Memo: l’assalto a Gaza è un ulteriore passo nel percorso di disumanizzazione dei palestinesi

Memo. Un cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas è finalmente entrato in vigore, con il patrocinio dell’Egitto, nella serata di mercoledì 21 novembre. Come c’era da aspettarsi, entrambi i contendenti hanno proclamato la propria vittoria. I cittadini di Gaza si sono riversati nelle strade per celebrare la fine degli otto giorni di conflitto nella martoriata enclave costiera. La reazione in Israele è stata più sommessa. Nonostante, o forse proprio a causa dell’esplosione dell’ordigno su un autobus a Tel Aviv che aveva portato al ferimento di 17 persone, una significativa prevalenza del popolo israeliano aveva chiesto a gran voce la prosecuzione dell’operazione militare “Colonne di nuvole”. Il ministro della difesa Ehud Barak ha dichiarato che tale operazione sarebbe ripresa solo nel caso in cui il cessate-il-fuoco fosse stato in qualche modo infranto. Una tale presa di posizione risulta del tutto ingiustificata, visto che avendo subìto ben 162 perdite, sono i palestinesi ad essere impegnati in continue sepolture.

I numeri delineano una situazione agghiacciante. Delle 162 vittime palestinesi, gran parte  costituita da civili, per lo più bambini. Per contro, le perdite israelane sono state solamente 5. Come misura punitiva nei confronti dei cittadini di Gaza che nel 2006 avevano scelto di votare in favore di Hamas, la città è stata sottoposta ad un tremendo assedio fin dal 2007. Già devastata dalla povertà e da una terribile crisi umanitaria derivanti da tale assedio, la città di Gaza ha dovuto subire, in occasione dell’ultimo assalto, l’ennesima pioggia di bombe israeliane.

Come ovvio, non ci sarà alcuna ripercussione per Tel Aviv, nessuna sanzione o denuncia da parte della comunità internazionale. Anzi, proprio buona parte di quest’ultima ha tacitamente, se non addirittura apertamente supportato il preteso diritto di Israele ad autodifendersi.

La popolazione israeliana ha sostenuto l’iniziativa militare su Gaza e le lobby di Tel Aviv nelle loro azioni in tutto il pianeta (in Sud Africa, ad esempio) persistono nel dipingere Israele come una vittima. Le stesse forze militari di Tel Aviv si sono auto descritte come le vittime che si trovano a dover lottare contro una marmaglia di “terroristi”, incapace di provare amore persino per i propri figli. Dal loro punto di vista, i palestinesi sono usi adoperare i bambini come scudi umani e ciò spiegherebbe l’alto numero di vittime ancora infanti registrato durante gli otto giorni di battaglia. Non è forse più probabile che tale terribile conseguenza sia derivata dal folle bombardamento incoscientemente rovesciato sull’area a maggior densità di popolazione al mondo, con i suoi 1,7 milioni di abitanti concentrati in circa 360 km quadrati?

Deve essere ben chiaro che è stata Tel Aviv, e non i palestinesi come si sforza di ripetere la propaganda sionista, ad infrangere il cessate-il-fuoco il mese scorso. In un’incursione condotta giovedì 8 novembre nella città di Gaza, un distaccamento israeliano, supportato da 4 carri armati ed un bulldozer, ha ingaggiato uno scontro a fuoco con i membri dei comitati di resistenza. I soldati israeliani hanno ucciso un tredicenne che stava giocando a pallone. Lunedì 12 novembre i palestinesi hanno dichiarato il cessate-il-fuoco. Ciò nonostante, due giorni più tardi, gli Israeliani hanno assassinato il leader di Hamas Ahmad Ja’bari, innescando una spirale di violenza degenerata poi nel conflitto appena conclusosi.

Tali attacchi israeliani sono stati del tutto assolti dalla comunità internazionale, ormai assuefatta all’idea che i Palestinesi abbiano meno diritti degli Israeliani. Tuttavia,  per 5 vittime partite da Tel Aviv, ben 162 sono state registrate nelle fila dei palestinesi, la reazione mondiale avrebbe dovuto essere ben diversa. Anche quest’ultimo assalto, infatti, rientra in una specifica strategia, quella mirata alla disumanizzazione del popolo palestinese. Per capire la portata di tale fenomeno e spiegarne il successo internazionale, basta considerare come, specie dopo l’undici settembre, il sentimento islamofobo ed anti-arabo si sia radicato.

L’obiettivo della disumanizzazione risulta particolarmente evidente in una delle citazioni più care agli israeliani, quella di Golda Meir, secondo cui “la pace sarà possibile solo quando gli Arabi impareranno ad amare i loro figli più di quanto odiano noi”. In questo modo, i palestinesi vengono presentati come esseri incapaci di amare, la cui esistenza si esemplifica nell’odio totale. Per contro, il “noi” serve ad indicare coloro che, al contrario, sono in grado di provare sentimenti d’amore per chicchessia, una categoria, questa, che ha pieno diritto alla tutela. Così, l’umanità dei palestinesi viene annientata, permettendo di giustificare ciò che non può esserlo.

Le radici di tale volontà di disumanizzazione possono essere riscontrate proprio nel pensiero dei primissimi coloni ebrei giunti in Palestina nel 1948, secondo cui “per un popolo senza terra è necessaria una terra senza popolo”. La terra dove si stabilirono, però, non era vuota. I palestinesi, tuttavia, non essendo europei come la maggior parte dei primi colonizzatori ebrei, vennero fin da subito considerati inferiori, se non addirittura non-umani. Il senso di superiorità europeo fu così rapidamente sostituito da uno di matrice puramente ebraica, che ha avuto modo di manifestarsi in modo ben chiaro nei recenti avvenimenti.

I non-umani palestinesi sono più facilmente identificabili con i terroristi o chi per loro. Fin dalle prime ore di guerra, due settimane fa, le autorità militari di Tel Aviv si esprimevano su twitter in termini di “covi terroristici” per indicare gli obiettivi delle loro offensive, evitando qualsiasi menzione circa le vittime civili causate o affermando al massimo che tali perdite erano dovute all’incapacità dei genitori palestinesi di avere cura dei propri figli. “I terroristi di Gaza lanciano missili da postazioni dislocate in aree residenziali. Voi portereste i vostri figli in zone simili?” diceva uno dei tweet. Il ministro dell’interno Eli Yishai ha dichiarato che l’obiettivo dell’operazione militare era quello di “rispedire Gaza nel medioevo”. Mark Regev, portavoce del primo ministro Netanyahu, è rimasto sconcertato quando ha appreso che un corrispondente di al-Jazeera aveva sottolineato che i giornalisti palestinesi uccisi dai razzi israeliani, erano appunto giornalisti, persone, oltre che cittadini palestinesi. Un reporter del Jerusalem Post è rimasto allibito, non comprendendo il motivo del clamore suscitato dalla sua intenzione di occuparsi del livello di stress subìto dagli animali domestici nel sud di Israele a causa dei continui allarmi anti-missile dovuti alle contro-offensive palestinesi. I gruppi a sostegno delle lobby israeliane accusano i palestinesi di fingere le proprie sofferenze. Una persona si è addirittura lamentata affermando “il nostro editore ha scelto di usare la foto di un padre mentre tiene in braccio il corpo del figlio undicenne morto. Perché proprio quello? Non è mica morto solo quello di ragazzino nell’ultimo anno”.

Una piccola minoranza di Israeliani ha protestato contro il proprio governo, scendendo in strada per chiedere la fine di tali oltraggi. Il problema però rimane e finché la morte di un bambino israeliano sarà ritenuta più grave di quella di uno palestinese, vorrà dire che la disumanizzazione sta continuando ad avere successo.