando mai è successo che si contraddica la vecchia regola del ‘divide et impera’?”
Angela Lano
Altre puntate dell’inchiesta:
Vicino e Medio Oriente, scenari politici e prospettive future: un’intervista a Talal Khrais
Al-Masri: ‘Primavere arabe e Fratelli Musulmani porteranno cambiamenti per il popolo palestinese’
L’Iran e la pozione magica dei Galli