Da “Iron Valley” alla “Villa in the Jungle”, i Palestinesi demoliscono tutti i miti della sicurezza israeliana

MEMO. Di Ramzy Baroud. Venticinque anni prima che venisse fondata Israele sulle rovine della Palestina storica, un leader ebreo sionista russo, Ze’ev Jabotinsky, sosteneva che lo stato ebraico in Palestina poteva sopravvivere solo se si trovasse “dietro un muro di ferro” difensivo. Jabotinsky parlava in senso figurato, ma i leader sionisti che seguirono abbracciarono i suoi insegnamenti e, alla fine, trasformarono l’idea del muro di ferro in una tangibile realtà. Israele e Palestina sono oggi sfigurate da muri infiniti, fatti di cemento e ferro, che zigzagano dentro e intorno ad una terra che doveva invece rappresentare l’inclusione, l’armonia spirituale e la convivenza.

A poco a poco, sono emerse nuove idee riguardo alla “sicurezza” di Israele, come “fortezza Israele” e “villa nella giungla”, una metafora ovviamente razzista, usata ripetutamente dall’ex-primo ministro israeliano Ehud Barak, che raffigura falsamente Israele come un’oasi di armonia e democrazia in mezzo al caos e alla violenza del Medio Oriente. Affinché la “villa” israeliana rimanesse prospera e pacifica, secondo Barak, lo stato doveva fare ben più che mantenere il suo vantaggio militare, doveva garantire che il “caos” non violasse i perimetri della perfetta esistenza di Israele.

La “sicurezza” per Israele non è, quindi, soltanto vista attraverso le lenti militari, politiche e strategiche. Se così fosse, l’uccisione di un cecchino israeliano, Barel Hadaria Shmuel, da parte di un palestinese nei pressi della recinzione che separa Israele da Gaza sotto assedio, il 21 agosto scorso, avrebbe dovuto essere considerata come il costo prevedibile e razionale di una guerra perpetua e dell’occupazione militare.

Inoltre, un cecchino dell’esercito morto contro oltre 300 Palestinesi disarmati uccisi da cecchini dovrebbe, in termini di calcoli militari approssimativi, sembrare un prezzo ”ragionevole” da pagare in senso puramente militare. Ma il linguaggio usato dai funzionari e dai media israeliani dopo la morte di Shmuel – il cui lavoro includeva l’uccisione e la mutilazione di giovani Palestinesi – indica che il senso di sconforto di Israele non è legato alla presunta tragedia di una vita persa, ma alle aspettative irrealistiche che l’occupazione militare e la “sicurezza” possano coesistere, che l’uno possa garantire l’altro.

Gli israeliani vogliono poter uccidere, senza essere uccisi a loro volta; sottomettere e occupare militarmente i Palestinesi senza la minima resistenza, armata o meno. Vogliono imprigionare migliaia di Palestinesi senza la minima protesta o anche la più elementare messa in discussione del sistema giudiziario militare di Israele. Eppure queste fantasie coloniali, che hanno soddisfatto e guidato il pensiero dei successivi leader sionisti e israeliani a partire da Jabotinsky, funzionano solo in teoria.

Di volta in volta, la resistenza palestinese si è presa gioco dei miti sulla sicurezza di Israele. I gruppi di resistenza a Gaza sono cresciuti in modo esponenziale nelle loro capacità, sia nell’impedire all’esercito israeliano di entrare e mantenere posizioni nella Striscia di Gaza, sia nel colpire città e paesi israeliani. L’efficacia di Israele nel vincere le guerre e nel mantenere le sue conquiste è stata fortemente ostacolata a Gaza, così come i suoi sforzi sono stati ripetutamente vanificati anche in Libano, negli ultimi due decenni.

