Gaza: disgusto

Gaza: Disgusto

 

Di Gianluca Solera (*)

 

Quando lo zio di mia moglie arriva alla cena famigliare post-natalizia, porta la kefiah che le aveva personalmente regalato Yasser Arafat durante una visita della delegazione del parlamento federale brasiliano, di cui faceva parte. È lui che mi informa delle bombe su Gaza, ma io non ci credo, sono passate meno di quarantott’ore dal giorno del Natale, non è possibile! Partiti gli ospiti, consulto Internet e devo invece constatare l’orrore della portata dell’attacco. Poi, sono punito dal mio cinismo: passo oltre, cerco le dichiarazioni politiche, e queste mi daranno motivi di profonda nausea ed incurabile disgusto.

 

Sul sito di repubblica.it veniva riportata una dichiarazione del Ministro Frattini che diceva che Hamas è un’organizzazione terroristica ed “in quelle ore lo stava proprio dimostrando”. Forse si riferiva alla rottura della tregua. Comunque, niente di più, non una sola parola di sconforto per le vittime palestinesi che già raggiungevano il centinaio.

 

Il Ministro Frattini deve essersi anche molto infastidito al dover partecipare ad una riunione straordinaria UE a Parigi su Gaza il 29 dicembre, due giorni prima di San Silvestro. D’altronde è comprensibile, la vita di un politico è dura, deve essere sempre disponibile, viaggiare molto, occuparsi di affari pubblici con senso di responsabilità e sapere come vanno le cose nel mondo. Mi spiace, Ministro, che Hamas le abbia guastato il fine d’anno.

Gibran Khalil Gibran diceva che siamo padroni delle parole che non proferiamo e prigionieri di quelle che diciamo. Questo vale in particolar modo per un uomo che rappresenta lo Stato; l’unico modo nel quale il Ministro Frattini ha saputo interpretato questo detto è stato quello di non dire niente di coraggiosamente onesto.

 

Haaretz riportava invece le dichiarazioni del Ministro Livni che sottolineava come “i valori di Israele siano completamente diversi da quelli di Hamas; Hamas mira a colpire civili innocenti, scuole ed asili, mentre Israele si accanisce sui terroristi”. Forse ha ragione. Eppure, mi ricordo ancora di foto dell’estate del 2006 pubblicate sulla stampa tedesca, che mostravano bambini israeliani che scrivevano parole di morte sui missili della Tsahal destinati ai loro coetanei libanesi. I bambini non scrivono sui missili tanto per scrivere, scrivono quando un adulto chiede loro di scrivere. Forse il Ministro Livni intendeva dire che le quattrocento vittime cadute sotto le bombe all’ora in cui sto scrivendo fossero dei terroristi; ma se fosse veramente così, dovrebbe fuggire in incognito dal suo paese per salvare l’anima e le bisacce, se i suoi concittadini in un rigurgito di lucidità si rendessero conto che un loro ministro è riuscito a trasformare un popolo di perdenti come quello palestinese in una minaccia per lo Stato che lei rappresenta.

 

I miei amici Yousri Darwish e Maher Issa, che dirigono il laicissimo e indipendente General Union for Cultural Centers che  raggruppa 34 centri culturali della Striscia di Gaza, mi hanno scritto per email che i loro uffici sono stati danneggiati dai bombardamenti, poiché l’aviazione israeliana ha colpito un commissariato di polizia sito sul lato opposto della via. Yousri e Maher stavano traslocando il materiale in un altro ufficio; grazie a Dio, loro sono vivi. Dell’Università Islamica non so cosa ancora sia rimasto in piedi; l’avevo visitata con il direttore della Fondazione Anna Lindh in settembre; forse il rettore e gli altri dirigenti sono feriti, forse alcuni di loro sono morti. Forse il centro informatico per studenti non-vedenti finanziato dai quaccheri americani è andato in fumo, forse il teatro od i dipartimenti costruiti anche con finanziamenti giapponesi sono stati sventrati: non ho ancora avuto il tempo di raccogliere informazioni. Il sapore acido del disgusto delle dichiarazioni degli uomini pubblici mi è ancora forte in bocca. Perché tanta superbia?

 

Il quotidiano portoghese Público riportava ieri un lungo dossier sui cinquant’anni della rivoluzione cubana. Le foto di Guevara eternamente giovane mi hanno riportato alla memoria alcuni passi, che non so più in quali suoi scritti avevo sottolineato. Quando sedeva negli uffici ministeriali all’Avana, passava almeno un giorno della settimana a lavorare nelle fabbriche e sui campi. Nel suo massimalismo idealistico, in fondo portava alle sue estreme conseguenze un principio semplice: non puoi capire quello di cui parli o legiferi se non lo sperimenti o non lo condividi con chi applica i tuoi dettami.

