Vittoria chiara e decisiva: perché Netanyahu ha bisogno ora più che mai di una guerra su Gaza

Memo. Le notizie dei media circa un’imminente guerra israeliana sulla Striscia di Gaza occupata sono ormai all’ordine del giorno. La frequenza di tali notizie varia in base allo stesso scenario politico israeliano.

L’esperienza pratica ci ha insegnato che quando i leader israeliani sono in difficoltà muovono guerra su Gaza. Ora che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sta affrontando la più grande sfida della sua carriera politica, Gaza si sta preparando ad un’altra guerra israeliana.

Quelle sulla guerra non sono solo voci ormai. Secondo quanto riportato recentemente dal giornale di destra israeliano The Jerusalem Post, il capo di stato maggiore, il luogotenente generale Aviv Kochavi, “ha già approvato i piani operativi di combattimento e ha recentemente istituito un’unità amministrativa per gestire la creazione di una lista di obiettivi potenziali nell’enclave per quando scoppierà la prossima guerra”.

La corrispondente militare del Post, Anna Ahronheim, concorda infatti nel dire che la guerra a Gaza non è lontana. Tuttavia, a differenza delle guerre precedenti, in quella che si preannuncia deve esserci “una vittoria chiara e decisiva” di Israele affinché “l’altra parte ci pensi due volte prima di muovere guerra in futuro”.

La falla nell’analisi di Ahronheim è ovvia: Israele si approccia sempre alle guerre su Gaza con il fine di ottenere “una vittoria chiara e decisiva”, obiettivi spesso sventati dalla forte resistenza palestinese nella Striscia occupata ed impoverita.

In secondo luogo, Gaza non inizia mai la guerra. La Striscia non possiede alcun esercito o strategia militare al di là di tattiche difensive portate avanti dalle fazioni organizzate della resistenza, incluso Hamas, il Jihad Islamico ed altri gruppi OLP. Tuttavia, se Israele crede che una “vittoria decisiva” sradicherebbe la resistenza palestinese, la sua delusione sarà grande. La resistenza di Gaza, in ogni sua forma, contro Israele e l’occupazione israeliana risale agli anni ’40. Nessuna quantità di armi porrà fine a una resistenza così determinata.

Ciononostante, sembra che Israele misuri l’effettività della sua ‘vittoria’ sulla base della quantità di distruzione che è in grado di infliggere ai palestinesi.

Basta osservare le seguenti cifre dell’ultima grande guerra israeliana su Gaza, nel 2014, per comprendere il reale obiettivo delle guerre di Israele nella Striscia:

Secondo i dati delle Nazioni Unite, più di 2.300 palestinesi sono stati uccisi nella cosiddetta “Operazione Margine di Protezione” israeliana. Tra le vittime, per la maggior parte civili, ci sono stati 551 bambini. Inoltre, i feriti sono stati 11.231 e più di 20.000 case sono state distrutte. La distruzione di massa ha mirato anche alle già decadenti infrastrutture della Gaza impoverita, tra cui scuole, ospedali, moschee e addirittura rifugi ONU.

Quanto ancora deve essere “decisiva” la prossima guerra israeliana affinché i guerrafondai di Israele si sentano soddisfatti di aver raggiunto gli obiettivi preposti?

Israele vuole che i palestinesi accettino la sua perpetua occupazione, il loro fato di nazione occupata priva di diritti e soggetta ai capricci ed al razzismo israeliani, politiche mortali.

Tuttavia, i leader israeliani sono ora spinti da un secondo obiettivo: vincere le prossime elezioni.

C’è tanto in ballo per Netanyahu e la sua coalizione di idealisti di destra e zeloti religiosi. Israele non ha mai avuto due elezioni nazionali in un anno, ad eccezione di quest’anno.

Le elezioni del 9 aprile non sono riuscite a giungere a una vittoria decisiva per nessuno. Dopo settimane di tentativi di formare un governo di coalizione, Netanyahu ha accettato l’inevitabile: altre elezioni, fissate per il 17 settembre.

Eppure Netanyahu non è combattuto solo politicamente; lui e la sua famiglia, ed i collaboratori più stretti, sono stati coinvolti in una serie di accuse di corruzione che potrebbero porre fine alla sua carriera politica.

Il 6 giugno, il procuratore generale Avichai Mandelbit ha rifiutato l’offerta di Netanyahu di posporre per la seconda volta l’udienza preliminare circa i numerosi casi di corruzione che riguardano la sua cattiva condotta in carica.

Ciononostante, Netanyahu spera di assicurarsi la sua posizione a capo della politica israeliana ancora a lungo, per evadere le accuse di corruzione e finalmente stipulare un accordo per farle cadere tutte.

Vuole a tutti i costi rimanere primo ministro ed è pertanto disposto a tutto pur di attirare il più potente collegio elettorale di Israele: la destra ed i suoi alleati religiosi.

Per la destra israeliana una guerra è una circostanza normale. Sembra che acquistino il loro senso di sicurezza collettiva quando i palestinesi soffrono. Inoltre, da mesi sembra che le opinioni israeliane di destra favorevoli ad una guerra contro Gaza siano aumentate massivamente.

Anche l’apparentemente sensibile centro politico si è unito al coro, consapevole che uno schieramento anti-bellico in Israele è una strategia perdente.

Il capo del partito Bianco e Blu, Benny Gantz, che rimane il più forte oppositore di Netanyahu, ha affermato in un’intervista rilasciata lo scorso maggio a Channel 13: “Dobbiamo colpire forte, in modo intransigente… dobbiamo ristabilire la deterrenza che è stata compromessa catastroficamente per più di un anno”.

Sicuramente ci sarà una guerra prossimamente a Gaza e sarà “decisiva” e mortale proprio come la vogliono i leader israeliani, per soddisfare le loro stime politiche.

Tuttavia devono anche badare a che le guerre su Gaza non si rivelino bazzecole come in passato. La resistenza in quella piccola ma indistruttibile regione è più forte di quanto lo sia mai stata in passato; naturale conseguenza di 12 anni di occupazione inarrestabile, interrotta da attacchi militari letali ed altamente distruttivi.

Inoltre una guerra su Gaza avrà di certo un prezzo per Israele. Netanyahu e il suo governo vogliono davvero subire le ripercussioni di un’altra guerra fallimentare? Dipende tutto da quanto sia realmente corrotto Netanyahu da rimanere al potere e fuori di prigione, almeno per un altro po’.

Traduzione per InfoPal di Giorgia Temerario