Decolonizzare il vocabolario delle attività per i diritti umani palestinesi

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Nakbafiles.org. Di Majad Aiqasis

La polizia e le pratiche israeliane rappresentano una combinazione di segregazione, occupazione militare e colonizzazione. L’azione di questo regime non è limitata ai palestinesi che vivono nei Territori palestinesi occupati della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ma riguarda anche i palestinesi residenti nel lato israeliano della linea d’armistizio del 1949 e quelli in esilio forzato. In realtà il trattamento riservato da Israele ai palestinesi non ebrei di Israele, ai Territori occupati e alla diaspora, costituisce un regime discriminatorio che ha lo scopo di controllare il massimo del territorio con il minor numero di palestinesi autoctoni.
Molte organizzazioni per i diritti umani palestinesi, però, limitano la loro azione o ai Territori occupati o a Israele, conformandosi alle categorie legali imposte da Israele con lo scopo di isolare geograficamente queste aree l’una dall’altra. Alcune organizzazioni intervengono in maniera ancora più limitata – ad esempio solo in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, nell’area C in Cisgiordania, o a Gerusalemme est. Limitando in questo modo il loro mandato, i gruppi per i diritti umani nei Territori occupati non fanno che confermare la nozione che il problema che cercano di combattere sia limitato unicamente alle aree occupate nel 1967. Anzi, il punto di partenza implicito delle organizzazioni che limitano le loro operazioni in quei territori soltanto, potrebbe essere anche il 1993 degli accordi di Oslo, che hanno consolidato le restrizioni dei movimenti tra Gaza e la Cisgiordania.

Divide et impera

Tuttavia le realtà che affrontiamo non risalgono né al 1993 né al 1967. Esse ebbero inizio con l’emergenza sionista della colonizzazione della Palestina – il punto di partenza della «questione» palestinese – e così andrebbe considerata nella ricerca di una soluzione. Nessuna organizzazione troverà, o potrà pensare di avvicinarsi a trovare una soluzione se la si pensa diversamente.
La pratica di divisione geopolitica dei palestinesi iniziò nel 1948. Israele aveva bisogno innanzi tutto di recidere i legami tra i palestinesi, e così fece tramite la Nakba, che tagliò il tessuto sociale della società palestinese. Tutti i palestinesi, compresi quelli che riuscirono a rimanere nel territorio che divenne lo Stato di Israele, avevano una sorella, un cugino, un cognato, uno zio o un vicino fatto sfollare con la forza o che aveva perso la casa, il terreno e le proprietà. Dopo aver reciso queste relazioni tra la gente e le comunità, Israele continuò la frammentazione geografica dei palestinesi proibendo loro di tornare alle loro case e inibendo i legami sociali con palestinesi nei cosiddetti «Paesi nemici» – Paesi arabi nei quali la maggior parte dei profughi palestinesi fu costretta a fuggire. Lentamente, nel corso dei decenni, quei legami sociali si persero, e l’isolamento geografico facilitò il verificarsi di divisioni politiche.

Colonizzazione del linguaggio.

La terminologia è un altro fattore chiave nella strategia classica del divide et impera, causa di ulteriori divisioni politiche che alimentano la frammentazione fisica. Ma ciò che preoccupa di più è che troppo spesso ci ritroviamo a utilizzare noi stessi la terminologia generata da Israele stesso. In parole povere, Israele domina la trattazione. Ad esempio, Israele considera i Drusi di nazionalità diversa dagli arabi, e le Ong palestinesi attive in Israele, che operano secondo questi parametri, parlano di «villaggi drusi» e di «municipalità druse». E’ così perché Israele applica diversi quadri legali, bilanci e dipartimenti ministeriali a queste comunità, e ciò ha spinto i palestinesi ad adottare un approccio corrispondente.
Inoltre, i beduini palestinesi del Naqab sono collocati in una categoria amministrativa separata, deliberatamente utilizzata da Israele per dividerli arbitrariamente dagli altri palestinesi. Purtroppo troviamo alcuni degli stessi palestinesi che utilizzano il termine «beduini» per operare una classificazione separata. Ma lo sradicamento dei beduini palestinesi nel Naqab è chiaramente collegato allo sfollamento forzato attuato ai tempi del mandato palestinese e oltre, che comprende i milioni di profughi palestinesi attualmente costretti all’esilio, e ai quali è vietato ritornare alle loro case e ai loro luoghi di origine.
Dato questo contesto, l’azione per i diritti umani non dovrebbe essere arbitrariamente limitata da confini giuridici. E’ necessario capire che l’uso della lente offerta dalla Nakba ancora in atto può sviluppare un approccio olistico che supera tali confini e che riconosce una battaglia che include la Palestina mandataria e i palestinesi tutti. Una tale comprensione, che inquadra, guida e unisce il linguaggio della nostra analisi è fondamentale, per il nostro lavoro, nell’affrontare la richiesta palestinese di libertà, liberazione e diritti umani.
In quanto attivisti e organizzazioni per i diritti umani dobbiamo essere più attenti al modo in cui articoliamo la realtà attraverso le parole che usiamo. Se la società civile palestinese cerca di combattere il processo di sradicamento forzato, non dobbiamo stratificare la nostra gente; dobbiamo invece usare un linguaggio che possa costruire una lotta comune contro il progetto colonialista che mira alla cancellazione della presenza della comunità palestinese autoctona. Non dovremmo, nemmeno indirettamente, supportare questo tipo di distruzione del popolo palestinese accettando le divisioni fatte dal potere coloniale. Dobbiamo controllare la nostra trattazione, per sfidare il dominio locale e internazionale della narrativa israeliana.
Per le organizzazioni per i diritti umani la chiave sta nell’enfatizzare sempre le due dimensioni di spazio e tempo. In quanto al «tempo», dev’essere chiaro che la situazione odierna è collegata direttamente con ciò che accadde nel 1948 – o anche prima di allora – e ne è la continuazione. In quanto allo «spazio», va riconosciuto che ciò che accade oggi a Betlemme, a Jenin, a Gaza e a Gerusalemme succede anche a Haifa, a Iqrith e nel Naqab.

Traduzione di Stefano Di Felice