Anche il sistema di difesa missilistico Iron Dome – un “muro di ferro” di tipo diverso – è stato un fallimento in termini di capacità di intercettare razzi palestinesi fabbricati in maniera grossolana. Il professor Theodore Postol del Massachusetts Institute of Technology (MIT) ha sostenuto che la percentuale di successo del sistema è “drasticamente inferiore” rispetto a quanto riportato dal governo e dall’esercito israeliano.

Anche la “villa” israeliana è stata compromessa dall’interno quando la rivolta popolare palestinese del maggio 2021 ha dimostrato che i cittadini arabi palestinesi nativi di Israele rimangono una parte organica della più ampia comunità palestinese. La violenza inflitta dalla polizia e dai militanti di destra, che molte comunità arabe all’interno di Israele hanno dovuto sopportare per aver preso una posizione morale a sostegno dei loro fratelli nella Gerusalemme occupata, in Cisgiordania e a Gaza, ha dimostrato che la presunta “armonia” all’interno della “villa” di Barak era una costruzione fragile che si è frantumata in pochi giorni.

Ciononostante, Israele si rifiuta ancora di accettare ciò che è ovvio e ovviamente inevitabile; un paese che esiste solo grazie a “muri di ferro” e alla forza militare non potrà mai trovare la vera pace, e subirà sempre le conseguenze della violenza che infligge agli altri.

Una lettera pubblica diffusa dal capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Aviv Kochavi, il 4 settembre in risposta alle numerose critiche pubbliche per l’uccisione del cecchino, ha evidenziato ulteriormente una delle principali cause di frattura nazionale di Israele.  “La disponibilità a sostenere una perdita di vite umane è cruciale per la resilienza nazionale”, ha detto Kochavi, “e questa resilienza è vitale per la continuazione della nostra stessa esistenza”. La sua affermazione ha fatto suonare campanelli d’allarme in tutto il paese, scatenando polemiche a livello politico.

Il tutto è stato aggravato dalla notizia che sei prigionieri palestinesi erano evasi dal carcere israeliano di massima sicurezza di Gilboa, il 6 settembre. Mentre i Palestinesi celebravano l’audace fuga, Israele sprofondava in un’altra grave crisi della “sicurezza”. Questa singola azione dei combattenti palestinesi per la libertà che cercano di sfuggire al gulag israeliano, che manca dei requisiti minimi di giustizia e di stato di diritto, è stato trattato dai media israeliani come se il crollo stesso dello stato di sicurezza fosse imminente. La cattura di quattro dei fuggitivi è servita ben poco per modificare questa realtà.

Le mura di ferro di Israele stanno cadendo a pezzi e la fortezza si sta sgretolando, non solo perché i Palestinesi non smettono mai di resistere, ma anche perché la mentalità militarista con cui Israele è stato concepito, costruito e sostenuto è stata un fallimento fin dall’inizio.

Il problema di Israele è che la sua fortezza militare è stata costruita con gravi difetti di progettazione che non sono mai stati corretti e nemmeno affrontati. Nessuna nazione sulla terra può godere di sicurezza, pace e prosperità a lungo termine a spese di un’altra nazione, finché quest’ultima non cessa la sua lotta per la libertà. E’ possibile che i primi sionisti non avessero tenuto conto del fatto che la resistenza palestinese potesse durare così a lungo e che il testimone della lotta per la libertà potesse passare da una generazione all’altra. Israele deve accettare questa realtà inevitabile perché fino a quando e a meno che non abbandoni le sue infinite e folli fantasie di “sicurezza”, non potrà mai esserci una vera pace nella Palestina occupata, né per i Palestinesi occupati e oppressi, né per gli occupanti israeliani.

Traduzione per InfoPal di Aisha. T. Bravi

(Foto: Palestinesi si arrampicano in cima al controverso muro di separazione israeliano tra Bil’in, vicino a Ramallah, in Cisgiordania, e l’insediamento israeliano di Modiin Ilit, durante una manifestazione contro gli insediamenti nell’area, il 17 febbraio 2017 [ABBAS MOMANI/AFP via Getty Images]).