Le nuove frontiere significheranno meno conflitti in MO?

RV-AQ047_BORDER_16U_20150410112442Wsj.com. La ridefinizione dei confini comporterà un minore livello di conflittualità in Medio Oriente?

La regione è contrassegnata dall’esplosivo retaggio di stati i cui confini sono stati disegnati a tavolino sui resti dell’Impero Ottomano.

Di Yaroslav Trofimov.

Immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale, il primo ministro inglese e quello francese si distolsero dall’arduo compito di ridisegnare la mappa dell’Europa per dedicarsi a una questione in apparenza più semplice: definire le nuove frontiere nel Medio Oriente appena conquistato.

Due anni prima, nel 1916, i due alleati avevano concordato le rispettive zone di influenza con un patto segreto, denominato accordo Sykes-Picot, per dividere la regione. Ma ora, l’Impero Ottomano era stato sconfitto; il Regno Unito, che aveva contribuito in misura maggiore alla disfatta dei turchi, credeva di meritare una più lauta ricompensa.

“Dimmi cosa vuoi”, disse il francese Georges Clemenceau all’inglese David Lloyd George, mentre entravano nell’ambasciata francese a Londra.

“Voglio Mosul”, rispose il primo ministro britannico.

“Dunque, l’avrai. Nient’altro?” chiese Clemenceau.

La decisione fu presa in pochi secondi. L’immensa provincia imperiale ottomana di Mosul, popolata da arabi sunniti e curdi e ricca di petrolio, fu inserita entro i confini dell’Iraq e non della Siria.

L’Impero Ottomano era multi-linguistico e multi-confessionale; al suo vertice, c’era il sultano, che deteneva anche il titolo di califfo: capo di tutti i Musulmani nel mondo. Gli Ottomani, però, si schierarono con i perdenti della Grande Guerra: il loro impero fu smantellato sommariamente da capi di stato europei che non conoscevano le popolazioni, la geografia e gli usi della regione.

Gli stati mediorientali che ne risultarono furono, in massima parte, frutto di ragionamenti artificiosi; i loro confini, spesso, coincidono con improbabili linee diritte, tracciate a tavolino. Nonostante i reiterati tentativi di unificazione pan-araba, però, questi confini sono rimasti pressappoco inalterati e le frontiere sono ancora quelle di epoca coloniale.

Gli squilibri insiti in questi stati di recente creazione, particolarmente in Siria e in Iraq, hanno determinato il sorgere di brutali dittature che sono riuscite per decenni a controllare la maggioranza insofferente e a perpetuare la tirannia di gruppi minoritari.

Adesso, tuttavia, le cose potrebbero cambiare. Di fatto, la Siria e l’Iraq non sono più stati veri e propri. Ampie porzioni di territorio, in tutti e due i Paesi, non sono più sotto il controllo del governo centrale e l’essenza stessa di nazione, in entrambi i casi, è stata svuotata dalla prevalenza di identità settarie e etniche.

La nascita dello Stato Islamico è la diretta conseguenza di questo crollo. Il leader del gruppo estremista sunnita, Abu Bakr al-Baghdadi, si è autoproclamato nuovo califfo e ha giurato di cancellare per sempre la vergogna costituita dal “complotto di Sykes-Picot”. Quando, la scorsa estate, sono usciti dalla roccaforte in Siria e hanno preso il controllo su Mosul, che adesso è una delle città più grandi dell’Iraq, al-Baghdadi ha giurato di stravolgere i vecchi confini. L’offensiva, una delle prime azioni intraprese dall’ISIS (altro nome con cui è definito il gruppo), era tesa anche a far saltare i check-point tra la Siria e l’Iraq.

“Stiamo assistendo al tramonto dell’ordine post-ottomano, al declino degli stati legittimi”, ha dichiarato Francis Ricciardone, ex ambasciatore statunitense in Turchia e Egitto e ora membro del Consiglio Atlantico, think-tank con sede a Washington. “L’ISIS è un tassello del puzzle, che va a riempire il vuoto determinato dal crollo del vecchio ordine”.

