Sabra e Chatila, ricordano il massacro di 30 anni fa. E aspettano la visita del Papa

Di Monica Mistretta (*). Beirut. Un cancello in ferro arrugginito, due cartelloni sbiaditi con immagini crude e una grande lapide solitaria: dopo trenta anni  rimane questo a ricordo delle oltre 3.000 vittime di Sabra e Chatila, i due campi profughi palestinesi a sud di Beirut dove le milizie falangiste cristiano-maronite trucidarono indisturbate per 40 ore donne, uomini e bambini inermi. Accanto alla lapide, qualche metro più in là, c’è ancora la discarica di immondizia che fino a poco tempo fa ricopriva interamente il ‘cimitero’ di Sabra e Chatila, il luogo dove nel settembre 1982 furono bruciati in fretta e furia 1.100 cadaveri: la maggioranza palestinesi, ma anche parecchi libanesi che vivevano nei campi accanto ai profughi e nove donne ebree che avevano seguito il marito dopo l’esodo del ’48 dalla Palestina.

Qualcuno deve aver pensato di ripulire il luogo e dargli una parvenza di decoro in vista del trentesimo anniversario del massacro, il 16 settembre. Una data che molti vogliono dimenticare in Libano: i cristiani maroniti, le cui falangi furono responsabili materiali del massacro, i musulmani sciiti e sunniti in nome della concordia nazionale in un momento in cui il paese rischia di essere coinvolto nella crisi siriana e infine gli israeliani, che il giorno prima del massacro occuparono Beirut, circondarono i due campi profughi e permisero ai falangisti di entrare.

Eppure, qualcuno potrebbe avere la volontà di ricordare. È papa Benedetto XVI che sarà a Beirut dal 14 al 16 settembre, invitato nientemeno che dal patriarca maronita Bechara Rai. La coincidenza di date non è passata inosservata. Il ministro degli interni israeliano Eli Yishai ha criticato il momento della visita e ha invitato il papa a non entrare nei campi profughi di Sabra e Chatila per non fomentare l’odio verso Israele e gli ebrei. Una dichiarazione che ha fatto effetto, dal momento che Israele ha sempre negato ogni responsabilità nel massacro, a partire dalla prima inchiesta svolta dalla commissione israeliana Kahan subito dopo la strage. Il cardine della difesa fu la tesi che la mattanza non sarebbe stata visibile dal luogo dove si erano insediate le truppe israeliane: il tetto di un edificio a 200 metri dalle baracche del campo di Shatila.

Sulla visita del Papa si è espresso anche Ibrahim Mousawi, portavoce del partito sciita libanese Hizbullah, che, nel corso di una conferenza stampa con alcuni giornalisti italiani, ha dato il benvenuto al pontefice, augurandosi che la sua visita possa essere un messaggio di conciliazione in un momento delicato per gli equilibri politici e confessionali del Libano. Insomma, il patriarca maronita invita e gli sciiti di Hizbullah rispondono. E Mousawi si spinge più in là, ricordando che il muro che separava i cristiani dai musulmani durante la guerra civile non esiste più. Almeno dal 2000, quando, dopo il ritiro israeliano dal Libano, Hizbullah scelse di non vendicarsi sui cristiani per l’appoggio da loro dato all’occupazione straniera. Fino ad arrivare, nel 2006, all’accordo politico con il Movimento Patriottico Libero del generale cristiano Michel Aoun.

Oggi la guerra civile, del resto, non si rischia con i cristiani, ma tra musulmani: sciiti di Hizbullah e sostenitori del siriano Assad da un lato, sunniti e fautori dell’opposizione siriana dall’altro. Anche per questo, meglio la pace con i cristiani. E benvenuto Benedetto XVI.

Della visita del Papa si respira poco nelle strade dissestate del campo profughi di Sabra, che resiste sugli stessi luoghi di trenta anni fa. Le case grigie in cemento sono legate l’una all’altra da grovigli di fili elettrici sospesi: qui la presa a terra ha ancora da venire. Nella via principale, tra i buchi nell’asfalto, si snoda il lungo mercato all’aperto. Nei vicoli stretti le scale buie portano a stanze nude, prive delle più elementari comodità. Immagini che stridono con la Beirut elegante della ‘corniche’ e i palazzi popolari nuovi fiammanti ricostruiti da Hizbullah dopo la guerra del 2006 a sud di Beirut.

A Sabra sono cambiate poche cose dalla data del massacro. Di nuovo forse c’è la presenza di qualche bandiera nera salafita che convive accanto ai poster tutt’altro che sbiaditi dell’imperituro Arafat. Una scritta in arabo ai confini del campo ricorda: “i Fratelli Musulmani sono la soluzione” parafrasando il celebre slogan del movimento “l’islam è la soluzione”. Ma il capo della sicurezza del campo di Sabra è ancora un uomo di Fatah, il movimento laico di Arafat.

Come trenta anni fa, sono ancora una settantina le professioni che i palestinesi non possono svolgere in Libano, tra cui l’avvocato e, naturalmente, il giornalista. A questo divieto si aggiunge quello di non poter costruire nuove unità abitative, causa principale del sovraffollamento e della mancanza di strutture all’interno dei campi. La povertà è la norma: il 56% dei palestinesi è senza lavoro, oltre il 66% non riesce a comprare il minimo indispensabile per nutrirsi e vivere con dignità.

Nessuno è mai stato condannato per la strage avvenuta nelle 40 ore tra il 16 e il 18 settembre 1982 né in Libano né in Israele né in alcun tribunale internazionale. Ariel Sharon, allora ministro della difesa di Israele, fu rimosso dall’incarico, ma nominato ministro senza portafoglio. Nel 2001 fu eletto primo ministro di Israele. Il cristiano maronita Elie Hobeika, all’epoca comandante delle milizie falangiste, è morto nel gennaio del 2002 in un misterioso attentato. Poco dopo avrebbe dovuto recarsi all’Aja dove avrebbe annunciato scottanti rivelazioni sul coinvolgimento di Sharon nella strage.  Il falangista Samir Geagea è ancora oggi una delle figure di primo piano della politica libanese, in lizza per le elezioni del 2013 nello schieramento più vicino a Stati Uniti ed Europa.

A Benedetto XVI che si prepara a volare a Beirut, qualcuno vuole affidare un compito difficile: quello di mediatore nel mezzo di lotte che rischiano di far precipitare il Libano in una nuova guerra civile in cui i nemici di ieri sono gli amici di oggi. In una data, il trentesimo anniversario dal massacro di Sabra e Chatila, che è molto importante per chi nel paese cerca di conciliare almeno musulmani e cristiani. Certo, quella di Joseph Ratzinger sarebbe la prima mano non insanguinata tesa verso i Palestinesi in Libano, ma non è assolutamente detto che il Papa abbia in programma di visitare i due campi profughi.

Giovanni Paolo II, nel 1982, non riuscì ad volare a Beirut, come avrebbe desiderato: fu costretto a rinunciare per l’invasione israeliana del Libano. Benedetto XVI ha le carte in regola per farcela: con gli sciiti di Hizbullah di fatto al potere e la loro alleanza con i cristiani del generale Aoun, il terreno non è mai stato così favorevole. Quanto ai Palestinesi, possono attendere: chi ha scelto di invitare il Papa potrebbe utilizzarli come comparse ma lasciarli lontani dai giochi.

(*) Direttore Responsabile M&V. Ha visitato il Libano a maggio di quest’anno.