Analisi: una benedizione camuffata? La presidenza Trump può essere un bene per la Palestina

405270CMa’an. Di Ramzy Baroud. Israele è frastornato. Il 20 gennaio sarà un altro Natale e Donald Trump è Santa Claus che porta i regali. Il segno premonitore è che il presidente eletto Trump ha nominato un estremista, David Friedman, prossimo ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, colui che intende spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme e che appoggia l’espansione illegale delle colonie che già ha spezzettato l’immaginario Stato palestinese in un bantustan di tipo sud africano.
Quindi sarebbe strano, se non già provocatorio, suggerire che una presidenza Trump possa rappresentare il colpo di grazia di cui i palestinesi, e il Medio Oriente intero, hanno bisogno per liberarsi dal peso di una politica estera americana dispotica, arrogante e improduttiva che si è prolungata per decenni.
Senza dubbio una presidenza Trump è terribile per i palestinesi nel breve periodo. Egli non dimostra alcuna imparzialità o il minimo equilibrio quando si avvicina al tema del conflitto mediorientale più longevo e delicato che si ricordi.
Secondo la sequenza apparentemente infinita dei suoi Tweet, Trump non vede l’ora di poter dimostrare ai leader israeliani quanto sarà loro favorevole la sua amministrazione. Subito dopo l’astensione degli Usa al voto della risoluzione dell’Onu 2334 di condanna agli insediamenti illegali israeliani, il 23 dicembre scorso, il presidente eletto ha twittato: «In quanto all’Onu, le cose cambieranno dopo il 20 gennaio».

Trump ha twittato ancora subito dopo il discorso di John Kerry sul conflitto israelo-palestinese, nel quale il segretario di Stato ha strigliato Israele per aver messo a rischio la soluzione a due Stati e ha definito l’attuale governo Netanyahu il più a destra della storia di Israele.
Nella sua replica Trump si è rivolto a Israele chiedendo di «essere forte» fino all’inaugurazione della sua presidenza, il 20 gennaio. I leader israeliani aspettano quella data, come la aspetta Naftali Bennet, capo del partito della Casa ebraica, che si attende che le relazioni Israele-Usa saranno ricomposte quando Trump sarà presidente.

Bennet – che è anche il ministro dell’Istruzione di Israele – ha poi dichiarato alla stampa, lo scorso novembre, che «abbiamo la possibilità di ricomporre la struttura del Medio Oriente. Dobbiamo cogliere questa opportunità e lavorarci su».
Bennet ha altresì dichiarato che una delle opportunità incalzanti presentate dalla presidenza Trump è che «l’era dello Stato palestinese è finita».
Naturalmente Kerry ha ragione: l’attuale governo israeliano è il più estremo e di destra della storia, una tendenza che non cambierà presto dal momento che riflette accuratamente il carattere politico e sociale del Paese.
La risposta di Bennet al discorso di Kerry è stata la seguente.
«Kerry mi ha citato tre volte, senza nominarmi, nel suo discorso, per dimostrare che noi ci opponiamo a uno Stato palestinese. Lasciatemelo dire esplicitamente. Sì, se dipendesse da me non istituiremmo un altro Stato terrorista nel cuore del nostro Paese».
Alla replica di Kerry che Gerusalemme dovrebbe essere la capitale sia di Israele che della Palestina, Bennet ha risposto: «Gerusalemme è stata la capitale ebraica per 3000 anni, è scritto nella Bibbia: aprila e leggi».

La morsa del fanatismo religioso sulla politica israeliana è irreversibile, certo non si allenterà nel prossimo futuro. Mentre in passato i politici laici ebraici hanno fatto uso di nozioni religiose per attrarre il voto degli ebrei religiosi e per popolare gli insediamenti illegali, sono i gruppi religiosi, oggi, a dettare il tono della politica israeliana ufficiale.

