‘L’Italia sia davvero neutrale: si sganci dal trattato di cooperazione militare con Israele’. L’intervento di Stefano Chiarini al Convegno di Infopal del 30 novembre.

Riportiamo qui di seguito la relazione di Stefano Chiarini al Convegno “La Palestina dei media, i media della Palestina. Da un’informazione reticente a un’informazione veritiera”, svoltosi a Roma il 30 novembre scorso e organizzato dall’Agenzia Stampa Infopal.it, dall’Associazione Infopal e dall’Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese – Abspp onlus.

In Italia c’è la tendenza a dire che qui c’è più sensibilità verso la Palestina, che gli italiani sono ‘più buoni’ degli altri. Insomma, che la situazione è migliore. Ma non è affatto vero: il nostro Paese non è affatto neutrale nel conflitto. C’è un trattato di cooperazione militare con Israele e quindi c’è una responsabilità sia dei media sia della stessa politica, mentre una politica di reale neutralità, di mediazione implicherebbe almeno il congelamento di accordi di questo genere. In secondo luogo, l’Italia sta boicotando il legittimo governo palestinese, e questa è una cosa estremamente grave, perché è un governo eletto regolarmente, come gli ossevatori anche italiani hanno certificato. Due esempi che dimostrono come anche da noi non c’è una politica neutrale.

 

Anche sui media devo dire che le cose non vanno meglio: se guardate l’inglese Bbc, quando c’è un servizio sulla Palestina, chiedono un intervento anche di un esponente palestinese, o di un giornalista, cosa che avviene raramente in Italia. Da noi ci sono dei servizi chiusi e poi non si chiede il parere dei diretti interessati.

C’è puoi un altro dato: la responsabilità degli editori e degli stessi giornalisti. Da questo punto di vista, tranne rarissime eccezioni, c’è stato un adattarsi  progressivo a quella che è la politica dell’amministrazione americana e di Israele, politica che ci ha portati in una situazione di stallo. Mi riferisco, ad esempio, all’uso delle parole stesse: in grande parte dei media è scomparsa da molto tempo la parola “occupati” in riferimento ai territori palestinesi.

Ciò mi sembra abbastanza grave sia perché è una definizione esatta, a livello di diritto internazionale, sia perché il non usarla apre la strada a due fatti: il non definire i territori palestinesi come “occupati” lascia aperta la possibilità che il governo israeliano non si senta in dovere di ritirarsi entro i confini del ‘67 e che cerchi di annettere, attraverso il Muro, un buon 40% della West Bank, impedendo quindi la nascita di un vero stato palestinese: Poi, se i territori non sono “occupati”, da un certo punto di vista anche la resistenza diventa “terrorismo”. Dalla  scomparsa di questo aggetivo deriva una  precisa scelta politica che prepara la strada a una decisione che va sostanzialmente nello stesso senso.

 

Direi allora che la prima cosa è tornare a definire con esattezza il problema, perché l’origine del conflitto e della violenza nei territori occupati deriva dall’occupazione israeliana stessa, e non da forze cieche legate all’estremismo religioso, in particolare musulmano. Questo è un elemento importante da considerare, per il semplice motivo che la Palestina non era, appunto, “una terra senza popolo per un popolo senza terra”, ma una terra abitata dai palestinesi, che sono stati cacciati via. Questo è l’inizio del problema. Adesso si sono orientati a una proposta di due stati, che noi appoggiamo, ma bisogna sempre tener presente che lo stato palestinese è sui confini del ‘67, cioè su ciò a cui Israele non vuole ritornare – e questo è comunque solo il 22% della Palestina storica. Dunque, a coloro che dicono che i palestinesi “chiedono troppo” bisognerebbe ricordare che hanno già rinunciato al 78% del loro paese e che si accontentano di uno stato di circa il 20% della vecchia  Palestina. E’una questione di numeri, ma è molto importante. Per arrivare alla soluzione ci vogliono delle trattative, ma questa è una cosa che al momento non è prevista né dal governo israeliano né da quello americano né, in generale, dalla diplomazia internazionale. La situazione è quindi in stallo: la si può sbloccare solo attraverso una conferenza internazionale dove si affrontino tutti i temi dell’occupazione israeliana del Medio Oriente – Palestina, territori libanesi, territori siriani del Golan. Il problema, infatti, va risolto nel suo complesso.

