Boicottare l’apartheid israeliana: un dovere morale e politico.

 

Riceviamo da www.actionforpeace.org e pubblichiamo.

Boicottare l’apartheid  israeliana:  Un dovere morale e politico

di Omar Barghouti*, marzo 2007

In una situazione di oppressione dura e sistematica, il silenzio equivale a complicità. In nessuna parte del mondo questa complicità è più evidente e vergognosa del caso del sistema coloniale e razzista israeliano. Quasi sessanta anni sono passati dalla Nakba, la pulizia etnica della Palestina organizzata dai sionisti, dalla creazione di Israele letteralmente sulle rovine della società palestinese e dal corrispondente rifiuto del diritto al ritorno alle loro case dei profughi palestinesi. Da quaranta anni dura l’occupazione militare illegale della striscia di Gaza  e della West Bank, inclusa Gerusalemme Est. A fronte di questa oppressione a molte facce, la complicità diventa corresponsabilità, almeno parziale, dei crimini di guerra israeliani e del perpetuarsi del regime di apartheid israeliano.

Gli ultimi sviluppi politici in Israele, particolarmente le ultime elezioni parlamentari che hanno portato al potere un partito apertamente fascista, hanno mostrato in modo non equivoco che la stragrande maggioranza degli ebrei-israeliani sostiene con convinzione (1) le politiche razziste e coloniali dello stato e le sue continue violazioni del diritto internazionale. Tutto questo accompagnato all’immenso potere militare e politico e alla propensione ad usarlo, ha fatto in modo che i  palestinesi sentano una vera minaccia esistenziale profilarsi su di loro. Come è già accaduto in passato, dopo la sconfitta largamente riconosciuta in Libano che ha colpito la sua dottrina della deterrenza, l’establishment militare-securitario israeliano, sostenuto da tutto lo spettro politico sionista, ha intensificato la sua campagna sanguinosa di morte e distruzione contro i civili  palestinesi innocenti sotto occupazione, particolarmente nella striscia di Gaza. Le ultime atrocità hanno spinto eminenti personalità internazionali — Jimmy Carter è l’ultima tra queste – a denunciare pubblicamente le politiche di Israele come paragonabili, o addirittura peggiori, dell’apartheid in Sud Africa.

Uno degli aspetti più macroscopici dell’apartheid israeliana, molto prima della costruzione del muro dell’apartheid, è stato il trattamento da parte di Israele dei civili palestinesi, inclusi i bambini, come sub-umani,  o come umani relativi. Solo negli ultimi 7 anni, Israele ha ucciso 815 bambini palestinesi, “un bambino a settimana, quasi ogni settimana,” come ha sottolineato il giornalista israeliano Gideon Lev (2).  “L’assassinio di un bambino o di una bambina palestinese,” aggiunge Levy, “non disturba il pubblico israeliano. LaWest Bank è calma, … e sotto la copertura di questa calma, falsa e temporanea, i nostri soldati, i nostri figli migliori, stanno uccidendo decine di bambini e  teenagers come se fosse una routine, al di fuori della nostra vista.” Anche prima di questa intifada, nel 1996, un colono israeliano vivino a Hebron uccise Hilmi Shusha di 11 anni con la sua pistola. Il giudice israeliano all’inizio rilasciò l’assassino, dicendo che il bambino  “era morto da se come conseguenza di una ‘pressione emozionale.’ ”La corte suprema israeliana definì l’atto un ‘chiaro assassinio’.” A seguito di pressioni, il giudice riconsiderò la cosa e condannò l’assassino a sei mesi di servizio in una comunità e a una multa di poche migliaia di dollari.(3)” Ad altri bambini, che non sono stati uccisi o feriti, è stato regolarmente impedito l’accesso alle cure per la salute e alla scuola.

La percezione israeliana, sistemica e radicata, dei palestinesi come umani relativi che sono, quindi, non titolati all’uguaglianza e ai diritti umani fondamentali, è ciò che fa si che i palestinesi identichino il sistema di colonialismo, di discriminazione razziale, e il rifiuto dei diritti umani fondamentali come una forma di apartheid. Di fatto, i palestinesi non sono soli nell’avere questa immagine di Israele. Dugard ha affermato nel 2004 che il regime di apartheid israeliano nei territori occupati è “peggiore di quello che è esistito in Sud Africa.(4)” Leaders Sud Africani, intellettuali, politici e difensori dei diritti umani, incluso l’archivescovo Desmond Tutu, aderiscono alla stessa scuola di pensiero (5).

Anche coraggiosi leaders ebrei sudafricani, incluso il ministro Ronnie Kasrils, hanno condannato l’apartheid in Israele, dicendo che è peggiore di quella del  Sud Africa.(6)

Anche in Israele, alcuni politici e intellettuali hanno stabilito dei paralleli tra Israele e il Sud Africa.  Il deputato Roman Bronfman ha detto una volta, “La politica di apartheid si è  infiltratata anche in Israele, e discrimina quotidianamente contro gli arabi israeliani e altre minoranze.” (7)

L’ex ministra israeliana dell’istruzione, Shulamit Aloni, ha recentemente affermato che Israele commette crimini di guerra, “utilizza il terrore” e “non è diversa dal Sud Africa razzista” (8). 

Ci si chiede, che cosa può aver suscitato tutta questa indignazione morale? La risposta può venire dai seguenti esempi di come si vive sotto l’occupazione israelaina.

 

40 anni di occupazione militare israeliana

Niente fa cogliere di più l’immensa ingiustizia dell’occupazione come il Muro coloniale israeliano, costruito per la maggior parte su territorio occupato e condannato come illegale da un parere della Corte Internazionale dell’Aia, nel luglio del 2004. Nonostante le gravi conseguenze sulla vita, l’ambiente, la salute e i diritti politici dei palestinesi, gli ebrei israeliani sono nella quasi totalità a favore del Muro[9]. Ma l’ex ministro israeliano per l’ambiente, Yehudit Naot, ha protestato contro un aspetto specifico del Muro dicendo:

“La barriera di separazione interrompe la continuità di aree aperte ed è dannosa al paesaggio, alla flora e alla fauna, ai corridoi ecologici e al drenaggio delle valli. Il sistema protettivo avrà effetti irreversibili sulle risorse della terra e creerà enclaves di comunità che resteranno tagliate fuori dal loro ambiente.” [10]

Anche dopo lo spostamento degli iris e la creazione di passaggi per gli animali, il portavoce dell’Ente per la Natura e la Protezione dei Parchi Nazionali d’Israele, ha lamentato che: “Gli animali non sanno che adesso c’è un confine. Sono abituati a un determinato spazio e ciò che ci preoccupa sono gli effetti sulla loro diversità genetica, perché gruppi diversi di  una popolazione non saranno in grado di accoppiarsi e riprodursi. Isolare,le popolazioni su due lati della barriera crea senza alcun dubbio un problema genetico.” [11]

Così sensibili al benessere dei fiori selvatici e delle volpi, Israele invece tratta i  bambini palestinesi come creature superflue. Cecchini addestrati professionalmente ne hanno fatto un bersaglio mortale in incidenti minori in cui i bambini tiravano sassi.  E quando non c’era l’alibi delle sassaiole, allora bisognava che i soldati israeliani ne provocassero una. Un giornalista esperto come l’americano Chris Hedges, ha  denunciato [12] come i soldati israeliani a Gaza avevano metodicamente provocato i bambini palestinesi che giocavano in mezzo alle dune del sud della striscia con lo scopo di poter sparare contro di loro.  Così conclude il suo report: “In altri conflitti, in paesi  dove ho fatto l’inviato, ho visto sparare ai bambini […] ma mai  prima avevo visto dei soldati attirare i bambini  come topi nella trappola  e assassinarli per sport.”

 

Israele e i Diritti dei Profughi Palestinesi

Lungi dal riconoscere la propria colpa per aver creato il problema più vecchio e vasto riguardante i profughi, Israele si è sempre sottratto a qualsiasi responsabilità nei confronti della Nakba.  La cosa più singolare nella narrazione corrente israeliana sulla “nascita” dello stato di Israele è il totale diniego di qualsiasi crimine. A parte poche, limpide eccezioni, gli israeliani vedono come “indipendenza” di Israele la spietata distruzione di più di 400 villaggi palestinesi e la loro campagna di pulizia etnica che portò all’esilio di oltre 750 mila palestinesi. Anche gli israeliani di sinistra impegnati spesso si addolorano per la perdita della “superiorità morale” d’Israele dopo l’occupazione della West Bank e di Gaza nel 1967, come se prima di allora Israele si fosse comportato uno stato civile e rispettoso della legge come la Finlandia.

Mentre da una parte negano ai profughi palestinesi i loro diritti fondamentali, gli ebrei in Israele e in occidente hanno ottenuto numerosi successi nella loro campagna per gli indennizzi dell’Olocausto, che spesso includeva il diritto di tornare in Germania, Polonia o altri paesi. Ma il massimo dell’incoerenza morale è reso palese dalla pressione sulla Spagna perché riconosca come cittadini spagnoli i discendenti degli ebrei espulsi dall’Andalusia più di 500 anni fa e quindi li risarcisca adeguatamente[13].

Oltre ad essere immorale e illegale, la negazione da parte di Israele dei diritti dei profughi palestinesi di certo è una ricetta garantita per la perpetuazione del conflitto[14].

 

Israele e i suoi cittadini arabo-palestinesi

Israele può non essere sola a praticare una discriminazione razziale contro la propria minoranza nazionale[15]. Ma è certamente unica nell’ottenere un notevole successo – almeno fino ad ora – nel farla franca e dare di se una falsa immagine di illuminismo e democrazia. Al centro della particolare forma israeliana di apartheid vi è una visione profondamente radicata dei cittadini palestinesi dello stato non soltanto come indesiderata memoria del “peccato originale”[16], ma anche come minaccia demografica. La norma è sempre stata la discriminazione razziale cui sono soggetti in ogni aspetto basilare della vita. Infatti sostenere una completa e non equivoca uguaglianza fra arabi ed ebrei in Israele equivale oggi a parlare di sedizione[17]. E fino ad oggi una maggioranza significativa di ebrei israeliani si è dichiarata d’accordo, opponendosi alla piena uguaglianza con i cittadini palestinesi d’Israele[18].

