Detenzione fino alla morte.

Detenzione fino alla morte

Amira Hass- Haaretz, 6 dicembre 2006

www.haaretz.co.il/hasite/spages/797353.html

 

A qualche decina di chilometri dalla casa della famiglia del soldato Gilad Shalit, vive, a Nablus, la famiglia di un prigioniero palestinese, Saïd Al-Atabeh, e anch’essa segue attentamente ogni elemento informativo sullo stato dei negoziati per la liberazione di Shalit. Anch’essa oscilla tra la speranza che suo figlio sia liberato e  l’inquietudine e le apprensioni.

Al-Atabeh è il più vecchio prigioniero palestinese detenuto in Israele: dal 1977. Era stato condannato all’ergastolo per essere stato a capo di una cellula armata del Fronte Democratico (FDLP): uno dei suoi membri aveva piazzato molte bombe che erano esplose. 33 persone erano rimaste ferite e una era morta. Colui che aveva posto le bombe, anch’egli condannato all’ergastolo, è stato liberato nel quadro dello scambio di prigioniero del 1985. La sorte cieca ha deciso che Al-Atabeh rimanesse in carcere perché, all’ultimo momento, Israele ha rifiutato di liberare tutti i prigionieri condannati all’ergastolo. I responsabili militari e politici di Al-Atabeh – Mahmud Nofal e Yasser Abed Rabbo – sono rientrati nel paese con la firma dell’accordo di Oslo e sono noti per il loro appoggio fedele all’accordo di pace con Israele. E’ con loro che Al-Atabeh ha lasciato il Fronte Democratico per raggiungere l’Unione Democratica Palestinese (FIDA).

Al-Atabeh è detenuto sul territorio israeliano, nella prigione di Ashkelon, e questo mentre il diritto internazionale proibisce la detenzione di persone appartenenti al popolo occupato sul territorio del paese occupante. Come gli altri prigionieri palestinesi, è detenuto secondo il diritto comune e non è riconosciuto come prigioniero di guerra. Ma lui e i suoi amici non godono dei diritti dei prigionieri comuni, come il diritto fondamentale alle visite dei familiari. La madre di Al-Atabeh lo ha visitato per l’ultima volta un anno fa, dopo non averlo visto per 5 anni e mezzo.

Per circa 3 anni, le autorità militari non hanno autorizzato gli abitanti della Cisgiordania, in particolare quelli del nord, a visitare i loro parenti incarcerati. Ancor oggi, le visite delle famiglie sono associate a numerosi tormenti e ad arbitrari ostacoli «securitari» (anche la madre, che vede poco e si sposta con fatica, è stata definita, a un certo momento, come «impedita per ragioni di sicurezza»). La sorella di Al-Atabeh è stata autorizzata a visitarlo per la prima volta dopo 7 anni, ma le autorità negano il diritto di visita ai suoi giovani nipoti: proibiscono ai membri della famiglia che non sono di primo grado (e agli amici) di visitare i prigionieri palestinesi. E’ anche proibito ai prigionieri palestinesi di usare il telefono pubblico, cosicché la loro pena include un’interruzione, crudele e prolungata, dei rapporti con la loro famiglia.

E’ quindi desolante che quando si parla da noi della crudeltà dei rapitori dei soldati Shalit, Eldad Regev e Ehud Goldwasser – che non sono nemmeno autorizzati a dare un segno di vita ai loro genitori – non si parli  della crudeltà manifestata da anni dalle autorità delle nostre prigioni, del nostro esercito, nei confronti di migliaia di Palestinesi e delle loro famiglie.

E’ desolante che, anche ora, mentre si riparla dei prigionieri palestinesi, nella prospettiva di uno scambio, si faccia così poco menzione della questione dei circa 400 veterani tra loro, imprigionati prima della firma dell’accordo di Oslo, 78 dei quali condannati all’ergastolo. Contrariamente ai prigionieri comuni condannati all’ergastolo per omicidio, che generalmente sono liberati dopo aver fissato la loro pena a 30 anni e una riduzione ad un terzo per buona condotta, la detenzione a vita per i Palestinesi è spesso una detenzione fino alla morte.

Il rifiuto di Israele di liberare, nel quadro di Oslo, i Palestinesi condannati per aver ucciso o ferito degli Ebrei è uno dei fattori che hanno indebolito la posizione del partito al potere – Fatah – agli occhi del suo popolo. Questo rifiuto ha fatto vedere gli alti responsabili dell’Autorità Palestinese – alcuni dei quali avevano ordinato le azioni per cui i loro militanti e subordinati sono stati imprigionati – come coloro che abbandonano dei feriti sul fronte. Questo rifiuto è servito come arma efficace nelle mani di chi si opponeva agli accordi, in particolare Hamas, che dichiarava che, come l’espropriazione delle terre e la costruzione delle colonie, la non liberazione dei veterani tra i prigionieri dimostrava che Israele non pensava alla riconciliazione. 

E’ desolante che si rifiuti, ancor oggi, in Israele, di discutere sulla natura della detenzione dei Palestinesi come componente dell’occupazione dei Territori palestinesi e della lotta che scatena. Per natura, l’occupazione colpisce i civili, nega i loro diritti giungendo ad attentare al loro diritto alla vita. Ma la macchina dell’occupazione si arroga anche il diritto di decidere che, chi si oppone ad essa, è un criminale. Non è evidentemente un fenomeno specifico di Israele: gli Inglesi, i Bianchi del Sudafrica, i Francesi, anche loro hanno presentato chi agiva nel movimento di resistenza contro il potere da loro imposto, come dei terroristi sanguinari. Anche loro hanno avuto delle difficoltà a  comprendere l’argomento che questi stessi criminali, che avevano le mani insanguinate (dei combattenti per la libertà, secondo l’altra versione), meritavano di vivere liberi esattamente come i soldati e i poliziotti che, su ordine del paese dominante, uccidevano e ferivano civili nella popolazione dominata.

E’ desolante che siano la tragedia e il dolore della famiglia Shalit a poter aiutare Israele a superare il suo spirito di vendetta e a liberare Al-Atabeh e i suoi amici prima che entrino nel loro quarto decennio di pena  carceraria.

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