Da Effedieffe.
Da quando è in discussione la sopravvivenza del popolo ebraico, non
c’è posto per la "morale".
Yehezkel Dror
29 maggio 2008
L’articolo che segue è autentico. E’ stato pubblicato, circa una
decina di giorni fa, da un luminare israeliano sul quotidiano ebraico-
socialista newyorkese Forward
L’ autore pone un sillogismo: il popolo ebraico è sempre in pericolo
e la sua sopravvivenza è condizionata da quella dello Stato
d’Israele. Su questa base, questo Stato può intraprendere qualsiasi
cosa, affrancandosi dalle regole morali, sino a quando lo giudichi
necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico. In altri termini,
«l’argomento della Shoah» dispensa lo Stato d’Israele dal
rispettare il diritto internazionale.
Poche persone non convengono con il fatto che tutti i dirigenti
ebraici, tutte le organizzazioni ebraiche, tutte le comunità
ebraiche, e tutti i singoli ebrei hanno il dovere di assumersi la
continuità del popolo ebraico. Ma, in un mondo dove l’esistenza nel
lungo periodo dello Stato d’Israele è lontana dall’essere garantita,
l’imperativo di esistere dà luogo, inevitabilmente, a domande difficili.
La principale è la seguente: quando la sopravvivenza del polopolo
ebraico entra in conflitto con la morale del popolo ebraico, la sua
esistenza vale la candela, o anche, questa esistenza è possibile?
L’esistenza fisica, tenderei ad arguire, ha la precedenza.
L’esistenza fisica è necessariamente un preambolo, per quanto morale
una società aspiri ad essere.
Israele, in quanto Stato ebraico, è minacciato da pericoli manifesti,
sia interni che esterni. E’ molto verosimile che il crollo d’Israele
o la sua perdita d’identità ebraica, avrebbe come conseguenza lo
scalzamento del popolo ebraico nel suo insieme. Anche nell’esistenza
stessa di uno Stato ebraico, dei pericoli meno evidenti, ma non meno
fatali, minacciano l’esistenza durevole della diaspora nel lungo
termine. Quando le necessità per l’esistenza entrano in conflitto con
altri valori, conseguentemente, la Realpolitik dovrebbe avere la
precedenza.
Dopo la minaccia di un conflitto disastroso con dei protagonisti
islamici quale l’Iran, fino alla necessità di mantenere dei
distinguo tra «noi» e gli «altri» in modo da limitare
l’assimilazione, questo imperativo dovrebbe servire da guida per i
decisionisti politici.
Sfortunatamente, la storia umana rigetta l’affermazione idealista
che, uno Stato, una società o il suo popolo, per soppravivere
debbano avere un atteggiamento morale. Date le realtà prevedibili del
21° secolo e anche quelle future, sono inevitabili delle scelte
corneliane, per le quali le necessità esistenziali contraddicono
spesso, altri valori importanti.
Alcuni potrebbero arguire che dare la priorità all’esistenza,
potrebbe al fine divenire controproducente per la stessa, in quanto
quello che può essere giudicata un’azione immorale potrebbe
scalzarne il sostegno, tanto interno quanto esterno, essenziale per
lo Stato d’Israele. Comunque la logica propria della Realpolitik dà
il primato all’esistenza, relegando agli ultimi posti una qualsiasi considerazione etica.
La triste realtà è che il popolo ebraico rischia di essere
confrontato con delle scelte tragiche, per le quali devono essere
sacrificati valori importanti, nell’interesse di quelli ancora più
importanti. Decisioni responsabili, in situazioni così difficili,
richiedono una presa di conoscenza senza ambiguità riguardo alle
questioni morali in causa, soppesando con cura tutti i valori e tutte
le assunzioni di responsabilità nel formare un proprio giudizio
autonomo. Queste decisioni esigono anche uno sforzo, e per quanto sia
possibile, la violazione di valori morali.
Ciononostante, il popolo ebraico confrontato con tali dilemmi, non si
deve far ingannare dal politicamente corretto, né da altre mode
suscettibili di ostacolarne il pensiero.
Trattandosi della Cina, per esempio, certi sforzi tendenti a
rafforzare i legami tra la superpotenza e il popolo ebraico,
dovrebbero mettere la sordina alle campagne ben intenzionate tendenti
a interferire con la politica interna di Pechino, in modo specifico
nel suo modo di gestire la questione del Tibet. Lo stesso discorso
vale per la Turchia, dato il ruolo cruciale di pacificatore che esso
ha in Medio Oriente: il dibattito sulla questione armena dovrebbe
essere lasciato agli storici, di preferenza non ebrei.
Questo non significa necessariamente sostenere la politica cinese, né
denigrare quella armena, ma tener presente che il popolo ebraico deve
pensare in primo luogo alla sua esistenza, per quanto morali o
immorali queste prese di posizioni possano essere.
E’ richiesta una valutazione dei valori a priori, in modo da poter
disporre di guide pronte per formare un giudizio nei contesti
specifici, o in condizioni di crisi. Più globalmente si tratta di
stabilire se l’imperativo per il popolo ebraico consista
nell’esistere, al punto da superare la quasi totalità degli altri
valori, oppure se si tratti di un imperativo confuso ad altri di
rango similare. Data sia la storia sia la situazione attuale del
popolo ebraico, sarei propenso a dire che l’imperativo sia il primo e
precede tutti gli alti.