Come possono beneficiare i palestinesi di tutto ciò? In una parola: chiarezza.
Da quando i funzionari di medio livello degli Stati Uniti hanno accettato di incontrare una delegazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina in Tunisia, nei tardi anni Ottanta, gli Usa hanno scelto uno sconcertante percorso di pacificazione.

Subito dopo che gli Stati Uniti hanno ‘coinvolto’, con esitazione, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina – una volta ricevuta l’approvazione dagli Usa dopo mille peripezie politiche – gli Usa hanno in realtà definito da soli quale sarebbe stato il significato del termine ‘pace’ tra Israele e i vicini arabi.
La Casa Bianca ha stabilito i parametri del ‘processo di pace’, chiamando a raccolta gli arabi in molte occasioni per approvare le ‘visioni’ di pace che gli Usa trovavano adatte, e dividendo gli arabi in ‘moderati’ e ‘radicali’ sulla base di come ciascun Paese percepiva i dettami degli Stati Uniti sulla pace nella regione.
Senza alcun mandato gli Stati Uniti si sono imposti come ‘onesti mediatori per la pace’, e hanno fatto di tutto per mettere in pericolo il conseguimento dei meri parametri stabiliti per il raggiungimento della presunta pace. Washington, descrivendo da un lato la costruzione degli insediamenti israeliani come ’ostacolo per la pace’, dall’altro finanziava gli insediamenti stessi e l’esercito di occupazione posto a difesa delle entità illegali. Invocò inoltre ‘misure per il rafforzamento della fiducia’ foraggiando simultaneamente l’esercito israeliano e giustificando le guerre di Israele su Gaza e l’uso eccessivo della forza nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme.
In altri termini, gli Usa hanno fatto per decenni l’esatto contrario di ciò che dicevano.

La schizofrenia politica statunitense è completamente visibile oggi. Mentre Obama ha osato fare ciò di cui non avrebbe mai osato nemmeno parlare, a dicembre – astenendosi al voto sulla risoluzione di condanna agli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania – solo poche settimane prima aveva fornito a Israele ‘il più grande aiuto militare che si ricordi’.
L’appoggio cieco degli Usa a Israele, negli anni, ha fatto crescere le aspettative al punto da anticipare, oggi, il supporto che verrà dato in futuro, anche se Israele è governato da estremisti che destabilizzano ulteriormente una regione già fragile e barcollante.

Secondo la logica di Israele tali aspettative sono razionali. Gli Stati Uniti hanno avuto il ruolo di facilitatori della belligeranza politica e militare israeliana tenendo buoni palestinesi e arabi con promesse vuote, a volte con minacce, con elemosine e a parole.
I cosiddetti ‘palestinesi moderati’, come Mahmoud Abbas e l’Autorità nazionale palestinese, sono stati puntualmente tenuti buoni dalle trappole del ‘potere’ e dalla legittimazione politica statunitense, mentre a Israele continuava a essere permessa la conquista di tutto ciò che restava della Palestina.

Ma quell’era è davvero finita. Pur continuando, gli Stati Uniti, a permettere l’intransigenza di Israele, una presidenza Trump vedrà probabilmente un completo abbandono delle ambiguità cui Washington ha abituato il mondo.
Il male non sarà più bene, né lo sbagliato sarà giusto, né la propaganda di guerra pacifismo. Anzi, Trump intende mostrare la politica estera americana per ciò che essa è davvero ed è stata per decenni. La sua presidenza darà probabilmente a tutti una scelta netta sulla posizione da adottare in termini di pace, giustizia e diritti umani.
Anche i palestinesi dovranno fare una scelta: affrontare in maniera unitaria una realtà che dura da decenni o affiancare coloro che intendono ‘risistemare’ il futuro del Medio Oriente in base a oscure profezie bibliche.

Ramzi Baroud è un editorialista internazionale, autore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo ultimo libro è «My father was a freedom fighter: Gaza’s untold story»

Traduzione di Stefano Di Felice