Nel caos che sta investendo il Medio Oriente, a sgretolarsi sono soprattutto i paesi creati un secolo fa dai colonialisti europei. Gli stati con un più forte senso delle tradizioni e una storia condivisa hanno, finora, evitato una simile implosione.

“Il conflitto nel Medio Oriente è soprattutto frutto dell’insicurezza di questi stati artificiosi”, sostiene Husain Haqqani, scrittore ed ex ambasciatore pakistano negli Stati Uniti. “Gli stati creati a tavolino hanno bisogno di forti ideologie stataliste e spesso devono mostrare il pugno duro contro i loro stessi popoli o contro i paesi confinanti per consolidare la loro identità”.

In Egitto, paese caratterizzato da un forte senso nazionale e da una storia millenaria, nessuno ha messo in dubbio l’identità egiziana, neanche durante i disordini seguiti alla cacciata del presidente Hosni Mubarak, in seguito alla rivoluzione del 2011. Di conseguenza, le istituzioni egiziane sono, in massima parte, rimaste in piedi e la violenza si è fermata prima di esplodere in una vera e propria guerra civile.

Anche la Turchia e l’Iran, che sono stati in passato il centro di vasti imperi, sono usciti pressoché indenni dalle agitazioni degli ultimi anni, sebbene nei loro confini vivano significative minoranze etniche, tra cui gli Arabi e i Curdi.

Gli stati mediorientali “creati a tavolino” non sono necessariamente destinati al collasso e alcuni, in primis la Giordania, non stanno esplodendo, perlomeno non ancora. Dopo tutto, il mondo è costellato di stati multietnici e multi-confessionali stabili e benestanti, dalla Svizzera a Singapore, passando per gli Stati Uniti, che restano un paese relativamente giovane a paragone, ad esempio, con l’Iran.

In questi stati, una forte base sociale, in genere fondata su pratiche di buon governo e opportunità economiche, trasforma la diversità etnica e religiosa in una fonte di forza e non in un volano di instabilità. Nel Medio Oriente, invece, “i luoghi che sono stati destabilizzati non erano caratterizzati da pratiche di buon governo, ma da regimi esecrabili”, continua Ricciardone.

Un secolo fa, la speranza diffusa era che anche Siria e Iraq potessero seguire le orme della Svizzera. Il presidente Woodrow Wilson inviò una commissione in Medio Oriente, per stabilire che tipo di nazioni potessero sorgere dalle ceneri dell’Impero Ottomano.

Durante l’epoca ottomana, la Siria e l’Iraq non esistevano come entità indipendenti. Tre province, Baghdad, Basra e Mosul, corrispondevano pressappoco al territorio oggi occupato dall’Iraq. Altre quattro, Damasco, Beirut, Aleppo e Deir ez-Zor, costituivano l’odierna Siria, il Libano e gran parte della Giordania e della Palestina, oltre a un’ampia fascia di Turchia meridionale. Erano abitate da comunità molto diverse fra loro, Arabi Sunniti e Sciiti, Curdi, Turcomanni e Cristiani in Iraq, cui si aggiungevano gli Alauiti e i Drusi in Siria.

Gli emissari del presidente Wilson, Henry King e Charles Crane, stilarono un rapporto dettagliato nell’agosto del 1919. Nel frattempo, in Europa, il crollo degli Imperi russo e austro-ungarico determinava la nascita di nuovi stati-nazione su base etnica. Ma gli ufficiali statunitensi avevano una visione diversa: consigliarono a Wilson di non tenere conto delle differenze etniche e religiose.

L’attuale Iraq, a loro avviso, doveva rimanere unito perché “il sentimento di unità non sarà mai messo in discussione nel caso della Mesopotamia”. Auspicavano anche la nascita di una “Grande Siria”, che avrebbe dovuto comprendere gli attuali stati del Libano, della Giordania, di Israele e dei Territori Palestinesi.

