E.I. Di Maureen Clare. Di L’esercito israeliano si è auto-scagionato dalla sparatoria e dal grave ferimento di un palestinese nella Cisgiordania meridionale, la scorsa settimana, sostenendo che i soldati hanno agito per legittima difesa.
La sbrigativa inchiesta, chiusa meno di una settimana dopo, esemplifica la cultura dell’impunità a lungo denunciata dalle organizzazioni per i diritti umani che invocano indagini sui crimini di guerra presso la Corte Penale Internazionale.
L’esercito ha affermato che l’uomo ferito, Harun Abu Aram, è stato “colpito da un proiettile vagante sparato quando un palestinese ha cercato di sequestrare l’arma di un comandante”, come ha riferito Haaretz, quotidiano di Tel Aviv.
Abu Aram, 24 anni, è paralizzato dal collo in giù conseguentemente al suo ferimento.
Gli hanno sparato mentre lui e altri cercavano di riprendersi un generatore che i soldati avevano confiscato a una famiglia che viveva in un’area dichiarata zona di tiro militare da Israele. Ai palestinesi che risiedono in quella zona, un insieme di borghi rurali noti come Masafer Yatta, è vietato costruire o migliorare le loro abitazioni.
L’incidente di Masafer Yatta è stato registrato in un video:
משרד הבריאות הפלסטיני מדווח על פלסטיני שנורה בצווארו ומצבו אנוש בדרום הר חברון.
בסרטון פה מתועד האירוע, במהלכו חיילים מחרימים גנרטור מפלסטינים שמנסים לקחת אותו חזרה. נשמעות שתי יריות, כשהראשונה מביניהם היא זאת שפוגעת בפצוע. pic.twitter.com/b7Zx7vRwzB— Hagar Shezaf (@HShezaf) January 1, 2021
Linguaggio.
L’esercito israeliano ha descritto i palestinesi disarmati, che difendevano la residenza di Masafer Yatta e assaliti da soldati pesantemente armati, come in “rivolta violenta… dove le forze [israeliane] sono state attaccate”.
Il linguaggio usato per giustificare l’uccisione a distanza ravvicinata di Abu Aram fa eco a quello usato da Israele per quanto riguarda l’uso del fuoco vivo contro i manifestanti a Gaza.
Più di 200 palestinesi sono stati uccisi durante le regolari proteste di massa, soprannominate la Grande Marcia del Ritorno, a partire dal marzo 2018 fino alla loro sospensione alla fine del 2019. Altre migliaia sono state ferite dai cecchini israeliani, molte delle quali permanentemente.
Solo un soldato è stato incriminato per l’uso della forza letale contro i manifestanti.
L’esercito ha ripetutamente fatto riferimento ai manifestanti palestinesi come “rivoltosi”, nella sua argomentazione dinanzi all’Alta Corte israeliana riguardo alle sue “regole di ingaggio”.
Questo tipo di linguaggio intende oscurare il fatto che i palestinesi si erano mobilitati per fare delle specifiche richieste. Nel caso della Grande Marcia del Ritorno, i palestinesi chiedevano di esercitare il loro diritto di fare ritorno nelle terre da cui le loro famiglie furono espulse nel 1948.
Contesto di oppressione.
Il linguaggio “legge e ordine” è usato allo stesso modo per oscurare decenni di ingiustizia in Cisgiordania.
L’esercito israeliano si riferisce ad Abu Aram come a un “rivoltoso” per evitare di affrontare il contesto nel quale il giovane è stato ferito in modo permanente.
Abu Aram e gli altri “rivoltosi” appartengono ad una comunità che è sottoposta a trasferimento forzato, a numerose demolizioni di case e a continue vessazioni da parte di soldati e coloni.
Questo contesto di oppressione non è utile alla reputazione di Israele.
E così Israele dice che Abu Aram e quelli con lui “hanno cercato di ostacolare l’esecuzione forzata [dell’esercito israeliano]” – non importa se questa “attività di esecuzione” fa parte di un ambiente coercitivo creato da Israele per spingere i palestinesi fuori dalla loro terra.
Come le Nazioni Unite hanno chiarito, “il trasferimento o la deportazione, forzata individuale o di massa” della popolazione di un territorio occupato, come la Cisgiordania, è una grave violazione della Convenzione di Ginevra “ed è anche considerato un crimine di guerra”.
L’imposizione di un ambiente coercitivo, come quello che sopportano i palestinesi a Masafer Yatta, è una forma di trasferimento forzato. Mentre Israele può usare il linguaggio di “legge e ordine”, caratterizzando il comportamento dei suoi militari come “attività di contrasto”, le forze di occupazione stanno, di fatto, compiendo violazioni del diritto internazionale.
Sistema di oppressione.
Che si tratti di un trasferimento forzato o dell’uso della forza letale contro i manifestanti di Gaza, l’Alta Corte di Israele approva queste politiche con l’intenzione di sedare tutta la resistenza palestinese contro l’occupazione.
A Masafer Yatta, quella resistenza riguardava il mantenimento di un generatore di elettricità utilizzato da una famiglia a cui non sono consentite le infrastrutture di base fornite agli israeliani che vivono negli insediamenti vicini, costruiti in violazione del diritto internazionale.
Non sorprende che il sistema israeliano di oppressione e ingiustizia si ripulisca dalle irregolarità nella sparatoria di Abu Aram.
Come i gruppi per i diritti umani hanno dichiarato questa settimana, gli israeliani responsabili di crimini di guerra contro i palestinesi “non sono mai oggetto di indagine indipendente in Israele”.
“E’ empiricamente e definitivamente dimostrato che il sistema di auto-indagine dell’esercito israeliano è incapace di condurre realmente indagini e procedimenti”, hanno aggiunto i gruppi palestinesi.
I quattro gruppi – Al-Haq, Al Mezan, Al-Dameer e il Centro Palestinese per i Diritti Umani – hanno sottolineato la complicità dei tribunali israeliani nella legittimazione dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità.
“Siamo oltre il tempo prestabilito per un’indagine formale” da parte della Corte penale internazionale, hanno affermato i gruppi.
Alla fine del 2019, il procuratore capo della corte concluse un esame preliminare quinquennale, affermando che erano stati soddisfatti i requisiti per avviare un’indagine completa sui sospetti crimini di guerra in Cisgiordania e Gaza.
Più di un anno dopo, deve ancora essere aperta un’indagine.
L’assenza di responsabilità, osservano i gruppi palestinesi per i diritti umani, ha consentito solo “un consolidato, continuo e internazionale attacco al diritto del popolo palestinese alla dignità e all’autodeterminazione”.
Traduzione per InfoPal di Silvia Scandolari