Perfino nella ricerca sul cancro (19) è fortemente presente l’apartheid israeliana[19]. Nel giugno del 2001 il Ministero della Salute ha pubblicato una mappa della distribuzione geografica delle malattie oncologiche in Israele per gli anni 1984-1999. Il rapporto dettagliato presenta i dati di queste malattie nelle comunità con più di 10.000 abitanti. Nessuna comunità araba d’Israele è inclusa in questo rapporto tranne una. Alla domanda del perché di tale esclusione i funzionari del Ministero sono ricorsi alla giustificazione sempre valida di “problemi di budget”. Ma perché questa ricerca è particolarmente importante? Bene, perché in Israele soltanto quando si dimostra la correlazione tra la presenza di siti inquinanti e l’incidenza di malattie gravi, è possibile vietare l’installazione di nuovi impianti rischiosi o pretendere norme ambientali più rigide. Lasciando fuori intenzionalmente le città arabe da questa mappatura estesa del cancro, il Ministero della Salute ha indirettamente dato il via libera agli inquinatori per trasferirsi nelle città arabe. I risultati di questa apartheid sanitaria sono inquietanti. Nei tre decenni passati l’incidenza delle malattie oncologiche sulla popolazione palestinese d’Israele è salita del 97,8% fra gli uomini e del 123% tra le donne, a confronto con un incremento del 39,8% fra gli uomini e del 24,4% fra le donne nella popolazione ebraica. Un portavoce del Centro Contro il Razzismo ha commentato: ”Questo rapporto ha messo in evidenza due gruppi diversi. Uno, quello degli iperprivilegiati, la cui vita è cara allo stato e al Ministero della Salute; e l’altro di coloro la cui vita non ha importanza per lo stato.”

Si deve vedere questa discriminazione nel contesto più vasto della percezione che in Israele si ha dei palestinesi che deriva dal razzismo coloniale e parzialmente dal fondamentalismo ebraico che è difficilmente citato in Occidente, a differenza di quello islamico e, in qualche misura, di quello cristiano. Politici, intellettuali e accademici israeliani e coloro che lavorano nei mass media spesso discutono appassionatamente su come combattere al meglio la “guerra” demografica del paese contro i palestinesi. Si sono eretti muri razzisti non solo nei territori occupati ma anche in numerose località all’interno di Israele dove ebrei e palestinesi vivono fianco a fianco.[20]  

Molti israeliani appartenenti all’intero spettro politico sono favorevoli a varie forme di pulizia etnica (21) dei cittadini palestinesi d’Israele. Quello che una volta era un tabù, uno slogan dell’estrema destra, è diventato un discorso accettabile sulla demografia nell’opinione pubblica d’Israele[22].

 

Che fare allora?

Il miserabile fallimento negli ultimissimi decenni della comunità internazionale per far si che Israele rispetti il diritto internazionale, ha spinto i palestinesi a cercare alternative.

Il 9 luglio 2005, che segna il primo anniversario del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia, contro il Muro, più di 170 tra partiti politici, sindacati, associazioni professionali e altre associazioni della società civile hanno diffuso un Appello per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni, o BDS, diretto contro Israele fino a che esso non rispetti completamente il Diritto Internazionale e i principi universali dei diritti umani.

La campagna per il BDS è strettamente legata alla resistenza palestinese non violenta contro l’oppressione israeliana. Questo storico appello stabilisce un precedente importante perchè è stato firmato dalle tre parti che costituiscono il popolo di Palestina: quella dei profughi, quella dei cittadini palestinesi d’Israele e quella dei palestinesi nei territori occupati. E’ anche la prima volta che una tale forma di resistenza non violenta è stata pienamente appoggiata praticamente da tutti i settori della società palestinese. Un aspetto importante dell’appello è che chiede a tutti gli israeliani dotati di coscienza di sostenerlo.

 

Che cosa chiede quindi precisamente la società civile Palestinese?

Basato sul sistema a tre livelli dell’apartheid israeliana descritto prima l’Appello BDS chiede alle organizzazioni internazionali della società civile e alle persone di coscienza di tutto il mondo “d’imporre un boicottaggio di vasta portata e di realizzare iniziative di disinvestimento contro Israele simili a quelle applicate al Sudafrica nell’era dell’apartheid. We appeal to you to pressure your respective states to impose embargoes and sanctions against Israel. Invitiamo anche gli israeliani dotati di coscienza a sostenere questo appello per amore di giustizia e di una pace genuina”[23]

Sono molti gli argomenti contro l’Appello Palestinese. Cercherò di riassumere i più frequenti e i meno irrazionali, opponendogli controargomenti, il filo conduttore dei quali è il principio della coerenza morale.

 

Argomenti Principali contro il BDS

Alcuni insigni sostenitori della causa palestinese hanno opposto argomenti contro l’applicazione di sanzioni e boicottaggi contro Israele sul modello sudafricano, tra i quali i più significativi sono:

(A)   Israele è un paese essenzialmente democratico con una vivace società civile, perciò si può convincere a porre termine alla oppressione senza sanzioni.

(B)    A differenza del Sudafrica durante l’apartheid, la maggioranza in Israele si oppone alle sanzioni.

(C)    Le organizzazioni della società civile israeliana sono in gran parte progressiste e all’avanguardia del movimento per la pace, e perciò dobbiamo sostenerle e non boicottarle.

Controargomenti 1

(A)   Come può mai uno stato che sostiene la supremazia etnico-religiosa e che è anche una potenza coloniale, venir qualificato come democrazia? Ad esempio Tony Judt, professore di New York, chiama Israele un “anacronismo disfunzionale” e lo pone nella categoria degli “stati etnici bellicosi, intolleranti e guidati dalla fede.”

Il famoso scrittore ebreo americano I.F. Stone ha riassunto il dilemma del sionismo con queste parole: “Israele sta creando una specie di schizofrenia morale nel mondo ebraico. Nel mondo esterno il benessere degli ebrei dipende dal mantenimento di società laiche non razziali e pluralistiche. In Israele gli ebrei si trovano a difendere una società in cui non si possono legalizzare i matrimoni misti, in cui i non ebrei vivono una condizione inferiore a quella degli ebrei e nella quale l’ideale è razzista ed esclusivista.”

(B)    Fra tutti gli argomenti contro il boicottaggio, questo riflette o una sorprendente ingenuità, o una deliberata disonestà intellettuale. Dobbiamo giudicare se applicare le sanzioni ad una potenza coloniale basandosi sull’opinione della maggioranza della comunità degli oppressori? La comunità degli oppressi non conta affatto?

(C)    Questo è semplicemente un mito promosso e mantenuto da alcuni accademici e intellettuali israeliani che si considerano di “sinistra”. La grande maggioranza degli israeliani presta servizio militare nelle forze di riserva, è perciò a conoscenza diretta dei crimini quotidiani dell’occupazione e della colonizzazione. Inoltre, con l’eccezione di una piccola seppur importante minoranza, la società israeliana in larga misura si oppone alla piena uguaglianza dei palestinesi, sostiene l’oppressione razzista dello stato o vi acconsente col silenzio.

 

Secondo insieme di argomenti contro BDS

Da una prospettiva leggermente diversa, alcuni osservatori hanno obiettato che boicottare Israele sia controproducente e possa portare a:

1)      Perdere la capacità di influenzare il possibile cammino di Israele verso la pace

2)      Radicalizzare la destra israeliana e indebolire la sinistra

3)      Accrescere indirettamente le sofferenze dei palestinesi che si troverebbero a perdere economicamente e in condizioni perfino peggiori di oppressione da parte di un Israele più feroce e più isolato

 

Secondo insieme di controargomenti

1)      Di quale influenza si parla? L’Europa ne ha ben poca. Perfino negli USA l’israelizzazione della politica estera, particolarmente verso il medio oriente, ha raggiunto limiti tali da paralizzare qualsiasi possibile pressione americana volta a limitare, non diciamo di cambiare, le politiche oppressive di Israele.

2)      Quale sinistra? In confronto con la sinistra sionista di Israele, i partiti di estrema destra europei appaiono dotati di tanta moralità quanto Madre Teresa, specie quando si tratta di riconoscere i diritti dei profughi palestinesi. D’altra parte la sinistra non sionista, moralmente coerente, è un gruppo minuscolo i cui aderenti come risultato del boicottaggio, possono, senza accorgersene, finire col perdere benefici, privilegi e finanziamenti. Per diminuire la possibilità che ciò avvenga inutilmente, dovremmo sfumare le nostre tattiche di boicottaggio. Ma, lo sappiamo tutti, questa non è una scienza esatta (se mai ve ne è alcuna). Dobbiamo dare rilievo all’impatto positivo, anche in Israele, che il boicottaggio può avere sulla lotta complessiva per i diritti umani, l’eguaglianza e la vera democrazia.

3)      Più sofferenze?  Dopo il Muro, le centinaia di blocchi stradali, gli assassini di routine, la demolizione delle case, l’abbattimento di migliaia di alberi  e il rifiuto dei diritti fondamentali, che cosa può fare di più Israele e non esserne penalizzata?

 

Terzo: l’Olocausto e l’Antisemitismo

Come dice il filosofo francese Etienne Balibar: “Non si dovrebbe permettere a Israele di strumentalizzare il genocidio degli ebrei europei per porsi al di sopra delle leggi delle nazioni.” (24). Inoltre, fingendo di non vedere l’oppressione israeliana, come spesso fanno gli USA e la maggior parte dell’Europa ufficiale, l’Occidente ha perpetuato la miseria, la sofferenza umana e l’ingiustizia che sono seguite all’Olocausto.

In quanto all’accusa di antisemitismo, è palesemente fuori posto ed è chiaro che viene usata come strumento di intimidazione intellettuale. Vale la pena di ripetere che gli appelli palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni non prendono di mira gli ebrei e neppure gli israeliani in quanto ebrei. Sono rigorosamente diretti contro Israele come potenza coloniale che viola i diritti dei palestinesi e il diritto internazionale. Il crescente sostegno tra gli ebrei americani ed europei per un’efficace pressione su Israele, è un controargomento che non viene reso noto adeguatamente.

BDS non preclude la cooperazione israelo-palestinese, ammesso che si riconosca la realtà dell’oppressione, si accetti la necessità fondamentale dell’uguaglianza e sia diretta contro l’ingiustizia. L’appello non fa che stabilire dei criteri accurati per rendere tale cooperazione moralmente integra e politicamente efficace. Non basta fare appelli per la pace, perché questa parola è diventata la più abusata del dizionario internazionale, in particolare quando due famigerati e noti criminali di guerra si considerano “uomini di pace”. Pace senza giustizia equivale a istituzionalizzare l’ingiustizia.

I progetti di pace che omettono deliberatamente qualsiasi riferimento all’oppressione che Israele esercita sui palestinesi non sono altro che iniziative dannose e corrotte. Coloro che immaginano di poter spazzare via il conflitto, suggerendo qualche forum per il riavvicinamento, la distensione o “il dialogo” – che sperano possa condurre ad autentici processi di riconciliazione e, alla fine, alla pace – sono degli illusi patologici o dei pericolosi bugiardi. Cercare di cambiare le percezioni degli oppressi invece che aiutare a porre fine all’oppressione stessa, è indice di cecità morale e di miopia politica. Prolungare l’oppressione non è soltanto immorale è anche controproducente dal punto di vista pratico, in quanto perpetua il conflitto.

Non è che il boicottaggio, il disinvestimento  e le sanzioni debbano essere usati in blocco e servire in ogni contesto. Se si accetta la premessa fondamentale che è necessario fare pressione su Israele affinché accetti il diritto internazionale, allora si possono applicare forme diverse di pressione, a seconda dei contesti specifici. Senza un efficace sostegno, basato sui principi di questa forma minima, civile, non violenta di resistenza all’oppressione o a su qualsiasi altra forma paragonabile di lotta, le organizzazioni internazionali della società civile abbandonerebbero i loro obblighi morali di mettersi dalla parte del diritto, della giustizia, della vera pace, dell’uguaglianza e della possibilità di far prevalere i principi etici universali.

