Rapporto dalla Siria: da bande di fratelli a principi della guerra

The TelegraphL’Esercito siriano libero ha iniziato come semplice gruppo di combattenti contro Assad. Ruth Sherlock, da Antakya, scopre che la loro missione, ora, consiste nel fare guadagni milionari per mezzo della corruzione e l’estorsione

Il comandante dell’Esercito siriano libero (Esl) si appoggiò alla portiera del suo fuoristrada a trazione integrale Bmw x5 con, i vetri oscurati, e guardò i suoi uomini guadare il fiume al confine siriano, spostando barili di petrolio di contrabbando destinati alla Turchia.

Il fruscio delle banconote americane appena ricevute in cambio lo fece sentire improvvisamente orgoglioso di ciò che era diventato.

In soli tre anni, da contadino si era trasformato in signore della guerra: da venditore di sigarette sulle strade di villaggi di provincia, era diventato governatore provinciale, con un gruppo di ribelli a presidio dei propri posti di blocco, a controllare le rotte del redditizio contrabbando.

L’Esl, un’accozzaglia di gruppi di ribelli moderatamente islamici e debolmente coordinati, è stato a lungo al centro delle speranze dell’Occidente nello spodestare il presidente Bashar al-Assad.

Ma nella Siria settentrionale l’Esl è diventato ora un’impresa in gran parte criminale, i cui comandanti sono più interessati ai profitti ottenuti con la corruzione, i rapimenti e i furti, che a combattere il regime, secondo quanto riportato dal Sunday Telegraph in una serie di interviste.

“Ci sono molti leader, nella rivoluzione, che non vogliono la caduta del regime perché a loro il conflitto piace”, ha dichiarato Ahmad al-Knaitry, comandante della brigata moderata Omar Mokhtar nella zona di Jebel az-Zawiya, a sud-ovest della città di Idlib. “Sono diventati principi della guerra; spendono milioni di dollari, vivono in regge e possiedono automobili costose”.

All’inizio del conflitto siriano, nei caffé di Antakya, polverosa cittadina turca al confine con la Siria, si discuteva alacremente sulla rivoluzione. Si vedevano spesso i comandanti ribelli studiare le mappe e discutere sui prossimi obiettivi governativi. Quasi tre anni dopo, la lotta contro Bashar al-Assad è ormai dimenticata, e le discussioni ruotano attorno alla paura generata dal crescente potere del gruppo siriano di al-Qa’ida, dallo Stato islamico dell’Iraq e del levante e dalla criminalità e la corruzione che attanagliano le aree controllate dai ribelli.

Il nord della Siria è stato diviso in feudi gestiti da gruppi ribelli rivali.

Al di fuori della legalità, città, cittadine e villaggi sono sottoposti al controllo di un diverso comandante. La provincia è puntellata da una miriade di posti di blocco: ce ne sono 34 circa nella breve strada che dal confine conduce ad Aleppo. Vige la legge del più forte, gli uomini si contendono il controllo del territorio, del denaro, delle armi e delle rotte del contrabbando. Come dicono sconsolati i civili, si tratta di una gara per il bottino di guerra.

Un abitante di Aleppo, che lavora per un ente di beneficenza nella distribuzione di alimenti nella zona, racconta: “Era sicuro spostarsi attorno ad Aleppo e alla provincia di Idlib. Ora ho paura ad allontanarmi da casa, si rischia di essere derubati, rapiti, picchiati. Dipende tutto dallo stato d’animo degli uomini addetti ai posti di blocco che si devono attraversare”.

Il contrabbando di carburante è diventato un grosso affare: contrabbandieri e combattenti si riforniscono presso le zone controllate dai ribelli nel nord, lo raffinano grezzamente e lo fanno passare attraverso il poroso confine con la Turchia, attraverso vie illegali. Alcune brigate di ribelli hanno completamente abbandonato la lotta contro il regime, per dedicarsi a tempo pieno ad attività che vanno a riempire le loro tasche. Altri utilizzano i profitti per finanziare le proprie operazioni militari, spiega la gente del posto.

Alcuni gruppi di combattenti trasferiscono il petrolio grezzo dai campi alle raffinerie, e poi verso il confine; altri hanno semplicemente istituito posti di blocco al fine di imporre tributi ai contrabbandieri.

Racconta Ahmed, un attivista dell’opposizione che vive a Raqqa, vicino ai depositi petroliferi del Paese: “Tre anni fa i ribelli volevano davvero combattere il regime. Ma poi l’Esl ha iniziato a controllare i confini e il carburante, e si è passati dalla rivoluzione alla battaglia per il petrolio. Conosco dei gruppi di ribelli di Aleppo e di Deir Ezzour, e anche di Homs, nel sud del Paese, che sono venuti qui per prendersi parte del bottino”.

L’Occidente ha visto a lungo nell’Esl il suo miglior alleato nella mischia dei gruppi combattenti in Siria. I diplomatici occidentali hanno lavorato a lungo per promuovere l’idea di una struttura di comando e di controllo nella quale un “Consiglio militare supremo” provvede ai rifornimenti e agli ordini per i gruppi sul terreno.

La Cia ha fatto parte di una “sala operativa” progettata per garantire le armi fornite dagli sponsor del Golfo e fatte passare attraverso il territorio turco, destinate ai combattenti affiliati all’Esl amico dell’Occidente. Gli Stati Uniti hanno addirittura offerto aiuti militari non letali confezionati in forma di migliaia di pacchi alimentari.