Lasciamo da parte tutti i discorsi di natura trascendentale, i
comandamenti biblici, e le parole sagge, che sono le une come le
altre soggette a interpretazioni diverse. La giustificazione della
priorità che deve essere accordata alla necessità dell’esistenza è
quadrupla:
primo, il popolo ebraico ha un diritto inerente all’esistenza,
esattamente come qualsiasi altro popolo o altra civilizzazione.
Secondo, un popolo che è stato regolarmente perseguitato da più di
mille anni è moralmente autorizzato, in termini di giustizia
distributiva, a essere particolarmente impietoso quando si tratta di
prendersi cura della propria esistenza specialmente in materia di
diritto morale, che dico, di dovere di uccidere e essere ucciso, se
questo è essenziale per garantire la sua esistenza; anche al costo
di altri valori e altre persone. Questo argomento è tanto più
imparabile, alla luce di tutte le uccisioni senza precedenti di
qualche decennio fa, di un terzo del popolo ebreo; un crimine di
massa che è stato sostenuto direttamente e indirettamente, o almeno
non è stato impedito quando era possibile, da delle larghe frange del
mondo civile.
Terzo, in base alla storia dell’ebraismo e alla storia del suo
popolo, ci sono delle forti possibilità che noi continueremo a dare
all’umanità dei contributi etici particolarmente necessari. Tuttavia
per poterlo fare, abbiamo bisogno di una esistenza stabile.
Quarto, lo Stato d’Israele è il solo paese democratico la cui stessa
esistenza è messa in pericolo da personaggi particolarmente ostili,
senza che, ancora una volta, il mondo prenda delle contromisure
decisive, che si impongono. Questo giustifica, anzi lo implica. Delle
misure non solo inutili, ma potenzialmente immorali in altre
circostanze.
Il popolo ebraico deve accordare molto più peso a quello che è il
proprio imperativo, per garantire la sua sopravvivenza.
Ci sono beninteso dei limiti; niente potrebbe giustificare un
genocidio. Ma, a parte delle rare eccezioni, o essere uccisi e
distrutti, la trasgressione di norme assolute e totalizzanti è
preferibile. L’esistenza del popolo ebraico compreso quello dello
Stato d’Israele, deve essere considerata la prima priorità.
La sicurezza di Israele è sostenuta in maniera significativa dalle
buone relazioni con la Turchia e la Cina. Alcuni argomentano che la
Turchia è colpevole di genocidio contro gli Armeni in passato, e che
la Cina oggi sta reprimendo i Tibetani e la sua opposizione interna;
che i dirigenti e le organizzazioni ebraiche devono sostenere i due
Paesi, o almeno restare neutri nei loro confronti. Come minimo i
dirigenti ebraici non devono accodarsi alle organizzazioni umanitarie
che condannano la Turchia e la Cina.
Nello stesso modo, i dirigenti ebraici devono sostenere invece le
durissime misure prese contro dei terroristi che, potenzialmente
mettono gli ebrei in pericolo, fosse anche al prezzo di violazioni
dei Diritti dell’Uomo e del Diritto Umanitario Internazionale.
Se la minaccia è sufficientemente grave, il ricorso a armi di
distruzione di massa da parte di Israele sarebbe giustificato, dal
momento in cui sarebbe manifestamente necessario per assicurare la
sopravvivenza di Israele, qualsiasi sia il numero imponente di
vittime civili innocenti.
Non c’è dubbio, il dibattito sul sapere cosa sia veramente
necessario all’esistenza resta aperto. Il fatto di donare la priorità
all’imperativo di esistere non implica necessariamente che si
sostenga dalla A alla Z la politica di Israele.
Infatti è vero il contrario; i dirigenti, le organizzazioni e gli
individui della diaspora hanno il dovere di criticare la politica
israeliana, che, dal loro punto di vista, mette in pericolo lo Stato
ebraico e l’esistenza del suo popolo. Essi hanno il dovere di
proporre politiche alternative che ne garantiscano l’esistenza.
Ma in fin dei conti, non c’è nessun modo per aggirare le implicazioni
pratiche, impietose e dolorose, di dare la priorità all’esistenza,
in quanto norma morale superiore, per il fatto di essere morali sotto
altri aspetti. Quando questo è importante per l’esistenza del popolo
ebraico, la violazione dei diritti altrui deve essere accettata, con
disappunto certamente, ma con determinazione. Il sostegno o la
condanna di altri Paesi e delle loro rispettive politiche devono
essere eliminati prima di tutto, alla luce delle probabili
conseguenze su questo giudizio per l’esistenza del popolo ebraico.
Riassumendo: gli imperativi per l’esistenza devono essere accordati
con la priorità su altre condizioni per quanto importanti possano
essere tra le quali i valori progressisti e umani, o ancora il
sostegno dei Diritti dell’Uomo e la democratizzazione. Questa
conclusione tragica, pertanto finale, non è facile da accettare, ma è
essenziale per il futuro del popolo ebraico.
Una volta garantita la nostra esistenza, ciò che include la sicurezza
fondamentale per Israele, molto può e deve essere sacrificato
sull’altare del tikkun olam (ebr. "riparazione del mondo" ndt).
Ma stante le realtà prevedibili presenti e future, la garanzia
dell’esistenza è la priorità delle priorità.
Yehezkel Dror
Presidente fondatore del Jewhis People Policicy Planning Institute,
e professore emerito in scienze politiche all’ Università ebraica di
Gerusalemme. Vincitore del Premio Israele nel 2005, ha fatto parte
della commissione d’inchiesta Winograd, sulla guerra israeliana
contro il Libano nell’estate del 2006
Tradotto per EFFEDIEFFE.com da Claudia Marus