 

They’ll also be guaranteeing that no child’s knee will shake in fear again, no child’s heart will stop beating prematurely, no child’s dreams will be extinguished.

 

Endnotes:

 

Independent Palestinian researcher; founding member of the Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI).

 

(1)  According to a reliable Israeli poll conducted on July 31st and August 1st, for instance, almost the entire Jewish-Israeli public supported bombing Lebanese civilians and their infrastructure despite knowing well the level of destruction and civilian casualties that resulted. Prof. Ephraim Yaar and Prof. Tamar Hermann. Peace Index: July 2006 / Support for the war and the IDF holds up, Ha’aretz, August 9, 2006.

 (2) Gideon Levy, Tair’s Palestinian Peers, Ha’aretz, February 11, 2007.

(3) Reuters, January 22, 2001; Phil Reeves, Fury as court frees settler, The Independent, January 22, 2001.

(4) Aluf Benn, UN agent: Apartheid in territories worse than S. Africa, Ha’aretz, August 24, 2004.

(5) Desmond Tutu, Apartheid in the Holy Land, The Guardian, April 29, 2002.

(6) Jon Jeter, South African Jews Polarized Over Israel, Washington Post, December 19, 2001.

(7) Roman Bronfman, The Hong Kong of the Middle East, Ha’aretz, May 20, 2005.

(8) Roee Nahmias, ‘Israeli terror is worse’, Yedioth Ahronoth, July 29, 2005.

(9) Ha’aretz Editorial, A Fence Along the Settlers’ Lines, October 3, 2003.

(10) Mazal Mualem, Old Habitats Die Hard, Ha’aretz June 20, 2003.

(11) Ibid.

(12) Chris Hedges, A Gaza Diary, Harper’s Magazine, October 2001.

(13) DPA, Sephardi Jews Demand Recognition from Spanish Government, Ha’aretz, October 15, 2002.

(14) For more details on this, refer to: Omar Barghouti, On Refugees, Creativity & Ethics, ZNet, September 28, 2002.

(15) According to Physicians for Human Rights-Israel, “Although the Palestinian citizens of the State of Israel represent approximately 20% of its population, this community suffers from institutionalized discrimination that produces severe socio-economic gaps between the Jewish majority and the Arab minority. No significant investments are made to eliminate these gaps. On the contrary, the Arab population continues to suffer from under-budgeting and discrimination in many areas including employment, education, property and planning policies, and health care services.”

(16) Israeli writer Benjamin Beit-Hallahmi says, “Israelis seem to be haunted by […] the curse of the original sin against the native Arabs. How can Israel be discussed without recalling the dispossession and exclusion of non-Jews? This is the most basic fact about Israel, and no understanding of Israeli reality is possible without it. The original sin haunts and torments Israelis: it marks everything and taints everybody. Its memory poisons the blood and marks every moment of existence.’ Benjamin Beit-Hallahmi, Original Sins: Reflections on the History of Zionism and Israel (1993); cited in: “The Origin of the Palestine-Israel Conflict,” www.cactus48.com

(17) Edward Herman, Israeli Apartheid and Terrorism, Z-Magazine, April 29, 2002.

(18) Ha’aretz, May 22, 2003.

(!19) Eli Ashkenazi, Budget for Cancer Mapping doesn’t extend to Arab Sector, Ha’aretz, March 28, 2005.

(20) Lily Galili, Long Division, Ha’aretz, December 19, 2003.

(21)According to peace activists Gadi Algazi and Azmi Bdeir: “Transfer [Israeli euphemism for ethnic cleansing–OB] isn’t necessarily a dramatic moment, a moment when people are expelled and flee their towns or villages. It is not necessarily a planned and well-organized move with buses and trucks loaded with people … . Transfer is a deeper process, a creeping process that is hidden from view. … The main component of the process is the gradual undermining of the infrastructure of the civilian Palestinian population’s lives in the territories: its continuing strangulation under closures and sieges that prevent people from getting to work or school, from receiving medical services, and from allowing the passage of water trucks and ambulances, which sends the Palestinians back to the age of donkey and cart. Taken together, these measures undermine the hold of the Palestinian population on its land.” Cited in: Ran HaCohen, Ethnic Cleansing: Past, Present, and Future, www.Antiwar.com, December 30, 2002.

 (22) Yulie Khromchenco , Poll: 64% of Israeli Jews support encouraging Arabs to leave, Ha’aretz, June 22, 2004.

(23) Palestinian Civil Society's Call for Boycott, Divestment and Sanctions (BDS) can be read in full at: www.PACBI.org.

(24) Etienne Balibar, A Complex Urgent Universal Political Cause, Address before the conference of Faculty for Israeli-Palestinian Peace (FFIPP), Université Libre de Bruxelles, July 3rd and 4th.

 

 

 


APPELLO PER LA CAMPAGNA ITALIANA DI BOICOTTAGGIO, DISINVESTIMENTO E SANZIONI DELL’ECONOMIA DI GUERRA ISRAELIANA, FORUMPALESTINA, 21 FEBBRAIO 2009
 
               Con la feroce aggressione alla Striscia di Gaza, lo Stato di Israele ha fornito al mondo l’ennesima conferma della volontà di procedere alla pulizia etnica del popolo palestinese. I 1300 morti, le migliaia di feriti, le immani distruzioni provocate da tre settimane di bombardamenti fanno seguito ad un embargo criminale – voluto e praticato da Israele, Stati Uniti ed Unione Europea – che da oltre due anni colpisce una delle popolazioni più povere del mondo, impedendo ogni attività commerciale e bloccando persino il transito degli aiuti umanitari.
               Continua, dunque, l’occupazione israeliana della terra palestinese, la negazione del diritto di un popolo ad avere un suo Stato. Al dramma del milione e mezzo di Palestinesi segregati nella Striscia di Gaza fa da riscontro la trasformazione della Cisgiordania in un sistema di prigioni a cielo aperto, con le città e i villaggi isolati gli uni dagli altri dal Muro dell’Apartheid, che Israele ha continuato a costruire nonostante la sentenza della Corte di Giustizia Internazionale del 2004 e le risoluzioni dell’ONU, che continua a violare impunemente, con la complicità dei governi delle maggiori potenze mondiali.
               Per contribuire alla campagna internazionale di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) lanciata dalle organizzazioni della società civile palestinese, promuoviamo anche nel nostro Paese un percorso di iniziative volte ad incidere sull’economia di guerra israeliana, attraverso il boicottaggio delle merci israeliane, il disinvestimento dall’economia israeliana, la sospensione dei rapporti accademici e delle collaborazioni con lo Stato e gli enti locali, il boicottaggio del turismo in Israele e la verifica delle possibili iniziative legali per la condanna dei criminali di guerra ed il risarcimento dei danni provocati in questi anni di occupazione e di guerra.
               In particolare, gli obiettivi della Campagna italiana di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) sono:
 tutte le merci identificate dal codice a barre con le prime tre cifre 729, che identificano i prodotti provenienti dallo Stato di Israele
·          i prodotti agricoli israeliani a marchio Jaffa e Carmel, presenti sui banchi dei supermercati e di molti negozi
·          i prodotti farmaceutici israeliani della azienda THEVA, che tanto in Italia quanto in Francia ha acquisito una posizione dominante nel mercato dei farmaci generici e da banco
·          i prodotti cosmetici del gruppo L’OREAL, già oggetto di boicottaggio per i test effettuati sugli animali. Oltre ad essere uno dei maggiori investimenti israeliani, il gruppo L’OREAL commercializza prodotti realizzati con materiali provenienti dai territori palestinesi occupati, come i Sali del Mar Morto
·          i prodotti e i negozi del gruppo ZARA home, di proprietà del miliardario israeliano Lev Leviev, arricchitosi con lo sfruttamento dei diamanti dell’Angola e con il quale nel 2008 l’UNICEF ha interrotto qualsiasi tipo di relazione, rifiutando qualsiasi donazione, data l’origine criminale della sua fortuna e per il tipo di progetti che finanzia. Fra l’altro, Leviev è uno dei maggiori costruttori immobiliari delle colonie costruite nelle aree espropriate illegalmente ai Palestinesi e, come tale, uno dei maggiori violatori delle risoluzioni delle Nazioni Unite
·          i prodotti dell’azienda LAVAZZA, da oltre due decenni leader nel mercato israeliano del caffè, delle macchine per bar e uffici, dell’architettura e dell’arredamento dei locali, attraverso la ditta israeliana Gils Coffee Ltd. Il boicottaggio della Lavazza è raccomandato anche dall’organizzazione pacifista israeliana Gush Shalom e dalla Coalizione delle Donne per la Pace israeliana, anche per il legame diretto fra la Lavazza stessa e la Eden Springs Ltd., azienda israeliana che dal 2002 detiene i diritti per la distribuzione delle macchine per il caffè e delle capsule di caffè “Lavazza – Espresso Point”. La Eden Springs imbottiglia e distribuisce l’acqua delle Alture del Golan, territorio siriano occupato e colonizzato illegalmente da Israele dal 1967.
La Campagna Italiana BDS chiede, inoltre, la revoca delle collaborazioni in essere fra alcuni enti locali e lo Stato di Israele, a partire dal progetto “Saving children”, con il quale la Regione Toscana, attraverso l’israeliana Fondazione Peres, finanzia la sanità israeliana per … curare i bambini palestinesi feriti dagli stessi Israeliani! Analogamente, denunciamo l’accordo di cooperazione tecnologica, in essere dal 2007, fra la Regione Lazio e il centro industriale israeliano Matimop, accordo del quale chiediamo la revoca. Chiediamo alle istituzioni accademiche ed ai singoli dipartimenti e docenti di sospendere a loro volta ogni rapporto con le università israeliane, in solidarietà con le università palestinesi cui l’occupazione impedisce da anni di portare avanti i propri programmi.
               Invitiamo, infine, a boicottare ogni forma di turismo verso le località israeliane.
Il nostro appello è rivolto a chiunque, individuo o associazione, intenda dare il suo contributo al raggiungimento di una pace giusta in Medio Oriente, attraverso il riconoscimento dei legittimi diritti del popolo palestinese, sanciti da decine di risoluzioni delle Nazioni Unite, sistematicamente ignorate dallo Stato di Israele; l’adesione alla Campagna Italiana BDS è dunque aperta e ci auguriamo di vedere la partecipazione di tutti gli uomini e le donne che sostengono la lotta di liberazione del popolo palestinese e la necessità della fine dell’apartheid israeliano. Per favorire il maggior livello di partecipazione e di iniziativa, la Campagna si articola attraverso comitati locali BDS. 
Aderendo all’appello del Forum Sociale Mondiale di Belem, la Campagna Italiana BDS promuove tre giornate nazionali di mobilitazione per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni per il 28, 29 e 30 marzo 2009.
 