Ma la concorrenza tra i principali sostenitori delegati dell’Esl, il Qatar e l’Arabia Saudita, e la mancanza di un reale impegno militare dalle potenze occidentali unite alle croniche lotte intestine all’Esl ne hanno ben presto causato il declino, prima ancora che si fosse propriamente formato. In mancanza di appoggio finanziario e militare, o di una chiara strategia, i gruppi del nord iniziarono a sfaldarsi. Uomini e armamenti si spostarono nei meglio organizzati gruppi islamisti, permettendo al al-Qa’ida di rafforzare la sua presenza in Siria.

Mahmoud, un ribelle combattente di Jesr as-Shugour, Idlib, ha raccontato dettagliatamente il declino della propria unità combattente: è una storia che si è ripetuta spesso nel nord della Siria. “Ci unimmo alla rivoluzione quando gli uomini possedevano solo fucili da caccia per difendere i loro villaggi. Nei primi mesi liberammo la nostra città, conquistammo territori ed eravamo contenti, avevamo la possibilità di sconfiggere il regime. Stavamo conquistando la libertà per la nostra gente, sistemando bombe artigianali lungo le strade per bloccare i mezzi corazzati del regime. Eravamo un gruppo di fratelli, non c’erano ufficiali e soldati, leader con le loro truppe. Eravamo amici”.

Ad aprile, quest’anno, l’atmosfera ha iniziato a mutare. “Cominciarono ad arrivare persone che non stavano con la rivoluzione: erano interessati solo a vendere armi”, continua Mahmoud. “Si definivano Esercito siriano libero, ma non avevano alcun interesse a combattere Assad. Sequestrarono le aree già liberate dal regime, innalzarono posti di blocco e cominciarono a chiedere denaro a chi passava. Alcuni degli uomini della mia brigata iniziarono a lavorare per loro”.

Mahmoud racconta che un ufficiale, Ahmed Hamis, era stato rappresentante militare nel Consiglio militare supremo per la zona di Jesr as-Shugour nella provincia di Idleb, e aveva combattuto onestamente contro il regime: “Poi, uno sponsor straniero iniziò ad aiutarlo con denaro e armi. Ben presto se ne andò per formare una piccola banda; ora ha molte armi, ma non ha più svolto alcuna azione contro il regime, non ne ha il tempo. Ora contrabbanda gasolio e organizza i posti di blocco per estorcere denaro. Si occupa anche di rapimenti: se catturano un soldato governativo poi chiedono il riscatto alla sua famiglia”.

Con scarso sostegno da parte del Consiglio militare supremo, il gruppo di Mahmoud iniziò a vacillare. “Siccome non rubavamo, non avevamo denaro per essere operativi. Molti di noi hanno dovuto lasciare per cercarsi un lavoro, eravamo deboli, alla fine ci siamo dovuti sciogliere”.

“Il mio comandante fu tra i primi a lasciare l’ esercito siriano. Ora non abbiamo più missioni, ne’ soldati per combattere. Il mio comandante è disperato, continua a chiedere agli uomini di tornare a combattere”.

Almeno l’85% dei gruppi combattenti che Mahmoud conosceva ha iniziato a contrabbandare petrolio e automobili. Molti avevano anche iniziato a metter mano alle finanze fornite dagli sponsor per la guerra ad Assad. I gruppi ribelli filmano le loro operazioni militari e pubblicano i video su Youtube, di modo che gli sponsor possano esaminare il loro operato. Ogni gruppo ha la propria unità di “giornalisti”, uomini che li seguono in battaglia armati di video camera.

Tornati in ufficio, editano il filmato e ci aggiungono la musica e il logo del gruppo, prima di postarlo online o di inviarlo agli sponsor come prova dell’avvenuta operazione militare per la quale essi hanno pagato.

“Spesso gli sponsor ci pagano per un’operazione specifica, così, quando la attuiamo la filmiamo per poter provare di aver utilizzato il denaro per lo scopo pattuito”, ha riferito un funzionario dei media della brigata Farouk, uno dei gruppi ribelli più conosciuti in Siria, dall’ufficio del gruppo a Reyhanli.

Ma i comandanti dell’Esl sempre più pensano al proprio tornaconto economico, pensando più a come ottenere i finanziamenti dagli sponsor che alle operazioni militari, riferiscono alcuni civili e dei comandanti ribelli.

I ribelli nella regione hanno reagito con rabbia alla battaglia di Wadi Deif, un assedio di una enorme base militare durato 6 mesi che si è concluso con la riconquista di essa da parte dei governativi.

L’assedio era diretto da Jamal Ma’rouf, ex tuttofare e tra i comandanti ribelli più potenti della provincia di Idleb, ma vi presero parte molti altri gruppi. Chi prese parte alla battaglia ha riferito al Sunday Telegraph che i loro comandanti non volevano terminare i combattimenti perché erano troppo redditizi.

Un combattente che ha preferito restare anonimo ha riferito che si trattava di “fondi versati dagli Stati del Golfo e dall’Arabia Saudita. L’assedio stesso ha fruttato denaro: i comandanti ricevevano mazzette dal regime siriano per permettere il rifornimento alimentare agli uomini del governo coinvolti sul territorio”.

Per parecchi mesi sostenitori stranieri hanno inviato denaro e armi per aiutare a porre fine alla battaglia di Wadi Deif. Come dice un ribelle, “il fatto divenne una gallina dalle uova d’oro”.

Ahmad al-Knaitry ha aggiunto: “Cerchiamo di non parlarne perché non vogliamo che la nostra gente perda le speranze. Ma sono diventanti mercanti con il sangue dei martiri”.

Improvvisamente molti dei combattenti iniziarono ad acquistare case nuove e a maneggiare denaro. Un uomo riferisce, su Jamaal Ma’rouf: “Prima della rivoluzione non possedeva nulla: ora gira sulla sua auto a prova di proiettile”.

Traduzione a cura di Stefano Di Felice