Analisi: sulla vittoria e falsa vittoria a Gaza

Maan. Di Ramzy Baroud.  Nella fretta di analizzare il risultato della guerra di Israele contro Gaza, durata 51 giorni, denominata Operation Protective Edge, alcuni potrebbero aver tralasciato un fatto importante: questa non è stata una guerra che si può definire tradizionalmente “operazione militare”, perciò le analisi convenzionali sulla vittoria o sulla sconfitta non sono assolutamente applicabili.

Essendo questa la situazione, come possiamo spiegare la dichiarazione trionfante del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, il 28 di agosto, e le massicce celebrazioni per le strade di Gaza per la “vittoria” della resistenza contro Israele?

Per essere analizzati in modo preciso, devono essere contestualizzati.

Appena dopo la dichiarazione di cessate il fuoco del 26 agosto, che ha posto fine alla più distruttiva guerra nei confronti di Gaza, Netanyahu è sembrato scomparire dalle scene. Alcuni media israeliani hanno iniziato a supporre la fine del suo regno politico. Sebbene questa affermazione sia stata un po’ affrettata, se ne può comprendere il motivo. Molta parte della carriera politica di quest’uomo si è fondata sulla sua posizione “anti-terrorismo” e sull’agenda di sicurezza di Israele.

Egli è stato primo ministro dal 1996 a 1999, con l’obiettivo preciso di sconfiggere il “processo di pace” di Oslo. Ha sostenuto che esso avrebbe compromesso la sicurezza di Israele. In seguito, come ministro delle Finanze nel governo di Sharon (2003-2005), era preoccupato dalle intenzioni di Ariel Sharon di trasferirsi all’esterno di Gaza. In effetti, si trattava del “piano di disimpegno” da Gaza che aveva messo fine all’alleanza Netanyahu-Sharon.

Netanyahu ha impiegato alcuni anni per combattere contro il suo apparente ritorno all’oblio nel complicato panorama politico di Israele. Egli ha combattuto una estenuante battaglia politica, ma è riuscito a riscattare soltanto una parte della gloria passata del Likud, partito di destra, attraverso alleanze litigiose. E’ stato primo ministro dal 2009 al 2013 e, per un terzo mandato (una rarità per la storia di Israele) dal 2013 ad oggi.

Netanyahu non è stato soltanto il re di Israele, ma anche il suo fornitore di re. Egli ha mantenuto accanto a sé i propri amici ed i suoi nemici ancor più vicini, e ha sapientemente bilanciato coalizioni apparentemente impossibili ed improbabili. E’ riuscito, non soltanto perché è un politico astuto, ma anche perché ha riunito Israele attorno ad un obiettivo: la sicurezza.

Ciò gli è stato possibile combattendo “il terrorismo palestinese”, in riferimento a vari gruppi di resistenza palestinese, incluso Hamas, e costruendo la difesa di Israele. Egli ha avuto così tanto controllo su questo discorso politico che nessuno gli si è nemmeno mai avvicinato, sicuramente non il nuovo arrivato politico centrista, Yair Lapid, o anche il conservatore o il falco di estrema destra, Avigdor Liberman e Neftali Bennet.

Ma poi è accaduta Gaza, una guerra che avrebbe potuto diventare il più grave errore di calcolo di Netanyahu, e forse la ragione della sua caduta. Oltre alla diminuzione del suo indice di gradimento, sceso dall’82%, il 23 di luglio, a meno del 38% poco dopo l’annuncio del cessate il fuoco, anche lo stesso suo linguaggio durante la conferenza stampa dopo il cessate il fuoco dice abbastanza.

E’ sembrato disperato e sulla difensiva, sostenendo che Hamas ha fallito i suoi obiettivi durante la guerra, nonostante sia stato Israele, e non Hamas, ad aver spinto alla guerra con una serie di obiettivi – nessuno dei quali è comunque stato raggiunto. Hamas ha risposto deridendo la sua affermazione dato che il gruppo non ha iniziato le ostilità, e nemmeno ne aveva i motivi, ha dichiarato un ufficiale del movimento ad Al Jazeera. Le richieste sono state avanzate durante gli incontri svoltisi in Egitto dopo il cessate il fuoco, ed alcune di esse sono state in effetti ottenute.

Netanyahu stravolge il linguaggio e forza la verità, in un ultimo tentativo, per ottenere una vittoria politica, o semplicemente per salvarsi la faccia. Ma soltanto pochi vengono convinti.

Scrivendo su Foreign Policy il 20 luglio, Ariel Ilan Roth è arrivato rapidamente ad una conclusione, riguardante la guerra contro Gaza, che ha dimostrato di essere vera solo in parte. “Non importa come e quando il conflitto tra Hamas ed Israele finirà, due cose sono certe. La prima è che Israele sarà in grado di rivendicare una vittoria tattica. La seconda è che subirà una sconfitta strategica”.

Sbagliato.

Anche la vittoria tattica per questa volta è stata smentita, a differenza dei conflitti precedenti, in particolare la cosiddetta Operazione Cast Lead (2008-2009). La resistenza di Gaza, da parte sua, deve aver imparato dai propri errori, riuscendo a far fronte ad una guerra di 51 giorni che ha avuto un esito distruttivo come non era mai successo nei conflitti precedenti contro Gaza. Quando è stato annunciato il cessate il fuoco mediato dall’Egitto, ogni soldato di Israele è stato respinto oltre i confini di Gaza.