Roma, 21.2.2009 Assemblea Nazionale Forumpalestina 


ISM- Italia

 

Il G8, la questione palestinese e noi – comunicato stampa 8 luglio 2009

 

Si apre oggi a L’Aquila la riunione del G8 caratterizzata, come sempre, dalle dimensioni della ipocrisia, del cinismo e della menzogna, alle quali si aggiungono, questa volta, quelle dell’impotenza, delle false speranze, del pressappochismo e del degrado morale.

Proseguono invece le guerre, come quelle in Afghanistan e Iraq, dalle quali anche qualche intellettuale, organico ai politici afoni, comincia a domandarsi se non sia il caso di uscirne immediatamente. In Medio Oriente l’immunità e l’impunità dei governi israeliani viene confermata dall’occidente, nonostante la pulizia etnica dei palestinesi prosegua in Israele e in Cisgiordania e il genocidio nella Striscia di Gaza.

 

Invece di affrontare questi problemi che sono alla radice della crisi economica mondiale, i “signori” e le “signore” della terra saranno impegnati a complicare ulteriormente la vita dei terremotati abruzzesi, indignati per le troppe inutili visitazioni a fronte della pochezza degli interventi per la ricostruzione.

 

In questo quadro desolante, ISM-Italia, insieme a Forumpalestina e Sguardo sul Medio Oriente, ha ritenuto necessario organizzare una giornata di lavoro sul tema:

La campagna BDS in Italia e nel mondo – Esperienze e proposte operative

5 anni dopo il parere della ICJ dell'ONU sul Muro israeliano dell'Apartheid

4 anni dopo l'appello palestinese al boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni contro Israele (BDS)

Roma 11 luglio 2009 – Hotel Massimo d'Azeglio – Via Cavour 18 – nei pressi della Stazione Termini

che vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Omar Barghouti, uno dei promotori della campagna BDS palestinese.

 

L’obiettivo è quello di ricordare che, mentre i potenti del mondo, G8, G14 o G20 che siano, continuano a fare strame di ogni norma del diritto internazionale, solo la comunità civile internazionale, come è accaduto nel caso del Sudafrica, può spingere per ottenere un cambiamento radicale.

 

Quello che continua ad accadere in Palestina non è altro che la sperimentazione avanzata di quanto sta avvenendo in Occidente con il ritorno eclatante del razzismo e del fascismo.

L’aggressione a Parigi contro la Libreria delle Resistenze, la cattura da parte della marina israeliana, in acque internazionali, di 21 attivisti che si recavano a Gaza, ridotta da tempo a un lager a cielo aperto, sulla barca “The SPIRIT OF HUMANITY”, gli attacchi dei marines in Afghanistan, ne sono solo una conferma.

 

Consideriamo questa giornata di lavori internazionali parte delle iniziative nazionali e locali contro il G8 alle quali esprimiamo la nostra adesione.

 

 

BOICOTTARE ISRAELE E I SUOI COMPLICI: UN DOVERE MORALE, UN DOVERE POLITICO!

 


Sul Muro dell’Apartheid israeliano

 

Indice

1 Sintesi del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) dell’ONU

2. I muri possono crollare di Domenico Gallo, 8 luglio 2004

3. La Corte Internazionale di Giustizia abbatte il muro di Domenico Gallo, 15 luglio 2004

 

Il testo completo del parere della Corte all’indirizzo

http://www.domenicogallo.it/download/CIG-Muro.pdf

 

a cura di ISM-Italia

Torino, 8 luglio 2009

 

1 Sintesi del parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) dell’ONU

 

CONSEGUENZE LEGALI DELLA COSTRUZIONE DEL MURO NEI TERRITORI PALESTINESI OCCUPATI

 

CORTE INTERNAZIONALE DI GIUSTIZIA 9 Luglio 2004 General List No. 131

 

La sentenza o meglio il parere è costituito da 59 pagine. La corte ripercorre in 162 punti le premesse di ordine giuridico e la storia del conflitto israelo-palestinese e decide come segue: 

 

163. Per queste ragioni,

LA CORTE,

Ritiene di avere  la giurisdizione per dare il parere consultivo richiesto ;

(2) Con 14 voti contro 1,

Decide di accettare la richiesta di un parere consultivo;

A FAVORE: President Shi; Vice-President Ranjeva; Judges Guillaume, Koroma, Vereshchetin, Higgins, Parra-Aranguren, Kooijmans, Rezek, Al-Khasawneh, Elaraby, Owada, Simma, Tomka;

CONTRO: Judge Buergenthal;

(3) Risponde  nel modo seguente alla domanda posta dall’Assemblea Generale:

A. Con 14 voti contro 1,

La costruzione del muro da parte di Israele, la Potenza Occupante, nei Territori  Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est e dintorni, e la  regolamentazione che ne deriva, è contraria alla legge internazionale;

A FAVORE: President Shi; Vice-President Ranjeva; Judges Guillaume, Koroma, Vereshchetin, Higgins, Parra-Aranguren, Kooijmans, Rezek, Al-Khasawneh, Elaraby, Owada, Simma, Tomka;

CONTRO: Judge Buergenthal;

B. Con 14 voti contro 1,

Israele ha l’obbligo di porre termine alle sue violazioni della legge internazionale; ha l’obbligo di cessare immediatamente i lavori di costruzione del muro nei Territori  Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est e dintorni, di demolire immediatamente le strutture situate in queste zone, e in più di abrogare o rendere inefficaci immediatamente tutti gli atti legislativi o regolamentari relativi, in accordo con il paragrafo 151 di questo Parere; 

A FAVORE: President Shi; Vice-President Ranjeva; Judges Guillaume, Koroma, Vereshchetin, Higgins, Parra-Aranguren, Kooijmans, Rezek, Al-Khasawneh, Elaraby, Owada, Simma, Tomka;

CONTRO: Judge Buergenthal;

C. Con 14 voti contro 1,

Israele ha l’obbligo di risarcire tutti i danni causati dalla costruzione del muro nei Territori  Palestinesi Occupati, inclusa Gerusalemme Est e dintorni;

A FAVORE: President Shi; Vice-President Ranjeva; Judges Guillaume, Koroma, Vereshchetin, Higgins, Parra-Aranguren, Kooijmans, Rezek, Al-Khasawneh, Elaraby, Owada, Simma, Tomka;

CONTRO: Judge Buergenthal;

 

D. Con 13 voti contro 1,

Tutti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscere la situazione illegale che deriva dalla costruzione del muro e di non prestare aiuto o assistenza nel mantenere la situazione creata da questa costruzione; tutti gli Stati aderenti alla Quarta Convenzione di Ginevra relativa alla Protezione di Civili in Tempo di Guerra del 12 Agosto 1949 hanno inoltre l’obbligo, rispettando la Carta delle Nazioni Unite e la legge internazionale, di assicurare la conformità da parte di Israele con la legge internazionale umanitaria contenuta in quella Convenzione;

A FAVORE: President Shi; Vice-President Ranjeva; Judges Guillaume, Koroma, Vereshchetin, Higgins, Parra-Aranguren, Rezek, Al-Khasawneh, Elaraby, Owada, Simma, Tomka;

CONTRO: Judges Kooijmans, Buergenthal;

E. Con 14 voti contro 1,

Le Nazioni Unite, e in particolare l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza, dovrebbero prendere in esame quali ulteriori azioni sono necessarie per mettere fine alla situazione illegale che deriva dalla costruzione del muro e dalla regolamentazione che ne deriva, tenendo in dovuta considerazione il presente Parere (Advisory Opinion).

A FAVORE: President Shi; Vice-President Ranjeva; Judges Guillaume, Koroma, Vereshchetin, Higgins, Parra-Aranguren, Kooijmans, Rezek, Al-Khasawneh, Elaraby, Owada, Simma, Tomka;

CONTRO: Judge Buergenthal.

Done in French and in English, the French text being authoritative, at the Peace Palace, The Hague, this ninth day of July, two thousand and four, in two copies, one of which will be placed in the archives of the Court and the other transmitted to the Secretary-General of the United Nations.

(Signed) SHI Jiuyong, President.

(Signed) Philippe COUVREUR, Registrar.

 

Judges KOROMA, HIGGINS, KOOIJMANS and AL-KHASAWNEH append separate opinions to the Advisory Opinion of the Court; Judge BUERGENTHAL appends a declaration to the Advisory Opinion of the Court; Judges ELARABY and OWADA append separate opinions to the Advisory Opinion of the Court.

(Initialled) J.Y.S.

(Initialled) Ph.C.

 

Composizione della corte

President: Shi Jiuyong (China)

Vice-President: Raymond Ranjeva (Madagascar)

Judges: Gilbert Guillaume (France), Abdul G. Koroma (Sierra Leone), Vladlen S. Vereshchetin (Russian Federation), Rosalyn Higgins (United Kingdom), Gonzalo Parra-Aranguren (Venezuela), Pieter H. Kooijmans (Netherlands), Francisco Rezek (Brazil), Awn Shawkat Al-Khasawneh (Jordan), Thomas Buergenthal (United States of America), Nabil Elaraby (Egypt), Hisashi Owada (Japan), Bruno Simma (Germany), Peter Tomka (Slovakia)

 

2. I muri possono crollare di Domenico Gallo, 8 luglio 2004

Molti hanno considerato con scetticismo o con sufficienza la decisione dell'Assemblea Generale dell'ONU, adottata con la Risoluzione dell'8 dicembre 2003, di interpellare la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite sulla legalità della costruzione del muro da parte di Israele.

Com'è noto il conflitto israeliano palestinese è un vero e proprio cimitero della legalità internazionale nel quale giacciono sepolte (cioè inattuate) decine di pronunzie del Consiglio di Sicurezza e centinaia di risoluzioni e raccomandazioni dell'Assemblea Generale e di altri organi ausiliari. Le vicende del conflitto e di una occupazione militare che si protrae da quasi quarant'anni (la più lunga che si conosca nella storia moderna) pongono ogni giorno una sfida radicale alla legalità internazionale e mettono in discussione la stessa capacità della Comunità internazionale di organizzare la convivenza fra gli Stati su un sistema di regole condivise.

Di fronte a questa situazione catastrofica, molti hanno espresso scetticismo sulla possibilità che una pronunzia consultiva (cioè non vincolante) di un organo di giustizia internazionale possa giocare una concreta influenza sul conflitto in corso, condotto da attori politici che si dimostrano sempre più impermeabili alle ragioni del diritto.

Ma adesso siamo arrivati al momento della verità in quanto la pubblicazione della sentenza della Corte di Giustizia dell'ONU è prevista per il 9 luglio.

Noi non sappiamo se le parole che pronunzierà la Corte delle Nazioni Unite saranno tanto forti da far crollare il muro, però sappiamo che, ancor prima della pronunzia della Corte, il muro ha cominciato a crollare.

E lo ha fatto per effetto delle parole, molto più vincolanti per Israele, pronunziate dalla sua Corte Suprema con la “storica” sentenza del 30 giugno scorso.

Sebbene da taluni sia stata banalizzata o ridimensionata nella sua portata reale, non v'è dubbio che, per le vicende di Israele si tratti di una sentenza storica, come lo è stata la sentenza del 6 settembre 1999, che ha messo al bando la tortura, sotto ogni sua forma.

Con questa sentenza la Corte Suprema ha fatto cadere il tabù del muro, uno dei tabù più duri, più difficili, più radicati nel sentimento comune.

L'argomento che in realtà la sentenza non mette in discussione il muro, ma il suo tracciato non comprende la portata della breccia che la Corte ha inflitto al muro.

In realtà la discussione sulla legittimità della costruzione del muro non può essere separata dalla discussione sul suo tracciato. E' evidente che se Israele avesse deciso di costruire il muro sulla linea verde, nessuno ne avrebbe potuto contestare la legalità, né avrebbe potuto ingiungere ad Israele di arrestarne la costruzione, come ha fatto l'Assemblea Generale con la Risoluzione approvata, quasi all'unanimità il 21 ottobre 2003. Un muro costruito sul confine si sarebbe prestato a critiche soltanto dal punto di vista della violenza fatta al territorio, ma non avrebbe potuto essere contestato dal punto di vista del diritto internazionale.

La decisione assunta dalla Corte Suprema israeliana non è stata semplice come dimostra al sua lunghissima e dettagliata motivazione. Per aprire una breccia nel muro, i giudici israeliani hanno dovuto depoliticizzare al massimo l'argomento, accettare come dogmi indiscutibili la pretesa che la costruzione del muro sia necessitata da esigenze di sicurezza e che il tracciato della barriera non rappresenta un tentativo di modificare le frontiere esistenti, attraverso una alterazione irreversibile dello status quo. Dovendo mantenere la loro navigazione all'interno di queste due insuperabili colonne d'Ercole, i giudici hanno fatto un lavoro di approfondimento delle conseguenze del passaggio del muro, con riferimento ad ogni chilometro percorso, prendendo in considerazione il danno concreto causato ai residenti della zona, quantificando ogni zolla di terreno espropriato per la costruzione del muro o intercluso, contando gli alberi che sarebbero stati sradicati o sottratti all'utilizzazione della popolazione. In questo contesto la Corte ha preso atto della irreparabilità della separazione dei contadini dai loro campi, giudicando che il regime di permessi e le porte aperte per il passaggio dei residenti non avrebbero neutralizzato gli effetti controproducenti sostanziali della barriera. Dopo aver fatto questo esame dettagliato la Corte ha stimato che quasi tutto il tracciato del muro oggetto di contestazione doveva considerarsi illegittimo in quanto, il bilanciamento fra le ragioni (incontestabili) della sicurezza e l'obbligo di tutelare i diritti delle popolazioni occupate si rivelava sproporzionato. In altre parole la Corte ha detto che, seppure in Israele la costruzione del muro è una scelta politica non censurabile dalla giustizia, in quanto fondata su ragioni incontestabili di sicurezza, queste ragioni devono essere tutelate senza, per questo, venir meno agli obblighi imposti dalle convenzioni internazionali. Tradotto in termini pratici, questo vuol dire che se la Corte Suprema manterrà fede a questo orientamento, quasi tutto il muro è destinato a crollare.

“Il nostro compito è difficile” – concludono i giudici. “Noi siamo membri della società israeliana. Sebbene qualche volta ci troviamo in una torre d'avorio, quella torre si trova, pur sempre nel cuore di Gerusalemme, che non infrequentemente è colpita da un terrorismo impietoso. (..) Noi siamo coscienti che nel breve periodo questa decisione non renderà più facile la lotta dello Stato contro coloro che gli si levano contro. Ma noi siamo giudici. Quando affrontiamo un giudizio noi siamo soggetti (soltanto) al diritto.”

 

3. La Corte Internazionale di Giustizia abbatte il muro di Domenico Gallo, 15 luglio 2004

La sentenza emessa dalla Corte Internazionale di Giustizia dell'ONU il 9 luglio 2004 è un evento storico del quale bisogna capire l'importanza.

Il conflitto israeliano Palestinese, com'è noto, è il conflitto internazionale che più profondamente ha intersecato la responsabilità della Comunità internazionale attraverso l'Organizzazione delle Nazioni Unite.

A cominciare dall'ormai lontano 1947, quando l'Assemblea Generale, con la Risoluzione n. 181 del 29 novembre, decretò la divisione della Palestina soggetta al Mandato Britannico in due Stati, prevedendo uno status speciale per la città di Gerusalemme.

Da allora le Nazioni Unite sono intervenute in tutte le maniere possibili per fermare gli eserciti, restaurare i diritti violati, arginare la violenza, dare una prospettiva ai profughi, tracciare un quadro di regole condivise dalla Comunità internazionale e indicare una prospettiva per la costruzione di una soluzione pacifica e definitiva del conflitto, impegnando tutte le loro risorse.

L'Assemblea Generale ed il Consiglio di Sicurezza hanno esaminato tutti gli aspetti del conflitto. In particolare quest'ultimo ha pronunziato numerose ed importanti Risoluzioni, come la Risoluzione n. 242 del 22 novembre 1967 e la Risoluzione n. 338 del 22 ottobre 1973, che ancora oggi costituiscono i capisaldi, la via maestra per ogni possibile percorso di pace. L'ultima risorsa del sistema della Nazioni Unite che non era ancora entrata in gioco, la più preziosa, è la Corte Internazionale di Giustizia. A questa si è, infine, rivolta l'Assemblea Generale, chiedendo un “parere consultivo”, ai sensi dell'art. 96 della Carta delle Nazioni Unite. Il fatto che la sentenza emessa dalla Corte dell'Aja non sia “vincolante” per le parti non deve trarre in inganno in ordine alla sua importanza. Le parole della Corte sono parole pesanti, definitive, perché la Corte è la bocca del diritto internazionale.

Essa ci dice cosa è legale e cosa è illegale nell'ordinamento internazionale, in altre parole qual è il diritto, quale diritto è applicabile in una determinata fattispecie.

Ma vediamo, nel dettaglio, cosa la Corte ci fa sapere.

Il primo punto è che la Corte è competente a conoscere il conflitto ed a giudicare la questione sollevata dall'Assemblea Generale dell'ONU. Può sembrare banale, ma non lo è affatto se si pensa che un gran numero di Stati, ivi compresi gli Stati Uniti e gli Stati dell'Unione Europea, hanno chiesto alla Corte di non pronunziarsi, di tacere.

Ed invece la Corte ha deciso di non tacere, respingendo la tesi della “political question” e riconoscendo che il conflitto deve essere regolato (e giudicato) dal diritto internazionale.

Andando in controtendenza rispetto agli assetti del potere, la Corte, in sostanza, ci dice che gli attori politici che guidano gli Stati non sono onnipotenti, che il potere politico deve rispettare delle regole, dei principi, dei valori che l'umanità faticosamente si è data, nel suo cammino storico, per assicurare la convivenza pacifica dei popoli ed il rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo.

Quindi la Corte esamina lo stato giuridico dei territori occupati. Essa ribadisce che tutti i territori che si trovano al di là della linea verde (la linea di armistizio del 1949), ivi compresa la zona Est di Gerusalemme, sono territori occupati a seguito di un conflitto bellico e che Israele è una Potenza occupante, come tale vincolata, nell'amministrazione dei territori occupati, al rispetto delle obbligazioni derivanti dal diritto dei conflitti armati.

Si tratta di posizioni già espresse con chiarezza in numerose Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (a cominciare dalla 465 del 1° marzo 1980) e dell'Assemblea Generale dell'ONU (da ultimo con la Risoluzione A/ES-10/L.15 approvata il 21 ottobre 2003). Non si tratta tuttavia di una pronunzia superflua. Con la propria statuizione, la Corte “certifica” lo status giuridico dei territori, pronunziando delle parole “definitive”, che mettono fine ad ogni possibile querelle politica ed impediscono che le istituzioni internazionali possano in futuro “revisionare” questi concetti, accettando che Israele possa annettersi parte dei territori occupati, modificando unilateralmente i propri confini.

Due sono le conseguenze fondamentali che emergono dal riconoscimento dello statuto giuridico dei territori occupati.

La prima è che il popolo palestinese è titolare di un diritto all'autodeterminazione, che deve essere attuato – ovviamente – con mezzi pacifici, ma non deve essere pregiudicato con modifiche del territorio e della sua composizione demografica, realizzate attraverso la politica dei “fatti compiuti”.

La seconda è che, nell'amministrazione dei territori occupati, la Potenza occupante deve rispettare i principi consuetudinari del diritto umanitario e le Convenzioni internazionali, ivi compresa la IV Convenzione di Ginevra, che Israele si rifiuta di riconoscere in quanto tale Convenzione contiene una norma che esplicitamente vieta alla Potenza occupante di trasferire una parte della propria popolazione nei territori occupati (art. 49).

La Corte quindi riconosce che gli insediamenti dei coloni nei territori occupati sono illegali in quanto costituiscono una “flagrante violazione” della IV Convenzione di Ginevra.

Dopo aver così delineato il quadro giuridico, la Corte passa ad esaminare la questione se la costruzione del muro sia contraria al diritto internazionale.

A questo riguardo la Corte osserva che il tracciato del muro include circa l'80% delle colonie installate da Israele nei territori occupati, realizzando in questo modo una “annessione di fatto” ad Israele di una parte dei territori occupati: in questo modo resterebbe seriamente pregiudicato il diritto del popolo palestinese all'autodeterminazione.

Per questo il tracciato del muro costituisce una grave violazione dell'obbligo di Israele di rispettare il diritto all'autodeterminazione del popolo palestinese e del divieto di annessione di territori con la forza.

Sotto un altro profilo, il tracciato del muro, per le conseguenze negative che comporta sui diritti della popolazione palestinese, in termini di libertà di circolazione, accesso alla cure mediche, all'istruzione, al lavoro e di tutela della proprietà, appare incompatibile con le obbligazioni in tema di tutela dei diritti umani che gravano su Israele, sia in virtù del diritto bellico umanitario, sia in virtù della Convenzioni internazionali sui diritti dell'uomo, a cui Israele ha aderito (come i due Patti dell'ONU del 66 e la Convenzione sui diritti del fanciullo).

E' interessante notare come sotto questo aspetto, la critica che la Corte dell'Aja fa alla legalità del muro si avvicina molto alle considerazioni svolte dalla Corte Suprema israeliana che ha dichiarato l'illegalità di gran parte del percorso del muro, oggetto di contestazione, con una coraggiosa sentenza emessa lo scorso 30 giugno.

Una volta chiarito, attraverso questa strada, che la costruzione del muro è contraria al diritto internazionale, la Corte affronta il problema della conseguenze, cioè delle obbligazioni che incombono sulle parti e sulla Comunità internazionale nel suo complesso, in ragione di tale illecito. La prima conseguenza riguarda le parti direttamente interessate: Israele e i palestinesi, la seconda riguarda gli altri Stati, la terza riguarda l'ONU.