Ogni volta che sento un uomo esposto pubblicamente sputare sentenze, penso a Gaza. E se il Ministro Frattini si recasse a Gaza e condividesse qualche giorno di lavoro degli organismi di assistenza umanitaria delle Nazioni Unite, o delle organizzazioni non governative italiane? E se il Ministro Livni visitasse i cantieri del Muro in Cisgiordania e dialogasse con le associazioni dei diritti umani israeliane che operano nei campi profughi palestinesi? Direbbero ancora le stesse cose?

 

Ancora a settembre, nella Striscia venti litri di benzina costavano ad un privato 450 shekel (94 €). Il mio amico Maher usava una bombola a gas da cucina per fare andare la sua auto: l’impianto di alimentazione era assai rudimentale. I ruderi della zona industriale mista di Erez distrutta dagli israeliani, simbolo del fallimento di Oslo, venivano riciclati per produrre cemento, anch’esso bene ormai raro. Sulla spiaggia, i pescatori tiravano su con reti gettate sottocosta pesciolini striminziti, quei pochi che ancora rimanevano intrappolati. I negozi sulla Omar al Mukhtar, il maggiore boulevard di Gaza che porta a mare, erano quasi tutti chiusi. Tutti questo già prima di questi maledetti botti di fine d’anno. È questa vita? Senza libertà in una prigione a cielo aperto, costretti ad una torturante e prolungata penuria di beni di prima necessità? È questa vita? Una delle condizioni accordate dalle parti, Hamas e Israele, in cambio del cessate il fuoco semestrale scaduto due settimane fa non era quella di levare l’embargo economico e sociale su Gaza? Ed il cessate il fuoco non era già stato violato il 4 novembre da una operazione israeliana volta a distruggere dei tunnel, e che uccise sei militanti palestinesi?

Queste cose su questo lato del Mediterraneo le devi leggere sul Financial Times o sui giornali portoghesi. Ancora quel sapore di disgusto mi prende la gola.

 

Abbiamo ancora la forza di usare la ragione e di appellarci al diritto alla giustizia ed all’autodeterminazione senza guardare al feudo politico od alla razza a cui gli esseri umani appartengono? Abbiamo ancora la forza di guardare alla storia con distacco e circoscrivere le ragioni del disastro? Quando presento il mio libro in giro per l’Italia, uso talvolta una contorta metafora. Un israeliano si siede su di un palestinese, che gli fa da sgabello. Il palestinese ogni tanto soffre di dolori di artrite e si divincola tentando di alleggerirsi dal peso del giogo israeliano; l’israeliano traballa e si lamenta dei continui sussulti del palestinese che mettono a repentaglio la sua stabilità, accusandolo di voler male di lui.

 

Israele sta seduto sulla Palestina come su uno sgabello, e non sa riconoscerne il diritto alla libertà, all’autodeterminazione ed alla dignità; semplicemente lo ignora. Per questo, tutto quello che ne consegue diventa la causa e non la conseguenza di una pace impossibile. Ma non c’è pace senza giustizia. Non c’è pace senza memoria, memoria di un popolo – sgabello, i nomi dei cui morti ammazzati non vengono neanche riportati sui media della potenza occupante: Suddeutsche Zeitung riportava ieri che i telegiornali israeliani, che durano in questi giorni più di un’ora, non dedicano più di due o tre minuti a morte e distruzione nella Striscia.

 

Israele è un paese talmente imbevuto di memoria che non ha posto per un’avvenire che fa la pace con il passato; i suoi neuroni sono troppo consunti, anche dio Yahvé è troppo invecchiato per pensare, non sa più liberarsi dal suo ruolo di dio degli eserciti. L’operazione “Piombo fuso” è stata lanciata allo scadere di un Shabbat , sabato pomeriggio 27 dicembre. Sto immaginando quei generali maturi e quei giovani piloti pregare il loro dio, prima di dare gli ordini di attacco e di salire sui loro caccia. Una generazione persa, senza ideali universali, per questo estremamente pericolosa. Gli adolescenti della Jihad ammazzano per disperazione, i ragazzi della Tsahal per idolatria. Questo è quello che succede, in una regione senza più valori, né sogni che non siano eccitati dalla bruta logica del razzismo o dell’ideologismo, dove generali usano le armi tecnologicamente più sofisticate al mondo per massacrare artigiani di bombe rudimentali, che vivacchiano dentro quartieri angusti. Che eroismo! Se questi sono i comandamenti che restano al patriottismo sionista, il futuro del paese è molto grigio. Fumo grigio su Gaza, grigiore dei politici europei. Disgusto.

 

Come mi manca lo zatar, quel suo sapore dolciastro ed amaro allo stesso tempo.

Il mio amico libanese Bernard Khoury mi ha detto un giorno che da bambino sua madre gli dava lo zatar per rafforzargli la memoria nei periodi di esami scolastici.

Ora che hanno sradicato anche gli olivi, forse l’ultima risorsa di un qualche interesse commerciale che resta ai palestinesi è questa, la spezia dello zatar. Israeliani ed europei ne hanno tanto bisogno.

 

Gianluca Solera,

(*) autore di Muri, lacrime e zatar: Storie di vita e voci dalla Palestina.

 

1 gennaio 2009

 

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