Immediatamente dopo l’accordo, un ufficiale di Hamas a Gaza ha letto una dichiarazione nella quale ha invitato gli Israeliani che vivono nelle tante città evacuate che si trovano ai confini, a ritornare nelle loro case, in una dichiarazione di sfida anche questa senza precedenti. Poco dopo, centinaia di combattenti di tutte le fazioni, inclusa Fatah, si sono raccolti presso le macerie del quartiere di Shujaiyya, a Gaza. “Non vi è spazio tra di noi per gli sconfitti, per gli Arabi deboli”, ha dichiarato il leader militare della resistenza di Gaza, Abu Ubeida, quando una moltitudine di persone ha ricoperto di baci i combattenti.

Anch’egli ha dichiarato una qualche sorta di vittoria. Ma la sua dichiarazione di “vittoria” ha qualcosa di differente da quella di Netanyahu?

“Israele ha sempre rivendicato la vittoria quando invece ha subito una disfatta: la guerra dell’ottobre 1973 ne è la prova migliore”, ha scritto Roth su Foreign Policy. La differenza è che allora molti in Israele accettavano le false vittorie. Questa volta invece rifiutano di farlo, come vari sondaggi d’opinione di Haaretz, Channel 2 ed altri stanno dimostrando. Inoltre, la voragine nella quale si trova la classe politica di Israele è più ampia di quanto lo sia stata per molti anni.

Indipendentemente da ciò, la “vittoria” della resistenza non può essere compresa all’interno dello stesso contesto della definizione di vittoria di Israele, o falsa vittoria. Sicuramente la resistenza “è stata capace di agire da deterrente, mostrando un livello incredibile di capacità di recupero e di forza, anche se equipaggiata con armi rudimentali”, come ha argomentato Samah Sabawi.

L’idea stessa che il potente Israele, e quelli come Netanyahu, possa utilizzare i Palestinesi come un terreno di esperimenti per le sue armi o migliorare i propri consensi sembra ormai cosa superata. L’anziano detto di Sharon che gli Arabi ed i Palestinesi “devono essere colpiti duramente” e “devono essere picchiati” come condizione perché vi sia la calma, o la pace, è stato contestato come mai prima nella storia delle guerre arabo-israeliane.

Le “celebrazioni” di Gaza per il cessate il fuoco non sono state quel genere di celebrazioni che di solito seguono una vittoria in un incontro di calcio. Interpretarle come pura espressione di gioia è un errore, e riflette la mancanza di comprensione della società di Gaza.

E’ stato di più di una seplice dichiarazione collettiva da parte di gente che ha perso 2.143 abitanti, la maggior parte civili, ed ha ora oltre 11.000 feriti e mutilati di cui prendersi cura. Per non parlare della totale o parziale distruzione di 18.000 abitazioni, 75 scuole, molti ospedali, moschee, e centinaia di fabbriche e negozi.

No, non è stata una dichiarazione di sfida in senso simbolico: E’ stato una messaggio indirizzato ad Israele, che la resistenza è maturata e che il completo dominio di Israele su quando iniziare le guerre e su come farle terminare è finito.

Solo il futuro potrà rivelare quanto precisa possa essere tale valutazione e quali conseguenze possa avere per la Cisgiordania e Gerusalemme Est, che si trovano sotto occupazione militare. E’ stato interessante infatti che un tema dominante tra i Palestinesi giubilanti di Gaza fosse “liberiamo Gerusalemme”. Un altro tema è stato quello dell’insistenza sulla unità nazionale tra tutti i Palestinesi. Dopo tutto, questa è stata la vera ragione per la quale Netanyahu aveva all’inizio dato il via alla guerra su Gaza.

Il discorso sulla resistenza è ora quello dominante in Palestina, e va oltre le divisioni di fazione, o la stanca discussione riguardante gli inutili “colloqui di pace” che non hanno portato niente di buono ai Palestinesi, solo perdite territoriali, divisione politica e tanta umiliazione. Questo sentimento sta ancora riecheggiando in Cisgiordania. Ma in che modo sarà tradotto in futuro è ancora da vedere, considerando il fatto che l’Autorità Palestinese è debole nei suoi rapporti con Israele, e molto intollerante nei confronti di chi dissente.

La pressione israeliana sul presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, continuerà. Nella sua prima conferenza stampa dopo il cessate il fuoco, Netanyahu ha ripetuto lo stesso ultimatum. Abbas “deve scegliere da che parte stare”, ha affermato.

Dopo non esser riuscito a sconfiggere la resistenza di Gaza, a Netanyahu non resta altro da fare che esercitare pressioni su Abbas, 79 anni, la cui scelta, dopo la guerra di Gaza, significa ben poco, tanto per cominciare.

Ramzy Baroud è un cronista di livello internazionale, autore e fondatore di Palestine Chronicle.com. Il suo ultimo libro è “Mio padre era un combattente per la libertà: La storia mai raccontata di Gaza”.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi