
Un esempio di ciò si è avuto in una casetta sulle colline di Gerusalemme est, dove sono stato testimone di un microcosmo in cui un popolo viene annientato a fuoco lento. Nessun americano che segua i giornali istituzionali o che guardi i notiziari convenzionali può avere idea di ciò che sta succedendo. Ma vedere i fatti svolgersi davanti ai propri occhi non può non far riflettere sul crimine enorme perpetrato con le tasse pagate dal popolo americano e con l’aiuto diplomatico.
Ho passato una settimana dormendo sul pavimento della famiglia Hanoun – marito, moglie e tre bambini, tutti palestinesi. Ero lì con l’International solidarity movement (Ism) – un coraggioso collettivo di attivisti internazionali che cerca di aiutare i palestinesi che resistono con la non violenza all’oppressione israeliana.
Ma nel periodo in cui mi trovavo lì l’argomento più pressante era lo sforzo compiuto da una compagnia di coloni israeliani volto a ripulire Gerusalemme est dalla sua popolazione araba, specificatamente, in quel periodo, del quartiere di Sheikh Jarrah, che si trova in una bella valle rivolta verso Betlemme. Anche degli attivisti di lungo corso dormivano lì, pronti a documentare ciò che tutti si aspettavano essere uno sfratto imminente. Alcuni mesi più tardi, alle 5.30 del mattino, la polizia di frontiera israeliana arrivò per sfrattare con la forza la famiglia Hanoun (talmente con la forza che si è dovuto portare all’ospedale il figlio Rami). Anche gli attivisti vennero sfrattati, e stessa sorte subirono i manifestanti che si riversarono a protestare in strada. Agli Hanoun venne offerta una tenda dalla Croce rossa. Fu il culmine di un programma decennale di intimidazioni e soprusi subiti dalla comunità di Sheikh Jarrah, che distrusse vite per placare il tipo più marcio di fanatismo religioso.
Fu strano arrivare a Tunisi e ascoltare racconti di repressione e abusi polizieschi del periodo di Ben Ali. Non ne avevo mai sentito parlare. Prima che questo despota appoggiato da Francia e Stati Uniti venisse rovesciato, nessuno in Occidente sembrava preoccuparsi di far sapere che stavamo sostenendo uno stato di polizia in una delle destinazioni turistiche più popolari della Gran Bretagna. Quando nel 1987 Ben Ali venne al potere con un colpo di stato, gli Usa fornirono aiuti militari per 349 milioni di dollari. Il tiranno venne istruito all’ex scuola dei servizi dell’esercito americano a Fort Holabird, nel Maryland, come molti altri mostri di altre parti del mondo. Ma il passo successivo della connivenza occidentale nella sottomissione del popolo tunisino è stata la paura mediatica e politica diffusa riguardo al partito democraticamente eletto An-Nahda, che era un partito islamista. Il percorso che passa per l’armare attivamente un dittatore «cleptocratico» per giungere a spingere i tunisini ad appoggiare i «valori occidentali» è certamente familiare.
Franz Fanon scrisse ne «I dannati della terra»: «Appena il nativo inizia a spingere sul proprio equilibrio e a creare ansia nel colonizzatore, egli viene affidato ad anime benintenzionate che… gli indicano le specificità e il benessere dei valori occidentali».
Ogni tunisino ragionevole ovviamente è pronto a constatare che il principale valore occidentale nel proprio paese consiste nell’appoggiare i dittatori. Inizialmente, quando la gente veniva colpita dai cecchini nelle strade di Tunisi, Hillary Clinton – allora Segretario di Stato – disse che gli Usa «non volevano schierarsi» ed espresse preoccupazione per l’effetto di «agitazione e instabilità» sulle relazioni tra Usa e Tunisia. Alla fine ci furono più di 200 vittime.
Dopo la vittoria della rivoluzione, Clinton e il presidente francese Sarkozy elogiarono il «progresso» nel paese, esprimendo altresì preoccupazione per l’eventuale imposizione, da parte di An-Nahda, di un dittatore in stile iraniano sul popolo tunisino (a loro non sarebbe interessato se la dittatura fosse stata in stile Pinochet).