Secondo King e Crane, la fine dell’Impero Ottomano “concedeva l’opportunità, difficilmente replicabile, di costruire… uno Stato del Vicino Oriente sul moderno fondamento della piena libertà religiosa, che avrebbe deliberatamente compreso al suo interno diverse fedi, con una speciale tutela delle minoranze”. Le popolazioni autoctone, aggiunsero, “avrebbero vissuto molto meglio in uno stato moderno”, che non sotto l’Impero Ottomano.

Le speranze degli americani non si sono concretizzate.

In Siria, le autorità coloniali francesi, contrastate dall’ostile maggioranza sunnita, cercarono di ingraziarsi gli Alauiti, una minoranza nata in seno all’Islam sciita, che aveva subito discriminazioni all’epoca dell’Impero Ottomano.  I Francesi crearono uno stato alauita indipendente sull’attuale costa mediterranea della Siria e reclutarono molti alauiti nelle loro forze armate.

In Iraq, a maggioranza sciita, gli amministratori britannici, dovendo fronteggiare una rivolta sciita subito dopo l’inizio dell’occupazione, si comportarono in modo simile. La nuova amministrazione diede molto più rilievo alla minoranza araba sunnita, che era cresciuta nell’epoca ottomana e che adesso si riuniva sotto la figura del nuovo re sunnita d’Iraq, fatto arrivare dagli Inglesi dalla nuova provincia indipendente di Hijaz, ex provincia ottomana conquistata dall’Arabia Saudita.

Queste decisioni hacontribuirono in modo notevole a definire le sorti dell’Iraq e della Siria nell’epoca post-coloniale. La famiglia Assad è al governo della Siria dal 1970; Saddam Hussein divenne presidente dell’Iraq nel 1979. Malgrado i nobili discorsi retorici sulla nascita della nazione araba, entrambi i regimi hanno trasformato questi paesi in luoghi in cui le comunità minoritarie (Alauiti in Siria, Arabi Sunniti in Iraq) erano decisamente “più uguali” delle altre.

I tentativi della maggioranza sunnita in Siria e di quella sciita in Iraq di sfidare i sistemi autoritari sono stati repressi senza pietà. Nel 1982, il regime siriano spianò la città di Hama, a maggioranza sunnita, in seguito a una rivolta di matrice islamica, e Saddam represse con estrema durezza un tentativo di rivolta sciita nell’Iraq meridionale, dopo la Guerra del Golfo del 1991.

In Siria, oggi, molti Alauiti sostengono il presidente Bashar al-Assad contro i ribelli a maggioranza sunnita, nel timore che il crollo del regime possa segnare la fine della loro comunità; una minaccia resa ancora più concreta dallo Stato Islamico, i cui estremisti sunniti offrono agli alauiti e agli sciiti di scegliere tra la conversione e la morte.

In Iraq, i governi a maggioranza sciita, che si sono alternati dopo l’invasione statunitense del 2003, si sono presi una rivincita sui precedenti, discriminando le minoranze sunnite. Di conseguenza, lo scorso anno, lo Stato Islamico è riuscito a sottomettere intere regioni sunnite in Iraq, praticamente senza opposizione, perché spesso il gruppo viene percepito dai locali come il male minore.

“Il problema non sono solamente i confini territoriali, ma i modelli governativi imposti dall’Europa”, sottolinea Vali Nasr, Decano della School of Advanced International Studies della Johns Hopkins University e ex consigliere per il Dipartimento di Stato. “Le potenze coloniali all’interno degli stati hanno creato amministrazioni coloniali che hanno formato e incorporato le minoranze, dando loro forza. Quando hanno lasciato quei paesi, il potere è rimasto nelle mani delle frange minoritarie, stabilendo, di fatto, una dittatura delle minoranze”.