Sotto il primo profilo la Corte statuisce che Israele ha il dovere di arrestare la costruzione del muro e di smantellare la parte già costruita. I palestinesi hanno diritto di vedersi retrocessi i beni espropriati e di essere risarciti del danno subito.

Sotto il secondo profilo, quella che viene in considerazione è la responsabilità degli altri Stati. Poiché il diritto internazionale è vincolante per tutti, anche gli Stati terzi hanno delle obbligazioni, in particolare non devono riconoscere l'illegale situazione risultante dalla costruzione del muro e non devono aiutare Israele a mantenere in essere tale situazione. In questo contesto una obbligazione rafforzata grava sui Paesi che hanno firmato la IV Convenzione di Ginevra di adoperarsi per ottenere che Israele rispetti le obbligazioni nascenti da tale Convenzione.

Sotto il terzo profilo le Nazioni Unite, ed in particolare l'Assemblea Generale ed il Consiglio di Sicurezza hanno il dovere di prendere ulteriori misure per porre fine a tale illegale situazione.

Le parole della Corte dell'Aja mettono in mora la Comunità internazionale e ripropongono lo scandalo di un diritto calpestato (con gravi sofferenze di tutti), di una giustizia inattuata.

Se è vero che non esistono strutture o istituzioni che possano assicurare il rispetto del diritto internazionale violato, è anche vero che una garanzia c'è, una garanzia che può essere fragile, inconsistente, ma a volte può rivelarsi pesante come un macigno: l'orientamento dell'opinione pubblica internazionale.

Le parole che la Corte di Giustizia ha pronunziato sono importanti perché forniscono un'arma alla opinione pubblica internazionale per orientare le scelte degli Stati e giudicare i comportamenti delle élites dirigenti, sono parole che possono far crollare i muri.

 


La necessità del boicottaggio culturale di Ilan Pappe*

Electronic Intifada, 23 giugno 2009

 

Se c’è qualcosa di nuovo nella storia senza fine della Palestina è l’evidente mutamento dell’opinione pubblica nel Regno Unito. Ricordo l’arrivo in questa isola nel 1980 quando il sostegno alla Palestina, era limitato a sinistra e in essa ad un settore molto particolare e ideologico. Il trauma del dopo-olocausto e il complesso di colpa, gli interessi economici e militari e la buffonata di Israele come unica democrazia in tutto il Medio Oriente, hanno giocato tutti un ruolo importante nell’assicurare immunità allo stato di Israele.

 

The international movement to boycott Israel has gained irrepressible

momentum. (Mushir Abdelrahman/MaanImages)

 

 

Pochissimi erano colpiti, così sembrava, da uno stato che aveva dispossessato metà della popolazione indigena della Palestina, demolito metà dei loro villaggi e delle loro città, discriminato la minoranza che viveva all’interno dei suoi confini in un sistema di apartheid e ne aveva diviso due milioni e mezzo in enclave soggette ad una dura ed oppressiva occupazione militare.

Quasi trent’anni dopo sembra che tutti questi filtri e diaframmi siano stati rimossi. L’ampiezza della pulizia etnica del 1948 è ben nota, la sofferenza della gente nei territori occupati è stata testimoniata e descritta perfino dal presidente degli Stati Uniti come feroce e disumana. Analogamente, la distruzione e lo spopolamento dell’area della grande Gerusalemme viene evidenziata giornalmente e il carattere razzista delle politiche applicate nei confronti dei palestinesi in Israele vengono frequentemente criticate e condannate.

Ogginel 2009 la realtà è stata descritta dall’ONU come “una catastrofe umana”. Settori consapevoli e attenti della società britannica conoscono benissimo chi è responsabile e ha prodotto questa catastrofe. Ciò non è più connesso a circostanze indefinite, o al “conflitto” – ma viene visto con chiarezza come il risultato delle politiche israeliane nel corso degli anni. Quando l’Arcivescovo Desmond Tutu venne interpellato sulla sua reazione a ciò che aveva visto nei Territori Occupati, egli fece notare con tristezza che era peggio dell’apartheid ed è una pèersona che se ne intende.

Come nel caso del Sud Africa, questa gente rispettabile, sia a livello individuale che come membri di organizzazioni, esprime ad alta voce la propria indignazione per il proseguire della oppressione, della colonizzazione, della pulizia etnica e dell’affamamento in Palestina. Essi stanno cercando i modi per rendere evidente la loro protesta e alcuni sperano perfino di convincere i loro governi a cambiare la loro politica di indifferenza e di inerzia di fronte al proseguire della distruzione della Palestina e dei palestinesi. Molti tra loro sono ebrei, in quanto queste atrocità sono compiute in loro nome secondo la logica dell’ideologia sionista, e alcuni di loro sono veterani di lotte sociali nel loro paese per cause equivalenti nel mondo. Essi non sono più limitati ad un partito politico e sono di ogni estrazione sociale.

Fino ad ora il governo britannico non si è mosso. Esso fu inerte anche quando, in questo paese, il movimento anti-apartheid chiese che imponesse sanzioni al Sud Africa. Occorsero diverse decine di anni perché questo attivismo dal fondo raggiungesse il vertice politico. Sta richiedendo un tempo maggiore nel caso della Palestina: senso di colpa per l’olocausto, narrazioni storiche distorte, e il travisamento di Israele come una democrazia che ricerca la pace e dei palestinesi come eterni terroristi islamici hanno bloccato la spinta della pressione popolare. Ma sta cominciando a trovare la propria strada, ad essere presente, nonostante l’accusa continua di essere ogni richiesta di questo tipo antisemita e la demonizzazione dell’islam e degli arabi. Il terzo settore, quell’importante collegamento tra le agenzie civili e quelle governative, ci ha mostrato la via. Un sindacato dopo l’altro, un gruppo professionale dopo l’altro, hanno inviato recentemente un chiaro messaggio: troppo è troppo. E’ stato fatto in nome della decenza, della moralità umana e di un impegno civile basilare a non restare inattivi di fronte alle atrocità del tipo di quelle che Israele ha commesso e sta ancora commettendo a contro il popolo palestinese.

In questi ultimi otto anni la politica criminale di Israele si è intensificata e gli attivisti palestinesi hanno cercato mezzi nuovi per farvi fronte. Hanno provato di tutto, la lotta armata, la guerriglia, il terrorismo e la diplomazia: nulla è servito. E non si sono ancora arresi e ora stanno proponendo una strategia non-violenta – quella del boicottaggio, dei disinvestimenti e delle sanzioni. Con questi mezzi vogliono persuadere i governanti occidentali di salvare da una catastrofe imminente e da uno spargimento di sangue non solo loro, ma ironicamente anche gli ebrei di Israele. Questa strategia ha prodotto l’appello per il boicottaggio culturale di Israele. Questa richiesta è sostenuta da tutte le realtà palestinesi: dalla società civile sotto occupazione e dai palestinesi in Israele. E’ appoggiata dai profughi palestinesi ed è portata avanti dai membri delle comunità palestinesi in esilio. E’ giunta nel momento opportuno ed ha dato modo alle persone e alle organizzazioni nel Regno Unito di esprimere la loro ripugnanza per le politiche israeliane e allo stesso tempo indicato una strada per prendere parte alla pressione complessiva sul governo perché modifichi la sua politica di assicurare immunità all’impunità sul terreno.

E’ sconcertante che questo cambiamento della opinione pubblica non ha avuto finora un impatto sulla politica; ma d’altra parte va ricordata la via tortuosa che dovette percorrere la campagna contro l’apartheid prima che divenisse un fatto politico. Inoltre, è importante ricordare come, a Dublino, due donne coraggiose, lavorando duramente sulle cassiere in un supermercato locale, furono le prime che dettero inizio a un vasto movimento di svolta rifiutandosi di vendere beni del Sud Africa. Ventinove anni più tardi, la Gran Bretagna si unì ad altri nell’imporre sanzioni sull’apartheid. Così, mentre i governi esitano per motivi cinici, oltre che per la paura di essere accusati di antisemitismo o forse per inibizioni islamofobiche, cittadini e attivisti, simbolicamente e fisicamente, fanno del loro meglio per informare, protestare e reclamare. Hanno una campagna più organizzata, quella del boicottaggio culturale, o possono unirsi ai loro sindacati in una politica coordinata di pressione. Possono utilizzare anche il loro nome o la loro fama per indicare a noi tutti che a questo mondo un popolo rispettabile non può accettare ciò che Israele fa e ciò che esso rappresenta. Non sono in grado di sapere se la loro attività determinerà un mutamento immediato o se saranno così fortunati da vedere una trasformazione durante la loro vita. Ma nella loro biografia, chi sono e che hanno fatto in vita, come pure secondo l’occhio inclemente del giudizio della storia, essi saranno annoverati tra coloro che non sono rimasti indifferenti quando la disumanità ha imperversato nelle loro stesse nazioni o altrove mascherata da democrazia.

D’altro canto in questo paese, cittadini, specialmente quelli più famosi, che continuano a far circolare, molto spesso non per ignoranza o per motivi più biechi, la favola di Israele come società di cultura occidentale o come “l’unica democrazia in Medio Oriente”, sbagliano e non solo dal punto di vista dei fatti. Essi forniscono l’immunità ad una delle maggiori barbarie del nostro tempo. Alcuni tra loro pretendono che si dovrebbe lasciare la cultura fuori dalle vicende politiche. Questo approccio alla cultura israeliana e a quella accademica come se fossero entità separate dall’esercito, dall’occupazione e dalla distruzione è moralmente perverso e logicamente morto e sepolto. Alla fine, un giorno l’indignazione dal basso, anche nella stessa Israele, farà mettere in campo una nuova politica – l’attuale amministrazione USA. sta già mostrando i primi segni di tutto ciò. La Storia non ha guardato in modo benigno quei produttori cinematografici che hanno collaborato con il senatore U.S. Joseph McCarthy negli anni 1950 o che hanno avallato l’apartheid. Un atteggiamento analogo sarà adottato nei confronti di coloro che ora stanno in silenzio sulla Palestina.

Un bel caso relativo alla questione è successo a Edimburgo il mese scorso. Il regista Ken Loach ha condotto una campagna contro le relazioni istituzionali e finanziarie che il film festival della città aveva con l’ambasciata d’Israele. Questa presa di posizione aveva lo scopo di inviare un messaggio secondo il quale l’ambasciata non rappresenta solo i registi cinematografici di Israele, ma anche i suoi generali che hanno massacrato il popolo di Gaza, i suoi aguzzini che torturano i palestinesi nelle carceri, i suoi giudici che hanno mandato in prigione 10.000 palestinesi – la metà di loro bambini – senza processo, i suoi sindaci razzisti che vogliono espellere gli arabi dalle loro città, i suoi architetti che costruiscono muri e barriere per isolare il popolo ed impedire che raggiunga i propri campi, le proprie scuole, i propri cinema e i propri uffici e i suoi politici che elaborano tuttora strategie per portare a termine la pulizia etnica della Palestina che iniziarono nel 1948. Ken Loach ha pensato che solo un appello al boicottaggio del festival nel suo insieme può riportare i suoi direttori ad un senso e a una visione morale. Ha avuto ragione; lo ha fatto, perché la questione è così ben definita e l’intervento così puro e semplice.

Non ci si deve sorprendere che si sia sentita una voce contraria. Questa è una battaglia continua che non sarà vinta facilmente. Mentre scrivo queste parole, noi commemoriamo il 42° anno dell’occupazione israeliana – la più lunga e una delle più crudeli nei tempi moderni. Ma il tempo ha fornito anche la lucidità necessaria per tali scelte. Questo è il motivo per cui l’azione di Ken è stata immediatamente efficace; la prossima volta perfino questo non sarà necessario. Uno dei suoi critici cercò di sottolineare il fatto che in Israele alla gente piacciono i film di Ken, quindi tutto quanto risultava come una forma di ingratitudine. Posso assicurare questo critico che quelli tra noi che guardano i film di Ken sono anche quelli che lo salutano per il suo coraggio e, a differenza di questo critico, noi non pensiamo che questo fatto equivalga a sollecitare la distruzione di Israele, ma lo riteniamo piuttosto come l’unico modo per salvare gli ebrei e gli arabi che vivono là. Ma, in ogni modo, è difficile prendere seriamente una tale critica quando viene accompagnata dalla descrizione dei palestinesi come un’entità terroristica e di Israele come una democrazia simile alla Gran Bretagna. Molti di noi nel Regno Unito si sono allontanati da queste scemenze propagandistiche ed sono pronti per il cambiamento. Ora stiamo aspettando che il governo di questa isola faccia lo stesso.

 

* Ilan Pappe insegna attualmente nel Dipartimento di Storia all’Università di Exeter (UK)

(traduzione mariano mingarelli, revisione ism-italia)

 


Fiera del libro I giornali in fiera una carrellata critica di Sergio Franzese (filosionista doc)

 

A quasi un mese dal suo esordio non accenna a placarsi la polemica divampata in merito alla Fiera del Libro di Torino, che vedrà Israele (di cui ricorre il 60° anniversario della fondazione dello Stato) come ospite d’onore ed alla quale è prevista la partecipazione di scrittori del calibro di Abraham Yehoshua, David Grossmann, Amos Oz ed altri. Si è ritenuto pertanto opportuno procedere ad un monitoraggio dei diversi interventi al fine di cogliere quanto sta emergendo attraverso la lettura quotidiana della rassegna stampa disponibile.

Questa breve sintesi prende in esame i pezzi giornalistici più significativi pubblicati in gennaio e nei primi giorni di febbraio (poco prima della chiusura di questo numero); nuovi articoli ed aggiornamenti usciranno sui prossimi numeri di Ha Keillah.

Aprono la rassegna in data 9 gennaio due articoli, uno sul Corriere della Sera [pag. 19] e l’altro su La Stampa. In entrambi si rende noto il dissenso manifestato dal segretario provinciale del Pdci, Vincenzo Chieppa, il quale chiede che alla Fiera del Libro sia invitata anche la Palestina. Il Corriere riferisce quanto afferma il deputato Giuseppe Caldarola (Pd): “Certa sinistra cova un’avversione per lo Stato ebraico che confina con l’antisemitismo”.

A Vincenzo Chieppa risponde in data 10 gennaio Elena Loewenthal su La Stampa [pag. 39], indirizzandogli una lettera aperta in cui sostiene che “celebrare una letteratura non significa screditarne un’altra”, sottolineando che “la protesta appare ottusa anche per altre ragioni. Perché ripropone per l’ennesima volta l’idea di un Israele “nemico globale”, come se tutto ciò che riguarda questo paese fosse a scapito d’altro: del suo avversario ma anche della giustizia stessa, della morale comune”. Elena Loewenthal ricorda infine che “esiste anche una letteratura palestinese che scrive magistralmente in ebraico. Arabi come il poeta Anton Shammas e il giovane narratore Sayed Kashua, che rispondono alla complessità del reale con un intreccio di identità, idee, culture, facendo propria la lingua dell’”altro” per antonomasia. Sfuggendo, loro per primi, agli sterili dogmatismi invocati dal segretario provinciale”.

Il 12 gennaio Maurizio Musolino, direttore di Rinascita, organo del Pdci, lancia un appello alla sinistra a boicottare la Fiera del Libro, definendo l’iniziativa “semplicemente vergognosa”, dal momento che egli identifica Israele come un male assoluto. Tra i destinatari dell’appello figura anche Liberazione, organo di Rifondazione Comunista, che con un esemplare articolo di Stefania Podda, pubblicato lo stesso giorno in prima pagina, rispedisce al mittente l’invito. Scrive Podda: “Il boicottaggio culturale è un’arma politica? No, non lo è. È una risposta sbagliata e pericolosa che porta all’isolamento e alla radicalizzazione delle posizioni, che porta a chiusure identitarie vanificando quelle aperture e quelle libertà di cui la cultura è portatrice. E che non giova a nessuna causa. Nemmeno a quella palestinese”, e prosegue “l’orazione di David Grossmann al funerale del figlio Uri, morto in Libano, è uno dei più bei testi sull’assurdità della guerra e sulla sconfitta di una società che ha perso i suoi ideali. Davvero – si chiede Stefania Podda – non è interessante e non è giusto ascoltare la sua voce?”.

Si può tranquillamente affermare che le parole di questa giornalista volano decisamente più in alto di quelle che la circondano e che l’allarme con cui conclude il suo articolo è assolutamente serio e condivisibile: “chiamare al boicottaggio culturale di Israele, sovrapponendo piani diversi, rischia di alimentare l’antisemitismo. E stavolta – basta fare un giro su molti siti – il giusto diritto di critica alla politica israeliana non c’entra nulla. Bisognerebbe tenerne conto”.

La spaccatura prodotta dall’articolo di Liberazione non passa inosservata. Il giorno successivo, 13 gennaio, il Corriere della Sera [pag. 39] titola infatti: “Israele ospite alla Fiera del Libro fa litigare i partiti comunisti”. Sullo stesso argomento interviene Il Riformista [pag. 7] in data 14 gennaio che sotto il titolo “Il “kulturkampf” del Pdci contro Israele”, afferma: “l’appello anti-Fiera ha ricevuto le prime picche” e si tratta di picche “rosse”.

Su Il Foglio [pag. 5] del 17 gennaio leggiamo: “Niente da fare, si va avanti, e si minacciano tempi grami per una fiera del libro che a maggio, annuncia un sito militante, “dovrà fare i conti con una iniziativa di contestazione forte e dispiegata a tutti i livelli””.

Argomento ripreso da Il Giornale [pag. 37] il giorno successivo, 18 gennaio, con un articolo a firma di Matteo Sacchi, nel quale si dice: “Peccato che la semplice esistenza di Israele sia considerata da alcuni un’offesa alla giustizia” e che “a far venire un groppo in gola agli amanti del confronto culturale sono non tanto le prese di posizioni “ufficiali” quanto, piuttosto, tutto il cascame che ne è conseguito su Internet”. Un cascame, è facile immaginare, farcito di espressioni e di simboli antisemiti.

In un intervento dal titolo “Fiera del libro, dietro le quinte c’è la Palestina”, pubblicato il 19 gennaio sul Manifesto [pag. 2], Stefano Sarfati Nahmad tenta di fornire una giustificazione morale al dissenso e lo fa ricorrendo ad una strategia consolidata, creando un parallelismo tra la sofferenza patita dagli ebrei nella shoah e la sofferenza dei palestinesi, per giungere ad accusare la classe dirigente israeliana di essere “accecata dalla brama dell’espansione territoriale, di aver portato oggi a una situazione sul terreno tale da rendere impossibile la soluzione dei due Stati” e di “praticare l’apartheid”. In conclusione afferma: “Non so cosa pensare del boicottaggio, penso solo che se fossi uno scrittore palestinese ci penserei due volte prima di andare a Torino a rendere credibile il “prodotto Israele” nella celebrazione dei suoi sessant’anni”.

Sempre sul Manifesto [pag. 11], il 22 gennaio, Michelangelo Cocco intervista il fondatore della campagna per il boicottaggio culturale di Israele, Omar Barghouti, il quale afferma di credere che “Yehoshua, Oz e Grossmann (che figurano tra gli invitati alla Fiera del Libro) siano razzisti, perché giustificano la pulizia etnica dei palestinesi durante il conflitto del 1948 e non credono che la pace debba basarsi sul diritto internazionale”.

Secondo Barghouti “non esistono vie di mezzo tra oppressore ed oppresso” e neppure una presenza dei palestinesi alla Fiera del Libro, a sancire una sorta di “par condicio”, potrebbe essere considerata una soluzione soddisfacente.

Auspica infine che “bisogna battersi per isolare Israele, anche nel campo accademico e culturale, perché le istituzioni accademiche e culturali in Israele sono complici dei crimini dello stato”.

Dopo queste affermazioni non vale neppure la pena soffermarsi a conoscere più da vicino chi le ha pronunciate. Diciamo solo che Omar Barghouti, il quale si presenta come analista politico palestinese indipendente (ma che secondo alcuni sarebbe nato in Qatar e cresciuto in Egitto), fu ospite del Prof. Angelo D’Orsi all’edizione 2007 di FestivalStoria, occasione in cui si prodigò nel dichiarare senza contraddittorio tutto il disprezzo di cui è capace nei confronti dello Stato di Israele (vedasi il resoconto pubblicato sul precedente numero di Ha Keillah a firma di David Terracini).

A sparigliare le carte della polemica ci pensa Valentino Parlato il 24 gennaio, ancora dalle colonne della prima pagina del Manifesto, con una presa di posizione che farà discutere. In controtendenza con il fronte di chi si è andato allineando sulle posizioni di Chieppa, Musolino e Barghouti (citati in ordine di estremismo politico e di intolleranza), Parlato afferma di “essere nettamente contrario al boicottaggio contro questa fiera del libro (il libro va sempre rispettato) e contro lo Stato di Israele”. Una posizione che ovviamente condividiamo ma non a condizione, come sembrano invece lasciare intendere le sue parole, che se ne giustifichi l’esistenza a titolo di risarcimento per le persecuzioni ed i campi di sterminio.

Affermazioni, quelle di Valentino Parlato che suscitano un’ondata di lettere di critica, tra cui anche quella di Michele Giorgio, corrispondente della stessa testata in Israele e nei territori palestinesi. Da una loro lettura, a pagina 2 del Manifesto del 27 gennaio spiccano frasi che mostrano quale sia la percezione di Israele radicata in una parte della sinistra che, avendone rinnegato i principi ed i valori fondanti, ha evidentemente abdicato alla prerogative umane della ragione e del discernimento. Alcuni citano Israele come “uno stato etnico, anzi, di più, stato religioso”, altri parlano di “feroci scelte politiche e militari di uno degli stati più spietati del mondo”, altri ancora di “un popolo che fu vittima e che si trasforma in carnefice”. Parole che udiamo troppo spesso e di fronte alle quali non possiamo restare in silenzio.