Gli eventi si svilupparono secondo il tipico modus operandi imperiale statunitense durante una rivolta popolare contro un dittatore satrapo.
Funziona così: viene dimostrata pubblica ambivalenza per le proteste e viene fornito allo stesso tempo appoggio pubblico al tiranno quando non è chiaro se la rivolta avrà successo. Poi, quando si capisce che il tiranno non sarà in grado di resistere, si passa all’appoggio pubblico per la rivolta, e contemporaneamente all’aiuto per lo stesso regime privato delle figure ormai screditate. Un tale metodo ha funzionato in Egitto: gli egiziani, da tempo sofferenti, ora hanno il mubarakismo senza Mubarak. Per la Tunisia è diverso.
Come direbbe Fanon, quelli che erano ultimi ora sono primi, mentre chi era primo ora è ultimo (o in esilio in Arabia Saudita nel caso di Ben Ali). La paura di An-Nahda era fuori luogo, e basata sul desiderio occidentale di mantenere uno stabile controllo. C’è una miriade di chiare differenze tra la Tunisia e l’Iran del 1979, anno in cui la rivoluzione rovesciò un altro tiranno torturatore, appoggiato dall’Occidente, lo Scià. Intanto An-Nahda aveva formato una coalizione che comprendeva i socialisti secolari e i democratici secolari, per formare il governo. Il presidente, Moncef Marzouki, è un attivista secolare per i diritti umani che ha passato decenni in clandestinità a combattere le atrocità appoggiate dagli Stati Uniti contro i dissidenti in Tunisia.
Poi, la società civile tunisina è impegnata in un processo di continua crescita. Uno dei modelli retrogradi, che si nota in un Medio Oriente punteggiato di dittature appoggiate dagli Stati Uniti, ci indica che l’islamismo è spesso l’unico modo per esprimere malcontento per lo stato di cose attuale. Lo spazio per i movimenti laici di sinistra è stato schiacciato da quando il panarabismo nasseriano in Egitto ha preoccupato abbastanza gli Usa da attuare l’estinzione della sinistra in tutta la regione (con l’aiuto di Israele, timoroso dell’efficacia del nazionalismo secolare di Fatah nei Territori occupati). Partito Ben Ali, il coperchio del calderone è stato tolto. Era possibile per i giovani – anzi, per tutti – respirare, c’erano opportunità di occuparsi liberamente di politica e di pensare fuori dal coro.
Ora, fuori dal coro il panorama è più ampio dell’islamismo. Ci vorrà tempo – forse un paio di generazioni – ma la sinistra laica ora può crescere e diventerà senza dubbio più significativa. Molte delle rivoluzioni della Primavera araba sono state guidate dalla giovane sinistra secolare informatizzata – particolarmente in Tunisia e in Egitto, con i loro vasti movimenti dei lavoratori. Al contrario, gli islamisti – che in vario modo avevano una relazione simbiotica con le dittature appoggiate dagli Usa con cui erano in guerra – diventeranno via via più irrilevanti con lo svanire di questi stati di polizia. Avranno meno presa e le loro politiche affronteranno la notevole prova dell’autorità.
Terzo, l’esercitò in Tunisia si è comportato con nobiltà, diversamente da come ha agito l’esercito egiziano. Ben Ali è fuggito in seguito al rifiuto dell’esercito di ammazzare il proprio popolo, rendendosi molto popolare nel paese. C’è poco da temere che l’esercito attui un golpe contro la democrazia nata dalla Rivoluzione dei gelsomini. Il ritornello che si è sentito spesso a Tunisi è: «Loro stanno con il popolo». E’ comprensibile: senza di loro Ben Ali potrebbe essere ancora al suo posto, e un fiume di sangue avrebbe potuto inondare il viale Habib Bourgiba. All’Opium bar Mustafa mi ha detto di aver votato per il Cpr, un partito laico di sinistra guidato da Marzouki, poiché egli pensa che il suo programma sia vantaggioso per l’economia e per le donne. Ma egli, mi ha detto, non teme An-Nahda: «Mi piacciono», ha aggiunto.
Kamal, invece, ha votato An-Nahda perché egli pensa che siano «Brave persone… Non sono estremi. I salafiti sono pazzi, ma non sono molto importanti qui».
Chiaramente, a spaventare l’Occidente più di qualsiasi islamista è una sinistra laica rivoluzionaria opposta all’ordine neo-liberista da noi imposto negli ultimi 40 anni. In conclusione, ciò che farebbe male sarebbe questo. Gli stessi islamisti hanno spesso accolto ben volentieri istituzioni di Bretton Woods e l’ordine economico neo-liberalista. Con i soliti sospetti ora occupati a cercare di imporre ordini in Tunisia, era quasi impossibile per i partiti al governo cercare qualcosa di diverso (anche volendolo). Per ora la Tunisia ha seguito i dettami di Bretton Woods e degli Stati Uniti alla lettera, privatizzando molti suoi beni statali (facendo gonfiare il portafoglio di Ben Ali) e svuotando le istituzioni pubbliche e i finanziamenti per carburanti e cibo.
In molti ora paragonano An-Nahda al Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) in Turchia, e non è un segreto che l’Akp è stato un sogno per gli affari e i capitali internazionali. Da quando è al potere l’Akp ha privatizzato un mucchio di beni pubblici, compresa la Tekel, la compagnia statale del tabacco e dell’alcol, che l’Akp concordò di vendere nel pacchetto degli aggiustamenti strutturali collegati a un accordo di prestito per 16 milioni di dollari con il Fondo monetario internazionale. Prima che Erdogan iniziasse a comportarsi come un nuovo sultano, la stampa affaristica andava a braccetto con l’Akp. Per questo motivo mi sono preoccupato per la Tunisia – non per gli islamisti, bensì per i neo-liberali. Come pensa Fanon: «L’apoteosi dell’indipendenza è diventata la maledizione dell’indipendenza, e il potere coloniale, tramite le immense risorse della coercizione, condanna la giovane nazione alla regressione». Ovvero, in altre parole, imbocca l’indipendenza e muori di fame.
Gli Stati Uniti e i loro alleati non staranno mai in silenzio, cercheranno sempre di intervenire. Ma la domanda per i rivoluzionari è: li lascerete intervenire? Vi organizzerete? E’ sempre stato così nella storia dei racket dei dittatori locali – dallo Scià in Iran a Suharto in Indonesia. Non importa se si è clienti degli Stati Uniti, il paese più potente nella storia mondiale, se si ha una rivoluzione gli americani non possono fare nulla – la gente crea un nuovo immaginario. Nawal El-Saadawi, la scrittrice femminista più famosa del Medio Oriente, è stata fortemente coinvolta nella rivoluzione in Egitto. Per lei si è trattato del culmine di una vita dedicata al rovesciamento di dittature nella sua patria. Sono stato a trovarla nel suo appartamento con una camera da letto al tredicesimo piano di un condominio nel quartiere di Shoubra, al Cairo, sulla riva del Nilo. «Tutti i paesi del Golfo sono colonizzati dagli Stati Uniti», ha detto El-Saadawi. «Ci siamo liberati solo della testa, ma il corpo del regime è ancora qui, nell’esercito, nell’economia, nei media, nell’istruzione, dappertutto». Lei ha dunque perso le speranze per questa grande rivoluzione? «No, no», risponde sorridente. «Sono molto ottimista, non perdo mai le mie speranze. La speranza è potere, la speranza mi fa sorridere e mi fa vivere. Sono una scrittrice, scrivo storie, ho bisogno di speranze, non posso vivere con un’attitudine tetra. Finché abbiamo gente giovane e scendiamo in piazza Tahrir, avrò speranza. Viviamo in una giungla, non in una società sana. Riguarda il potere; quando il nonno ha denaro, prestigio e potere, egli violenta la nipote. Quando la smetteremo con questa mentalità – che non è il potere a dominare, bensì la giustizia, la libertà, l’amore e l’uguaglianza – avremo la rivoluzione, come a piazza Tahrir, e sradicheremo il potere».
Matt Kennard è membro del Centro per il giornalismo investigativo a Londra. E’ stato reports per il Financial Times ed è l’autore di due libri, Irregular Army e Il racket, pubblicato in edizione tascabile lo scorso aprile.