“C’era uno squilibrio di potere in Iraq, Siria e molti altri paesi e non esiste una formula magica per sistemare le cose. I vincitori non vogliono spartire il bottino e i perdenti non vogliono cedere il potere”, continua Nasr. “Il Medio Oriente sta attraversando un periodo di forte instabilità, che determinerà un assetto politico molto diverso e forse anche un differente assetto territoriale”.

Ma quali sono gli interessi, in vista di un mutamento dell’assetto territoriale nel Medio Oriente? E se questo cambiamento dovesse realmente configurarsi, come apparirebbe la nuova mappa della regione?

Una possibilità concreta è quella relativa ai Curdi, il cui desiderio di istituire uno  stato indipendente a cavallo tra la Turchia orientale e l’Iraq settentrionale era garantito dal cosiddetto Trattato di Sévres, siglato nel 1920 tra gli alleati occidentali e gli Ottomani, e che però fu presto annullato. Il patto fu immediatamente contestato dai nazionalisti turchi guidati da Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della Turchia moderna. Fino a poco tempo fa, infatti, la Turchia ha sempre negato l’esistenza stessa di un’etnia indipendente curda.

I Curdi, che oggi vivono tra l’Iraq, la Turchia, la Siria e l’Iran, hanno già goduto per decenni di una sorta di indipendenza virtuale, con un governo autonomo stanziato a nord dell’Iraq, sulla regione montuosa di quella che un tempo costituiva la provincia ottomana di Mosul. Attualmente, hanno anche istituito tre “cantoni” autonomi nella Siria settentrionale.

“Non mi sorprenderebbe, nel giro di vent’anni, la creazione di uno stato del Kurdistan”, ha dichiarato Karim Sadjapour, analista del Medio Oriente, al Carnegie Endowment. “Già esiste, de facto”.

I Curdi iracheni, caratterizzati da una diversa identità linguistica e culturale, hanno già il controllo sui confini e sulla sicurezza interna e limitano l’accesso agli Arabi. Con lo scoppio della guerra civile in Siria, le milizie curde hanno perseguito un progetto nazionale diverso. “Gli altri ribelli combattono per la Siria, invece il nostro obiettivo è il Kurdistan, siamo interessati solo a questo”, ha dichiarato Farid Atti, ufficiale di una storica milizia curda che ha contrastato lo Stato Islamico in prossimità della città di Kobane, uno dei tre “cantoni” autonomi curdi in Siria.

A parte il Kurdistan, tuttavia, la creazione di nuovi stati autonomi indipendenti è molto più improbabile, nonostante gli orrori di natura etnica e settaria che oggi stanno scuotendo la regione.

Prima di tutto, nonostante siano stati creati a tavolino, gli stati dell’epoca post-ottomana si sono dimostrati sorprendentemente resistenti. Si prenda il caso del Libano, paese in cui convivono circa 18 comunità religiose in conflitto tra loro, che è sopravvissuto a una guerra civile sanguinaria e su più fronti durata dal 1975 al 1990 e che ha, puntualmente e a più riprese, smentito le analisi che ne prevedevano il crollo. A dispetto, o forse in virtù, di questa storia travagliata, il Libano resta un’oasi di relativa stabilità nell’incerto quadro regionale odierno, sebbene abbia dovuto accogliere oltre un milione di profughi siriani in fuga dal caos che travagliava il paese confinante.

“I governi dei paesi creati artificiosamente, all’inizio, hanno cercato in ogni modo di costruire uno spirito nazionalista. Bisogna stabilire quanto tempo sia necessario per riuscirci”, sostiene Michele Dunne, ex alto funzionario del Dipartimento di Stato, oggi esperto di questioni mediorientali per il Carnegie Endowment. “Probabilmente il senso di nazione non è forte come nei Paesi che lo possiedono da secoli, ma comunque esiste”.

In effetti, anche nelle disperate condizioni attuali, in Iraq e in Siria persistono forti sentimenti nazionalisti. “Qualsiasi altro paese, alle prese con la terribile storia che ha segnato l’Iraq negli ultimi dodici anni, adesso sarebbe smembrato”, sostiene Ayad Allawi, ex vice presidente ed ex primo ministro iracheno. “Solo la volontà popolare è riuscita a mantenere in piedi il Paese”.