Nella sua risposta Valentino Parlato si richiama ancora una volta alle persecuzioni subite dal popolo ebraico e rinnova l’invito a desistere dal boicottaggio, senza per questo rinunciare al diritto di critica alla politica di Israele.

Il Sole 24 Ore [pag. 13] del 24 gennaio ci informa che lo scrittore palestinese Ibrahim Nasrallah, in polemica con le scelte degli organizzatori, rifiuta di partecipare alla manifestazione torinese

Il Corriere della Sera, in data 25 gennaio [pag. 15] e 28 gennaio [pag. 16] ed Il Foglio [pag. 2] del 29 gennaio, riferiscono delle numerose voci che nella sinistra più radicale, quella in cui “covano umori rancorosi contro Israele”, si sono levate contro Valentino Parlato. “Boicottano Israele a Torino mentre in Libano un macellaio islamista agita come emblemi di ricatto i poveri resti dei soldati ebrei”, scrive ancora su Il Foglio Giulio Meotti, ed aggiunge una triste verità: “Questa sinistra ha dimenticato la lezione di Pier Paolo Pasolini, che su Nuovi Argomenti del giugno 1967 paragonava l’invasione nazista dell’Italia all’invasione araba del nascente stato ebraico. “Nel lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del 1944: ho capito, per mimesi, cos’è il terrore dell’essere massacrati in massa. Ma ho capito anche che gli israeliani non si erano affatto resi a tale destino””.

Ancora il 29 gennaio, mentre dall’Egitto arriva un altro invito al boicottaggio, già deciso dall’Associazione degli scrittori giordani, lo scrittore iracheno, torinese di adozione, Younis Tawfik, in linea con la sua vocazione al dialogo ed ai principi democratici, lancia dalle colonne del Corriere della Sera [pag. 47] un appello coraggioso invitando gli scrittori arabi a venire a Torino per parlare con gli israeliani e cercare il confronto. Tawfik definisce senza mezzi termini l’iniziativa del boicottaggio “poco diplomatica, inadeguata e controproducente, inutile tanto alla causa palestinese quanto alla causa araba” (come Tawfik anche lo scrittore marocchino Tahar Beh Jelloun, il romanziere ed editorialista egiziano Gamal Ghitani e lo studioso Khaled Fouad Allam si sono espressi contro il boicottaggio).

Sempre in data 29 gennaio Valentino Parlato attraverso un’intervista pubblicata da La Stampa [pag. 39] torna ad esprimersi riconoscendo l’esistenza di un antisemitismo di sinistra come conseguenza della nascita dello Stato d’Israele.

David Bidussa, in un articolo del 30 gennaio su Il Secolo XIX [pag. 23] dal significativo titolo “Fiera del Libro, l’errore della sinistra su Israele” scrive, tra l’altro, che la richiesta di coinvolgimento dell’Anp spacciata come misura di par condicio in realtà vuole affermare l’idea che “Israele non è uno Stato. Esiste e ha diritto ad esistere solo come parte di uno Stato che ancora non c’è e che si chiamerebbe “Stato binazionale di Palestina”. Un disegno politico dissoltosi settant’anni fa”.

Nello stesso giorno su L’Opinione [pag. 6], La Stampa [pag. 32] e L’Unità [pag. 26] si registrano tre interventi, rispettivamente di Dimitri Buffa (L’odio contro Israele protagonista a Torino), Giovanni De Luna (La Fiera invita Israele perché ama il dialogo) e Fulvio Abbate (Il Libro del dialogo). Scrive quest’ultimo: “sono pervenuto alla convinzione che Israele, la società israeliana, al di là d’ogni limite e deficit che possa giungere dai suoi uomini politici, rappresenta comunque un luogo dove il dibattito democratico è garantito, dove si possa affermare lo stesso principio di laicità, di libertà. Temo di non poter dire le stesse cose, di non provare la medesima sensazione davanti alla gestione, la trasparenza dell’Autorità nazionale palestinese”.

Sul Manifesto [pag. 2] del 30 gennaio Ester Fano lancia la proposta di “chiedere alle non poche case editrici che hanno pubblicato libri sul conflitto israelo-palestinese di organizzare intorno ad essi un certo numero di dibattiti e seminari all’interno della Fiera”, mentre Ibrahim Nasrallah, poeta palestinese, chiede agli organizzatori della Fiera di Torino di cambiare rotta correggendo l’”errore” dell’invito rivolto ad Israele come ospite d’onore. Gennaio si chiude con un articolo su L’Avvenire [pag. 31] dal titolo “La normalità negata: Israele e la fiera”. Concetto ripreso da Ugo Volli, presidente della Sinagoga Liberale Lev Chadash, su La Stampa [pag. 38] il giorno successivo, 1 febbraio: “quel che si nega in questo modo a Israele è la normalità della separazione fra politica e cultura, la responsabilità personale delle posizioni politiche assunte da ciascuno, la distinzione tra politiche contingenti e identità collettiva. Di qui la scelta di un boicottaggio che manifesti l’indegnità di Israele a sedere nel consesso delle nazioni”. “Perché – si chiede ancora Ugo Volli – non lo si fa naturalmente per altri Stati che hanno politiche discutibili e discusse (la Cina in Tibet, la Russia in Cecenia, la Turchia in Kurdistan, il Marocco nel Sahara occidentale, il Sudan, l’Iran, la Siria e la Libia nei confronti dei loro cittadini?)”. Ancora su La Stampa [pag. 38] Suad Amiry, scrittrice palestinese, interviene definendo “un gesto infelice” l’invito di Israele da parte degli organizzatori della Fiera del Libro. Il Corriere della Sera [pag. 57] registra invece l’ira degli sponsor ed il rischio che i finanziatori dell’iniziativa potrebbero ad un certo punto tirarsi indietro.

Il 2 febbraio La Stampa [pag. 17], Il Corriere della Sera [pag. 45] e Libero [pagg. 24-25] riportano quella che viene definita la “fatwa” di Tariq Ramadan, discusso intellettuale musulmano (e nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani in Egitto), scrittore “che si è sempre definito uno che costruisce ponti” ma che “questa volta – scrive l’articolista de La Stampa – il ponte lo ha buttato giù”. Il suo invito a disertare la manifestazione appare infatti perentorio. In un altro articolo lo stesso quotidiano ci informa che, a causa dell’invito di scrittori israeliani, scricchiola anche la kermesse di Parigi, che aprirà i battenti il 14 marzo.

Con un duro e provocatorio intervento su Il Foglio [pag. 2] Giorgio Israel avanza l’ipotesi di una rinuncia da parte di Israele: “o a Torino con dignità e libertà e senza umilianti compromessi, oppure in altre sedi libere tra uomini liberi”. Avvenire [pag. 25] ospita, sempre in data 2 febbraio, un’intervista a David Grossmann “che da parte sua ribadisce la necessità di usare l’arte in tutte le sue forme, per gettare ponti fra culture e religioni”. Ancora lo stesso giorno, tre articoli su Libero [pag. 1 / 24-25], uno dei quali riporta le posizioni di Ferrero, direttore della manifestazione: “Israele non si tocca. Ai Comunisti Italiani che si lamentano ho chiesto di proporre qualche nome alternativo. Sto ancora aspettando una risposta”.

Il 3 febbraio sono ben nove gli articoli dedicati alla questione che, dall’inizio delle polemiche, registra una crescita esponenziale di interventi. Tre sono gli articoli di Repubblica [pag. 16] ancora “Sinistra divisa. Mediazione a Torino, nasce uno stand palestinese”. Inoltre, a proposito dell’intervento di Valentino Parlato sul Manifesto: “il “padre” del quotidiano critica il boicottaggio e riceve una valanga di lettere”. Nell’articolo si riporta anche il pensiero di Moni Ovadia, contrario all’ipotesi di boicottaggio: “Certa sinistra purtroppo ha difficoltà a rapportarsi con la complessità del reale, continuo ad avvertire un nodo non limpido sulla questione di Israele e della sua legittimità ad esistere”.

Infine, a pag. 17, lo scrittore ebreo Marek Halter intervistato da Giampiero Martinotti, afferma: “Tutti quelli che hanno voluto massacrare gli ebrei hanno cominciato bruciando i loro libri”.

Marco d’Eramo interviene sul Manifesto [pag. 2] asserendo che “Il bavaglio è sempre un boomerang. Sotto l’apparenza di una virtuosa coltre di censura morale, la logica del boicottaggio nasconde in realtà la logica dello sterminio reciproco”.

Dei tre articoli che Libero [pag. 15 e pag. 27] dedica alla questione ci preoccupa sapere, per bocca di Andrea Ronchi deputato di AN, che al salone del Libro di Torino, Alleanza Nazionale “sarà in prima linea contro coloro che vogliono tappare la bocca agli scrittori israeliani”. Basta poco per capire che questa vicenda, che nasce all’interno della sinistra, rappresenta per la destra, per quei “nuovi amici di Israele che – come dice Furio Colombo – vengono dalla parte sbagliata della storia”, una ghiotta occasione politica.

Pierluigi Battista sulla prima pagina del Corriere della Sera esorta a sfidare il boicottaggio. “Stavolta bisogna fare barriera. Stavolta non è possibile non avvertire il divario morale tra le immagini ancora fresche del raccoglimento per la Giornata della Memoria e l’intimazione al silenzio minacciata contro gli scrittori ebrei”.

Questa rassegna per ragioni di spazio e di tempo deve arrestarsi qui. È però doveroso citare ancora l’intervento del Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che in una intervista televisiva di Lucia Annunziata andata in onda su Raitre il 3 febbraio, ha affermato in modo inequivocabile la sua contrarietà al boicottaggio, prendendo nettamente le distanze da un comunicato della federazione provinciale del PRC torinese in cui veniva giudicato inopportuno l’invito di Israele alla Fiera del Libro e si chiedeva agli organizzatori di fare marcia indietro. La dichiarazione di Bertinotti, condivisa anche da Giovanni Russo Spena, presidente del gruppo di Rifondazione al Senato, è stata rilanciata il giorno successivo da diversi quotidiani.

In conclusione citiamo Amos Oz che in un’intervista pubblicata su La Stampa [pag. 34] del 3 febbraio a proposito delle proteste di cui è bersaglio La Fiera del Libro ci fa sapere di credere che “la maggioranza delle persone e degli uomini abbia una mentalità diversa da chi è fedele al principio “o tu o io””. È quello che osiamo sperare anche noi, malgrado in questo momento la voce della ragione appaia offuscata dalle urla scomposte di chi, identificando l’altro come “nemico”, lo vorrebbe annientare.

 

Qualcuno ha paragonato il clima di questi giorni alla campagna del 1937, che precedette l’emanazione delle leggi razziali. Ci piacerebbe credere che si tratti di un paradosso, consapevoli però che non bisogna abbassare la guardia e che sta a ciascuno di noi prevenire in ogni momento eventi che rischiano di riportare le lancette della storia a quegli anni bui.

 

Sergio Franzese

 

 

 

 

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