Pazienti abbandonati a Gaza a causa del “regime dei permessi” di Israele

E.I. Di Sarah Algherbawi. Dopo circa due mesi di coprifuoco, le autorità di Gaza hanno iniziato ad allentare le regole previste per il lockdown. I posti di blocco sono stati rimossi ed ora è possibile muoversi tra un governatorato e l’altro. Durante il giorno sembra tutto tornato alla normalità, le scuole e le università riaprono e i ristoranti e gli hotel sono operativi almeno fino alle 20, quando il coprifuoco torna in vigore.

Prima, Gaza era spettrale. Il mio quartiere, per esempio, era privo di vita e di persone dopo che un uomo, che vive nell’edificio opposto al mio, è stato trovato positivo al COVID-19.

A marzo, ho scritto un articolo in cui riflettevo sull’esperienza che stavo vivendo insieme ai miei figli dello scoppio del COVID-19, che ci ha costretti a stare a casa in quarantena.

Tuttavia, quando ho iniziato le interviste per questo articolo, mi sono resa subito conto che la mia sofferenza era stata niente rispetto a quello che avevano sofferto i genitori dei figli con necessità di trattamenti medici al di fuori di Gaza.

Alla preoccupazione sulla pandemia, e sulle conseguenti restrizioni, molti hanno dovuto fare i conti con il kafkiano labirinto che è il regime dei permessi militari israeliano. E l’attenuazione del lockdown non ha migliorato molto la loro situazione.

Nihad al-Dabba, 58 anni, proveniente dal quartiere di Shujayia, nella zona orientale della città di Gaza, non può far altro che aspettare che i suoi figli muoiano.

Due dei suoi figli soffrono di una malattia neuro-muscolare, per la quale viene utilizzata una combinazione di medicina e chirurgia, la maggior parte della quale non è disponibile a Gaza. Per tre mesi, Nihad ha cercato di trovare un modo per far sì che suo figlio Emad, di 31 anni, e sua figlia Miasar, di 38 anni, potessero recarsi all’ospedale di Hadassah a Ein Kerem, fuori Gerusalemme, per essere curati.

Hanno ricevuto la dialisi a Gaza, trattamento che mitiga i sintomi ma che potrebbe causare la morte se effettuata troppo spesso, data la debolezza di vene e nervi dei due fratelli.

I due avrebbero dovuto recarsi a Gerusalemme alla fine di maggio per farsi impiantare un tubo che avrebbe reso più sicuro il trattamento della dialisi.

Tentare ogni strada.

Gli interventi chirurgici di maggio sono stati annullati in seguito alla sospensione del 19 maggio del coordinamento civile e della sicurezza tra l’Autorità palestinese e Israele, in protesta contro i piani di Israele di annettere vaste aree della Cisgiordania occupata.

I palestinesi di Gaza, normalmente, fanno domanda per le visite mediche all’ufficio locale del comitato per gli affari civili, gestito dall’ANP di Ramallah. L’ufficio si coordina con i militari israeliani che decidono se concedere o meno un permesso.

Nihad, che ha altri tre figli tutti sani, ne ha già perso uno, Elian, morto in aprile della stessa malattia dei suoi altri due fratelli, a causa di complicazioni con il trattamento della dialisi, fornito nell’ospedale al-Shifa di Gaza.

“Ad aprile era impossibile recarsi in Israele a causa del Covid”, ha raccontato Nihad a The Electronic Intifada. “Adesso sono bloccata sempre per il COVID e perché è stato sospeso il coordinamento della sicurezza. Ho paura di perdere gli altri miei figli in qualsiasi momento”. Nihad ha provato a mettersi in contatto con le varie organizzazioni per i diritti umani di Gaza, incluso Al Mezan, il Centro palestinese per i diritti umani e la Commissione per i diritti umani. Le organizzazioni per i diritti umani di Gaza hanno avviato un metodo di coordinamento alternativo con la parte israeliana, rivolgendosi direttamente al coordinatore militare israeliano al checkpoint di Erez (Beit Hanoun, ndr).