Da questo punto di vista, allora, c’è una responsabilità degli editori, dei giornalisti, ma anche delle forze politiche: si crea un corto circuito, per cui determinate cose portano l’editore a censurare certe  posizioni e il giornalista ad auto-censurarsi, tenendo fuori la realtà vera delle cose.

 

Come dice Noam Chomsky, è “un dibatito che avviene tutto all’interno di un spazio pubblico consentito, in cui vengono fatte domande partendo sempre dagli stessi principi, senza rimettere in discussione quella che è la questione, il vero problema, cioè l’occupazione israeliana. Quindi, credo che ci siano delle responsabilità da parte di tutti noi, senza contare le pressioni.

Ognuno fa il proprio lavoro, non è questo il punto. Il punto è che occorrerebbe dare una versione esatta della situazione, perché solo così possiamo pensare realmente di fare dei passi avanti sulla via della pace. Le interpretazioni di comodo, oppure quelle che nascondono l’origine del problema – l’occupazione israeliana – in realtà non ci fanno fare dei progressi, ma ci fanno rimanere sempre nello stesso punto, o peggio, come possiamo vedere ogni giorno a Gaza e nei Territori occupati.

 

I discorso della manipolazione delle parole vale anche per le “colonie”: già il definirle “insediamenti” rispetto a “colonie” ne offre una versione più positiva. In alcuni casi si è arrivati a chiamarle “quartieri”, cosa che cambia completamente il giudizio dell’ascoltatore.

 

Tutto quello che ho detto fin qui è un invito che io rivolgo ai colleghi, agli editori. Penso anche però che ci siano delle serie responsabilità da parte della politica: sappiamo tutti che in passato, di fronte a servizi giornalistici assolutamnete obiettivi mandati in onda dalla Rai, sono state esercitate pressioni da parte dell’ambasciatore israeliano a Roma, e poi, quarda caso, dopo qualche setimana o mese, questi giornalisti sono stati spostati da altre parti o mandati via da Gerusalemme.

 

Credo che questi siano fatti preoccupanti – evidentemente non c’è una prova del rapporto di causa-effetto -, ma si trattava di giornalisti assolutamente obiettivi, neanche filo-palestinesi, semplicementi obiettivi. Tali pressioni dovrebbero trovare un blocco anche da parte della politica, cosa che invece non succede.

E’quanto ci si aspetterebbe da questo governo: una posizione più ferma su questo punto e, in generale, nei confronti di Israele – il congelamento dei trattati di cooperazione militare, per esempio. Ritengo che se il governo italiano vuole svolgere un effettivo ruolo di mediatore nell’area, il primo passo per essere veramente neutrali è quello di congelare gli accordi militari. Personalmente, per quanto riguarda la complicità del governo italiano, ritengo che sarebbe abbastanza opportuno riaprire il caso del rapimento del tecnico israeliano Mordechai Vanunu (avvenuto a Roma diciotto anni fa, ad opera del Mossad con la complicità dei nostri servizi, ndr), visto che, tra l’altro, in questi mesi si sta molto parlando del sequestro di Abu Omar. Non capisco perché non si debba affrontare questo caso: Vanunu è stato rapito in Italia. Bisognerebbe valutare se ci sono state delle complicità o semplicemente una copertura a posteriori. Lui ha chiesto anche di essere sentito dalla magistratura italiana, ma nulla si è mosso, né a livello politico, né giudiziario. L’inchiesta conclusa da Domenico Sica, a suo tempo, è una barzelletta: si può dire qualsiasi cosa – che non abbiamo elementi  per condurre l’inchiesta, per esempio -, ma affermare addirittura che Vanunu si sia auto-rapito, è un po’ troppo ed è preoccupante. Come per i diritti umani, se si passa sopra alla violazione della legalità, poi queste cose si ripetono, si approfondiscono e peggiorano. Quindi direi che questo è uno dei casi di cui il ministro della Giustizia italiano dovrebbe occuparsi. Questo segnalerebbe una indipendenza di giudizio com’è stato dimostrato in altri casi. Credo sia importante se vogliamo veramente giocare un ruolo di mediazione concreto e non semplicemente un argomento di dibatito interno all’Italia, tra uno schieramento e l’altro, senza che nella sostanza venga mai concluso nulla. 

Grazie a tutti.

Stefano Chiarini

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