Ramallah. Il 28 settembre dell’anno 2000, l’allora leader dell’opposizione israeliana Ariel Sharon, pesantemente scortato da poliziotti e soldati, fece irruzione nel complesso della moschea di Al-Aqsa, nella Gerusalemme occupata, provocando una rivolta palestinese, quella che in seguito fu conosciuta come la Seconda Intifada o Intifada di Al-Aqsa. La rivolta durò cinque anni e portò alla morte di oltre 3.000 palestinesi.
Prima della mossa di Sharon, le tensioni erano aumentate sullo sfondo dei falliti colloqui di Camp David, quando l’allora leader palestinese Yasser Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak non riuscirono a raggiungere un accordo di pace sullo status di Gerusalemme e sul diritto al ritorno per i profughi palestinesi. Di conseguenza, la promessa del riconoscimento di uno Stato palestinese fu rinviata.
Era l’ultimo giovedì di settembre quando Sharon decise di visitare la moschea di Al-Aqsa accompagnato da poliziotti israeliani pesantemente armati. La decisione fu accolta con diffusa indignazione da parte dei palestinesi che avevano appena celebrato l’anniversario del massacro di Sabra e Shatila, per il quale Sharon era stato ritenuto responsabile di non aver fermato lo spargimento di sangue. I palestinesi erano anche profondamente frustrati per l’occupazione israeliana in corso, che, ancora una volta, i colloqui di pace non erano riusciti a risolvere.
Il venerdì successivo, e subito dopo la preghiera settimanale del venerdì, scoppiarono le proteste nella Città Vecchia di Gerusalemme. Sette palestinesi furono uccisi e circa altri 300 feriti dalle forze di occupazione. Nei giorni successivi, scoppiarono proteste di massa in Cisgiordania e Gaza, provocando una risposta violenta da parte delle forze di occupazione israeliane.
Un rapporto di Amnesty International rivelò che la maggior parte delle vittime palestinesi durante quel periodo erano civili e che l’80% delle persone uccise nel primo mese non costituivano una minaccia per la vita delle forze di occupazione israeliane.
Sabato 30 settembre, l’omicidio del dodicenne Muhammad Al-Durrah da parte delle forze di occupazione israeliane, mentre si rifugiava tra le braccia di suo padre ripreso dalle telecamere, suscitò forme di condanna in tutto il mondo.
Il video mostrava il padre e il figlio chinati dietro un pilastro di cemento mentre cercavano di scappare dai soldati israeliani che avevano aperto il fuoco. Il padre di Al-Durrah cercava di chiedere ai soldati di smettere di sparare, ma si trovò in mezzo a una grandinata di colpi di arma da fuoco israeliani che uccisero suo figlio. Il filmato è diventato iconico, rappresentando l’oppressione subita dai palestinesi.
I mesi che seguirono portarono a repressioni più violente, che causarono la morte di centinaia di palestinesi e il ferimento di migliaia.
Dopo l’elezione di Sharon alla carica di Primo Ministro, all’inizio del 2001, egli rifiutò di incontrare il defunto presidente Arafat, e tutti i tentativi diplomatici si fermarono. Nel 2002, i leader palestinesi ripeterono i loro sforzi per fermare la violenza e arrivare a un accordo di pace, appoggiando l’Iniziativa di pace araba delineata dall’Arabia Saudita, ma Israele ha ampiamente ignorato la proposta fino ad oggi.
(Fonte: Wafa).
Traduzione per InfoPal di Chiara Parisi