Samir Zaqout, vicedirettore di Al Mezen, ha detto ai media locali che in questo modo, la sua e le altre organizzazioni di Gaza riescono ad ottenere l’approvazione per le visite mediche per, in media, cinque casi al giorno. Dalla firma degli accordi di Oslo nel 1993, questa è la prima volta in cui c’è stato un coordinamento diretto con la parte israeliana e un ente palestinese al di fuori dell’Autorità. Tuttavia, Zaqout ha affermato di non poter adeguatamente sostituire i meccanismi ufficiali.

“Le nostre capacità in quanto organizzazioni per la tutela dei diritti umani non possono essere comparate a quelle di un ente governativo ufficiale”, ha affermato Zaqout a E.I.. “Le comunicazioni tra enti statali sono più efficaci”.

Dall’altra parte, Nihad non è per ora riuscita ad ottenere alcun risultato e, per questo, ha contattato il Physicians for Human Rights di Israele. Tuttavia, secondo quanto affermato da Ghada Majadle del Physicians for Human Rights-Israel, l’organizzazione non sa se e quando i permessi verranno concessi.

“Al-Dabba ha inviato la richiesta per i suoi figli un po’ di tempo fa”, ha detto Majadle a E.I. “Abbiamo trasferito la sua richiesta, insieme ad altre decine, alle autorità israeliane. Purtroppo non sappiamo se otterremo i permessi. Tutto ciò che possiamo fare è aspettare”.

Majadle ha dichiarato che, prima della crisi del coronavirus, erano tra le 2.200 e le 2.500 le persone che uscivano da Gaza per andare ad Israele o in Cisgiordania per una terapia.

In aprile il numero di persone è calato drasticamente a 159, a cause delle restrizioni imposte in seguito allo scoppio della pandemia.

Ostacoli ovunque.

Nihad e suo marito Taysir, 60 anni, fanno ciò che possono per i loro figli. Perlopiù, la coppia li accompagna all’ospedale di al-Shifa tre volte a settimana.

Al-Shifa è l’ospedale principale nella Striscia di Gaza per i pazienti che necessitano del trattamento di dialisi, ed ora l’ospedale si prende cura, secondo quanto riferito dal ministro della salute di Gaza, di 820 pazienti.

Purtroppo, le restrizioni da Coronavirus hanno reso la vita di molti pazienti davvero difficile.

Con alcuni quartieri in lockdown in momenti diversi, soltanto arrivare all’ospedale è diventato difficile e doloroso per i pazienti.

I Dabbas devono spingere entrambi i figli adulti su una sedia a rotelle per circa 700 metri prima di raggiungere una strada principale dove un’ambulanza passa a prenderli.

Con una carenza di medicinali – nel complesso, il ministero della Salute di Gaza stima che gli ospedali della zona abbiano poco più della metà dei farmaci essenziali di cui hanno bisogno – ogni giorno è una sfida per la famiglia Dabbas.

È difficile spostarsi o ottenere i farmaci”, ha spiegato Taysir, che lavora come guardia notturna per un negozio del quartiere e guadagna 200 dollari al mese.

Poi c’è la costante preoccupazione per i permessi.

“A prescindere dal COVID, i miei figli sono vittime di decisioni politiche che non hanno alcun vantaggio per noi”, ha detto Taysir a E.I., riferendosi alla decisione dell’Autorità Palestinese di sospendere il coordinamento con Israele.

Akram Atallah, analista politico del quotidiano al-Ayyam, ha detto che non si aspettava che la sospensione del coordinamento della sicurezza con Israele durasse tanto a lungo, in parte a causa della situazione con i pazienti.

“Quando l’Autorità Palestinese ha preso la decisione di sospendere il coordinamento con Israele, non ha trovato un piano alternativo per tutelare le vite dei pazienti, soprattutto quelli di Gaza”.

Il commento di Atallah sulle decisioni dell’ANP è stato duro, poiché secondo lui è stata una scelta dannosa, che ha messo, e mette, a rischio la vita delle persone e “non ha portato alcun beneficio politico”.

I ritardi fatali delle terapie.

Nonostante tutte le critiche mosse contro l’ANP, la responsabilità del benessere di tutti nel territorio occupato ricade sulla potenza occupante, Israele. Questo è un tema che le organizzazioni per i diritti umani e la salute hanno ripetutamente segnalato nel corso degli ultimi mesi, poiché si teme che lo scoppio incontrollato della pandemia di coronavirus possa portare il settore sanitario di Gaza al collasso totale.