In Siria, lo studente diciannovenne Mohammed Ali ha recentemente ricordato la reazione all’arrivo dello Stato Islamico da parte degli abitanti della sua città, al-Boukamal, vicino al confine iracheno. Nell’ottica del loro piano di cancellare le frontiere coloniali, i nuovi arrivati hanno separato al-Boukamal dalla provincia siriana di appartenenza e l’hanno annessa alla nuova “Provincia dell’Eufrate” dello Stato Islamico, retta dalla città irachena di Qaim.

All’inizio, secondo Ali, i locali erano felici della cancellazione del confine. “Per trent’anni, non ci è stato permesso di attraversarlo e di andare a trovare i parenti che vivevano sull’altro versante”, ricorda. Poi, però, i loro sentimenti sono cambiati: c’è stato un rigurgito patriottico unito al rancore, perché gli iracheni stavano inondando l’area, avevano preso il controllo su al-Boukamal e trasportavano oltre la frontiera il petrolio siriano sottratto illegalmente. “Non li vogliamo qui, vogliamo ripristinare il confine”, ha concluso Ali.

Ragionare sulla possibile nuova ridefinizione della regione pone altri interrogativi. Dove cadrebbero esattamente le linee di confine? E con quali conseguenze?

Nonostante le operazioni di pulizia etnica condotte negli ultimi anni, i Sunniti e gli Sciiti convivono tuttora in molte zone dell’Iraq, anche a Baghdad, e molti Sunniti siriani preferirebbero vivere in città sotto il controllo del regime di Assad che in centri devastati dalla guerra e sotto l’influenza dei ribelli.

Ayad Allawi, vicepresidente iracheno, ricorda che molti gruppi tribali tradizionali del paese annoverano al loro interno esponenti sunniti e sciiti e che numerose famiglie irachene, soprattutto nelle grandi città, sono miste. “Per separare il paese, bisognerebbe entrare nei letti delle persone”, sottolinea scherzando. In Iraq come altrove, Sunniti, Sciiti e Curdi costituiscono solo di rado gruppi unitari, fondati sul consenso; al loro interno, sono scossi da forti contrasti.

L’unico caso di separazione di un paese arabo, quello del Sudan in una nazione araba al nord e la Repubblica del Sudan del Sud, paese non arabo di recente formazione diventato indipendente nel 2011, non costituisce un precedente incoraggiante per i fautori dei nuovi confini. Nel Paese è scoppiata subito una guerra civile che ha causato decine di migliaia di vittime e due milioni di sfollati.

“Non c’è alternativa agli stati”, sostiene Fawaz Gerges, docente di Studi sul Medio Oriente alla London School of Economics. “Significherebbe rimpiazzare una sola guerra civile con una miriade di guerre civili, proprio come sta accadendo in Siria e in Iraq. È un ciclo catastrofico”.

“La creazione di una nuova base sociale dal basso, all’interno dei confini già esistenti nella regione, cosa che potrà accadere solo quando la popolazione sarà estenuata dai continui conflitti, è l’unica soluzione possibile”, dichiara Stephen Hadley, consigliere per la sicurezza nazionale del Presidente George W. Bush e ora Presidente dell’Istituto degli Stati Uniti per la pace.

“Il vero problema in Medio Oriente”, continua, “non è la caduta dei confini, ma di quello che c’era all’interno degli stessi: i governi, che avevano scarsa legittimità quando si sono instaurati e che non sono riusciti a conquistarla presso il loro popolo. La ridefinizione dei confini è assolutamente inutile”.

Trovare la soluzione, secondo Hadley, non sarà facile.

“Non avverrà nel giro di poco tempo – continua – per superare questo stallo ci vorrà almeno una generazione”.

Traduzione di Romana Rubeo