Vite sotto occupazione: agricoltura senza mercato

Gaza – Pchr. Vite sotto occupazione: agricoltura senza mercato.

Hathem Khadeir, 34 anni, e suo fratello Ahmed, 43, hanno affittato 5000 metri quadrati di terreno agricolo a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, ad appena 700 metri dal confine israeliano. Il loro fratello più anziano, Jafer, 52 anni, ne ha in affitto altri 5000, ancora più vicino al confine.

Apparentemente la loro è una vita idilliaca, che vede i tre fratelli lavorare la terra insieme per mantenere le rispettive famiglie, e in effetti, prima che il confine chiudesse, lo era. “Coltivavamo peperoni, patate, meloni, cipolle, fiori e fragole. Con l’agricoltura riuscivamo a far fronte al 50% delle nostre necessità. Ora, con le nostre coltivazioni, non riusciamo a provvedere a nessuna delle nostre necessità. Dal momento in cui Israele ha deciso di chiudere i confini le nostre vite sono completamente cambiate”.

Hatem e i suoi fratelli sono ottimi agricoltori, in grado di produrre dei raccolti di alta qualità: “Prima della chiusura del confine esportavamo l’80% del raccolto in Cisgiordania e all’estero. La scorsa stagione abbiamo esportato solo il 10% del raccolto all’estero, e ciò grazie a un programma finanziato da un paese europeo. Tutta la nostra terra è ora finanziata da questo programma, ma nonostante ciò riusciamo a malapena a soddisfare le nostre esigenze”.

La maggior parte del loro raccolto alimenta ora il mercato locale, ed è difficile ottenere dei guadagni a causa dei prezzi molto bassi dei prodotti agricoli a Gaza: “Nella Striscia di Gaza 1 kg di fragole si vende a 3 nis, in Olanda se ne possono ricavare 20. Non potendo esportare le nostre merci, perdiamo una gran quantità di reddito”.

Hatem e i suoi fratelli, in seguito alla chiusura del confine hanno scoperto dove venivano inviati i loro prodotti: “Non avevamo mai saputo prima a chi venivano esportati i nostri prodotti, ma dopo la chiusura del confine venimmo a sapere che essi erano diretti verso paesi europei, tra i quali  Germania, Danimarca e Olanda. Speriamo che questi paesi facciano pressione su Israele affinché le esportazioni possano riprendere”.

Intanto, però, devono vedersela con i difficili processi di esportazione dettati da Israele. “Siamo costretti a fare le spedizioni attraverso Israele, e ciò può essere a volte molto complicato. I nostri prodotti, a causa dei lunghi controlli di sicurezza voluti da Israele, si danneggiano. Qualcuno ci ha inviato delle foto in cui si vedono le nostre merci ferme al confine, lasciate a marcire sotto il sole. Nell’ultima stagione, lo scorso gennaio, siamo riusciti a esportare solo due camion carichi di fiori, e altri due di fragole”.

Israele, nel gennaio 2012, ha consentito complessivamente il passaggio di soli 45 camion di prodotti da esportazione. Prima della chiusura del confine ne lasciava transitare 70 al giorno.

Questa perdita di reddito è stata avvertita dalle famiglie di Hatem e dei suoi fratelli: “Prima della chiusura potevamo permetterci qualche svago per i nostri bambini, come mandarli in campeggio. Ora non abbiamo più denaro per queste cose, e i nostri figli, durante l’estate, ci devono aiutare nei campi”. Senza l’assistenza di un’organizzazione come la Parc, non sarebbero in grado di continuare a coltivare, né a provvedere al sostentamento familiare: “Se non ricevessimo aiuti non potremmo permetterci di comprare fertilizzanti o altri prodotti necessari. Saremmo in grado di coltivare un solo dunum (1000 metri quadrati), e la qualità non sarebbe buona. Comunque, sia pur con l’aiuto dell’Europa, per ottenere un buon prodotto siamo costretti a indebitarci. Siamo stati costretti a ridurre l’uso di fertilizzanti, e i nostri strumenti agricoli si stanno logorando. Siamo obbligati a fare debiti per poter continuare a lavorare”.

Hatem lavora la terra da 21 anni e non conosce altra attività: “So solo lavorare la terra. Una volta ho provato a usare la mia automobile come taxi, ma non è il mio mestiere”. E’ un contadino provvisto di certificazione “Globalgap”, la sua produzione di qualità è conforme agli standard europei. Se Israele ritirasse la chiusura del confine, Hatem e i suoi fratelli avrebbero successo nel loro lavoro: “Speriamo di poter nuovamente esportare i nostri prodotti, un giorno, ma Israele non lo permetterà. E’ una situazione disperata, ma continuiamo a sperare”.

Il blocco della Striscia di Gaza, attuato da Israele in forma di “guerra economica”, rappresenta una punizione collettiva, e in quanto tale è espressamente proibita dall’articolo 33 della Quarta convenzione di Ginevra. Il regime di chiusura vìola anche una serie di disposizioni del diritto internazionale, tra le quali, per esempio, l’obbligo di assicurare le condizioni materiali nelle quali vive una popolazione in stato di occupazione, ai sensi dell’articolo 43 del Regolamento dell’Aja. Tenuto conto, tra l’altro, delle condizioni di povertà e degli aiuti esteri necessari al sostentamento della popolazione della Striscia di Gaza, è chiaro che la politica israeliana vìola anche l’obbligo, ai sensi del diritto umanitario internazionale, di assicurare la progressiva realizzazione dei diritti economici, sociali e culturali nella Striscia di Gaza.

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice