Razan Al-Najjar: un camice bianco macchiato di sangue

MEMO. Di Hossam Shaker. Dopo che i rappresentanti delle democrazie occidentali hanno rilasciato varie dichiarazioni nelle quali affermano che “Israele ha diritto a difendersi”, l’esercito di occupazione non ha perso tempo per esercitare, a modo suo, questo “diritto”. Ha ucciso un paramedico palestinese, con indosso il camice bianco, mentre era impegnata a curare i feriti.

Che minaccia poneva questa piccola giovane ragazza davanti all’esercito più potente del Medio Oriente? La verità è che la traduzione pratica del diritto di Israele a difendersi è una licenza ad uccidere o a giustificare gli omicidi. In nome di questa autodifesa, l’esercito israeliano sono decenni che commette atrocità contro i civili. Il mondo ne è stato nuovamente testimone durante il furioso spargimento di sangue compiuto dalle forze israeliane il 14 maggio 2018 contro manifestanti indifesi, ai confini della Striscia di Gaza.

Il paramedico ventunenne Razan Al-Najjar è divenuta il simbolo della resistenza dal momento stesso in cui il suo nome è stato annunciato come una delle vittime di venerdì, primo giorno di giugno. Razan era una figura di spicco in campo umanitario ed aveva rilasciato numerose interviste alla stampa sulle tante persone disarmate che erano cadute vittime del fuoco israeliano durante le marce del Ritorno.

Questa energica giovane ragazza prestava lavoro volontario per fornire cure mediche ai dimostranti che venivano colpiti dai soldati israeliani, ed è stata a sua volta colpita da lontano dai cecchini  mentre si occupava dei feriti. Il suo camice bianco si è macchiato di sangue rosso e Razan Al-Najjar ha esalato il suo ultimo respiro dopo essere stata colpita al petto.

Razan Al-Najjar ha pagato con la vita il prezzo per poter curare le ferite della sua gente. Una grande folla ha partecipato al suo funerale in uno scenario nel quale le emozioni sono state forti e molte lacrime sono state versate. Le ambulanze si sono messe in fila per una marcia simbolica in onore di un martire del lavoro umanitario. Oggi Razan è divenuta una icona palestinese che ispirerà tante future generazioni.

Razan è stata il martire del giorno tra le grandi folle che hanno protestato nello spazio aperto ad est di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza. La sua morte è stata un segnale intimidatorio inviato a coloro che offrono lavoro come volontari per fermare lo spargimento di sangue innocente. Fin dall’inizio delle marce del Grande Ritorno, a marzo 2018, i soldati israeliani hanno costantemente colpito paramedici, fotoreporter e persone disabili. Le ferite riportate alla testa e al petto hanno causato la morte immediata, incidenti che sono stati documentati dalle telecamere.

L’esercito israeliano ha considerato le pacifiche dimostrazioni popolari come un’arena aperta nella quale poter uccidere facilmente, con una veloce pressione delle dita sul grilletto. Tutto ciò è stato compiuto col pretesto del suo “diritto all’autodifesa”. I cecchini israeliani hanno continuato a dare la caccia a Palestinesi disarmati che innalzavano bandiere, come se fossero in una battuta di caccia selvaggia, ed il conto finale è stata una lunga lista di oltre 100 martiri palestinesi, oltre a migliaia di feriti, alcuni dei quali hanno avuto arti amputati ed inabilità permanenti.

Tutta questa ferocia e questo brutale abuso non hanno interrotto la tradizionale frase di propaganda che le capitali europee ed occidentali ripetono costantemente, cioè “il diritto di Israele a difendersi”. Questa frase è stata istituita nei decenni come una delle più sacre, incastonate su entrambe le sponde dell’Atlantico. Chi osa usare meglio il proprio cervello e porre domande differenti? Anche la Palestina ha diritto a difendersi? Come dovrebbe reagire il suo popolo se si trova sotto occupazione militare e privato anche della protezione internazionale?

Non si tratta comunque di un mistero difficile da individuare, dato che tutti sanno che l’occupazione israeliana gode di una immunità particolare presso la comunità internazionale che la protegge dalle responsabilità o dalle punizioni. Ciò si riflette nel veto presso il Consiglio di Sicurezza che rende il sangue e le vite palestinesi senza nessun valore davanti agli occhi delle democrazie occidentali. Anche chi decide le politiche estere europee partecipa a questo ristagno cronico, che non viene minimamente intaccato dalla continua occupazione e dalle violazioni, nonostante le crescenti manifestazioni svolte nelle piazze europee e le azioni intraprese dalla società civile mondiale contro questo totale immobilismo.

Dato che questa inazione ha provocato ancor più vittime innocenti, una situazione eccezionale è stata creata da attivisti della società civile lunedì 28 maggio davanti ai ministri degli esteri dell’UE mentre si riunivano per un incontro. Sono stati accolti da una esposizione di 4.500 paia di scarpe, allineate fuori dal loro quartier generale di Bruxelles. Questa vasta esposizione rappresenta il numero di civili palestinesi ammazzati dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza in soli 10 anni.

Quel che dovremmo ammettere e riconoscere pubblicamente è che né l’Europa né il resto del mondo hanno pronta una road map per liberare il popolo palestinese dall’occupazione, ma hanno piuttosto una quantità enorme di vuote dichiarazioni verbali rilasciate dopo ogni massacro commesso da Israele, che non intaccano in nessun modo la situazione e non influenzano nemmeno i privilegi speciali e le immunità garantiti loro. I politici europei e del resto del mondo adesso devono avere il coraggio di guardare direttamente il volto di Razan Al-Najjar e di osservare le foto col suo camice bianco macchiato di sangue, prima di poter osare ancora pronunciare la frase “il diritto di Israele all’autodifesa”.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi