Vite sotto occupazione

Gaza – PchrVite sotto occupazione: confidando in una casa nuova

Nasser Jaber Isma’il Sa’id, 38 anni, proviene da una famiglia di rifugiati, e vive a Johr ad-Dik, un piccolo paese di contadini a est di Gaza City. Fino al 2010 Nasser viveva con i suoi genitori nella loro casa, situata a circa 300 metri dal confine con Israele.

E’ sposato e ha 6 figli: 4 maschi, ‘Ala di 11 anni, Beha di 10, Sahad di 9, e Jaber di 4, e due femmine, Maissa, di 6 anni, e Na’ama, avuta dalla seconda moglie.

Dice che la sua è stata “una famiglia molto felice. Lavoravamo la nostra terra e stavamo bene. I miei genitori abitavano al primo piano e noi al secondo con i bambini, che erano soliti giocare in strada, mentre noi adulti della famiglia sedevamo all’aperto a guardare la televisione”. Ma tutto cambiò la sera del 13 giugno 2010.

“Eravamo seduti in strada a bere il tè e a guardare la televisione, quando sentimmo dei bombardamenti”, ricorda Nasser. “Corremmo tutti dentro casa immediatamente. I bambini gridavano, era buio e non si vedeva nulla. Mia moglie Na’ama si accorse che il nostro figlio piccolo, Jaber, era rimasto fuori, e corse a cercarlo. Ma tutt’intorno c’erano ancora sparatorie e bombardamenti”. Quando Nassser uscì a cercare sua moglie, la trovò a terra, distesa sulla schiena. “Cercai di sollevarla, sperando che fosse solo svenuta. La chiamai, le parlai, ma non mi rispose. Tentando di sollevarla, per portarla via, la mia mano entrò nella sua testa”.

Na’ama era stata colpita da un proiettile flechette. In seguito all’attacco, Nasser si spostò con i 5 figli in una tenda a 200 metri da casa, e a 500 dal confine, con la sua seconda moglie, Ishan, 30 anni, e la loro figlia neonata, Na’ama, così chiamata in onore della prima moglie. Dopo un po’, a settembre 2010, cominciarono a far ritorno, durante il giorno, alla loro casa, pur continuando a dormire nelle loro tende.

Il 28 aprile del 2011, mentre i bambini, al secondo piano, stavano leggendo e studiando in preparazione degli esami, la casa fu attaccata ripetutamente: “C’era molto fumo e molta polvere, non si vedeva nulla. Le pareti erano completamente distrutte e non riuscivo a trovare i bambini”, racconta Nasser. “Accadde tutto molto velocemente, saltò l’elettricità e sentii delle esplosioni molto forti. Cominciai a cercare i miei figli , e mi accorsi che erano sotto alle macerie”. Tre di loro, ‘Ala, Beha e Maissa,  erano feriti, così come il fratello di Nasser, Mohamed, e sua moglie Sanah. Dopo alcuni giorni ritornarono sul posto per stimare i danni subiti. Nasser racconta che “il secondo piano era completamente sparito”. Decise quindi di ritornare nella tenda e di stabilirvisi, cercando un altro posto in cui vivere, lontano dal confine.

Da allora, Nasser è vissuto con la sua famiglia nel loro accampamento, composto da tre piccole tende, nelle quali sono state ricavate due camere da letto, una camera per gli ospiti, una cucina e un piccolo bagno. Esse sono inoltre dotate di due serbatoi di acqua potabile: “Ricevo l’elettricità da mio fratello, attraverso un tubo ci arriva l’acqua e abbiamo un televisore.” In quanto rifugiato, Nasser riceve ogni tre mesi aiuti alimentari di base”.

“Perché ci succede questo? Abbiamo vissuto in pace per 40 anni, non abbiamo mai fatto del male a nessuno, e non siamo mai stati accusati di alcun reato. Se è solo un incidente, perché mia moglie e i bambini devono pagarne le conseguenze, e perché la nostra casa è stata demolita?”

Conformemente al secondo paragrafo dell’articolo 8 (b) (i-ii) dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale,“l’attacco intenzionale diretto contro una popolazione civile o contro civili non direttamente coinvolti nelle ostilità”, e “l’attacco intenzionale diretto contro obiettivi civili” costituiscono crimine di guerra. Inoltre, secondo l’articolo 11 del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, Israele, in quanto potenza occupante, ha l’obbligo di rispettare e di assicurare “il diritto di ciascuno ad adeguate condizioni di vita, per se stesso e per la propria famiglia, così come il diritto a cibo, vestiario e alloggio adeguati, e al continuo miglioramento delle condizioni di vita”.

Traduzione per InfoPal a cura di Stefano Di Felice