Di questo poco importa alla famiglia Dabbas; sono consapevoli, come tutti quelli che vivono a Gaza, che già quattro persone sono morte a causa di ritardi nel ricevere i permessi di viaggio.

Tra loro ci sono due bambini, tra cui Omar Yaghi, morto a giugno all’età di otto mesi, appena 72 ore prima che fosse riprogrammato un intervento chirurgico a Israele, operazione già ritardata di un mese, dopo che la sospensione del coordinamento gli aveva impedito di spostarsi a maggio.

Jivara Ghunaim, di 26 anni, si è sposato a metà aprile con Azhar, 22 anni. Dopo solo un mese, si è ammalato gravemente e, in seguito, gli è stato diagnosticato un cancro al sangue.

La famiglia ha cercato di ottenere per il figlio un permesso per cure mediche all’estero, autorizzazione che inizialmente era stata negata, poi concessa e poi ritardata. Purtroppo, il ritardo è stato troppo lungo.

Il 15 agosto Israele gli ha concesso un permesso di viaggio ma il giorno dopo essere finalmente arrivati all’ospedale Augusta Victoria, nella Gerusalemme est occupata, Jivara è morto.

“I medici ci hanno detto che era troppo tardi quando Jivara è arrivato”, ha detto Azhar a E.I.

La moglie non ha dubbi su di chi sia la colpa: “Israele e l’Autorità Palestinese lo hanno ucciso”.

La procrastinazione israeliana nel consentire ai pazienti di viaggiare da Gaza e il regime dei permessi di Israele in generale è stato a lungo motivo di critiche.

A Gaza, è vista come un’altra arma israeliana puntata alla testa delle persone.

Nel 2017, secondo l’OMS, 54 persone di Gaza sono morte a seguito del rifiuto del permesso da parte dell’esercito israeliano di viaggiare per le cure mediche.

In un periodo di 10 anni, dal 2008 al 2018, Israele ha impedito a oltre 51.000 persone di Gaza di recarsi in Israele o in Cisgiordania per cure mediche, secondo le statistiche compilate dal Centro palestinese per i diritti umani.

Una debole speranza.

Nell’ultima telefonata a Nihad, ho sentito che la sua voce era diversa, più speranzosa.

Mi ha raccontato che il figlio della sua amica, Amjad Lafy di 4 anni, malato di cancro, aveva ottenuto un permesso di viaggio nella prima settimana di settembre.

Per questo, Nihad sperava che lo stesso accadesse ai suoi figli e che quello che era successo all’amica fosse un “buon presagio”. Ma siamo già a metà ottobre e non ha ancora ricevuto alcuna notizia.

Come i suoi figli, l’appuntamento del piccolo Amjad era all’ospedale Hadassah, a maggio. Anche il bambino aveva una visita di controllo; il suo occhio sinistro era stato rimosso in aprile a causa di un cancro. Il permesso di viaggio era in ritardo di quattro mesi ma, alla fine, è arrivato.

“Quello che è successo con Amjad è stato un miracolo”, ha spiegato a E.I. la madre di Amjad, Khouloud, una donna di 32 anni. La famiglia aveva ormai perso la speranza di ottenere un permesso di viaggio affinché il figlio potesse ricevere le cure mediche necessarie. Ora “sento che ha una possibilità di sopravvivere”.

Il cancro si era diffuso. Ma i medici hanno detto alla famiglia che potrebbero ancora essere in grado di salvare l’occhio destro di Amjad. Non sarebbe stato possibile senza permesso.

Dopo 13 anni di blocco israeliano, il settore sanitario di Gaza è decimato, con cliniche e ospedali che mancano di strutture di base, di medicine e di personale medico.

Maggiore è l’assistenza di cui un paziente ha bisogno, minore è la probabile che quella assistenza sia disponibile.

Ma la speranza è eterna. È così che sopravviviamo.

“Dopo il permesso di Amjad, spero che i miei figli ottengano il loro presto”, mi ha detto Nihad.

Traduzione per InfoPal di Sara Origgio