Donne palestinesi nelle carceri israeliane.

Di Jon Elmer

IPS – Betlemme, 7 agosto 2009.  Nel suo ufficio al Centro di consulenza delle donne di Betlemme, Khawla al-Azraq fa un resoconto dei suoi ricordi delle carceri israeliane, come se fosse stato ieri: la routine fisica e gli abusi psicologici, le perquisizioni notturne, gli scioperi della fame ed altre azioni collettive di protesta contro le proprie condizioni, nonché le intense sedute di studio con le sue compagne di prigione.

“Mi riesce ancora difficile riportare certi fatti – ci racconta Khawla – , specialmente le torture e i lunghi periodi in isolamento. Il carcere non è una vita normale. Gli impatti psicologici influenzano la propria visione del mondo dopo il rilascio, e i problemi che ci si porta dietro dal carcere influenzano la propria famiglia, la propria comunità – ogni aspetto della vita.”

Khawla ha scontato tre diverse condanne, a cominciare dal 1979 fino all’insurrezione palestinese che ebbe inizio nel 1987. È una delle circa 12.000 donne rinchiuse in cella da Israele dopo il 1967, secondo un recente rapporto della Società dei detenuti palestinesi, un ramo dell’Anp.

Secondo il rapporto, l’arresto delle donne è parte di una politica d’incarcerazioni condotta da Israele ai danni dei palestinesi, che ha portato a più di 700.000 arresti da quando cominciò l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, 42 anni fa. Attualmente, oltre 11.000 palestinesi vivono nelle celle israeliane.

In aggiunta, un documento pubblicato dall’associazione Difesa internazionale dell’infanzia rivela che, alla fine di giugno, erano almeno 355 i bambini palestinesi tenuti in carcere dallo stato sionista.

‘Abdallah az-Zeghari, direttore della sede di Betlemme della Società dei detenuti palestinesi, ha spiegato all’IPS che, mentre è vero che le donne subiscono pressioni significative all’interno delle prigioni israeliane, incluse perquisizioni con denudazione, igiene scadente, condizioni di vita al di sotto dello standard, rigide restrizioni alle visite familiari e lunghi periodi d’isolamento, occorre ricordare che il trattamento riservato al “gentil sesso” è parte di una strategia generale di misure punitive indirizzata a tutti gli attivisti palestinesi, e non solo alle attiviste.

“Israele tratta tutti i detenuti palestinesi in modo severo, senza alcun riguardo se siano donne, uomini o bambini – li considerano tutti palestinesi.”

Gli abusi sistematici israeliani sono stati a lungo documentati dai gruppi per i diritti umani: almeno 196 palestinesi sono finora morti mentre si trovavano in cella, secondo az-Zeghari: “Alcuni di loro sono stati uccisi dalle torture, ad altri hanno sparato dopo l’arresto, ed altri ancora sono morti per non aver ricevuto le cure mediche necessarie.”

Secondo ad-Damir, un’organizzazione umanitaria palestinese a sostegno dei detenuti, le prigioniere vivono invece “in condizioni più dure degli uomini, all’interno di celle che risalgono al periodo del Mandato britannico (1922-1948) e che mancano d’infrastrutture moderne o di assistenza sanitaria femminile. Umide, anti-igieniche, prive d’illuminazione esterna e sovraffollate, queste strutture sono state progettate da uomini e per uomini, e raramente vengono incontro alle necessità delle donne.”

La stessa Khawla testimonia che queste ultime affrontano delle sfide piuttosto difficili quando cercano di portare avanti i propri studi in carcere. A differenza dei detenuti maschi, che hanno accesso a corsi parificati di scuola superiore, alle donne non viene uniformemente accordato lo stesso tipo di accesso.

Ciononostante, i periodi di prigionia non sono tempi morti. I palestinesi definiscono spesso le prigioni come le università del movimento nazionale, dove hanno luogo lunghe sedute di studio e mobilitazioni politiche critiche: “Sapevamo cosa dovevamo fare ad ogni ora del giorno – non perdevamo mai tempo” commenta Khawla.

Il coordinamento politico tra le carceri d’Israele ha migliorato le condizioni dei detenuti palestinesi negli ultimi 40 anni. Poter ricevere visite ed accedere ai libri e ad altro materiale sono state vittorie dure da ottenere, ma conseguite attraverso faticosi scioperi della fame, e a dispetto delle rigide misure adottate dalle autorità israeliane nel contrastare i progressi.

“La forza che guadagnamo dall’azione collettiva e il nostro concentrarci sul progetto nazionale rende questo tipo di esperienza più facile.” prosegue Khawla “Abbiamo imparato ad essere più pazienti, più attente e più stabili nella nostra Resistenza.” Addirittura, lei stessa si rifiutò di essere rilasciata due settimane prima della data prevista: “Fui colta di sorpresa, ed ero confusa perché mi ero preparata per una certa data, e c’era dell’altro lavoro da fare”.

Il lavoro in questione ruotava tutto intorno alla Resistenza. “Dopo la mia prima esperienza ho cominciato a leggere intensamente testi sulle tecniche d’interrogatorio e di tortura – per comprendere il carcere nell’ottica della nostra Resistenza.”

Da parte loro, i palestinesi stanno trattenendo presso di loro un solo prigioniero israeliano – un caporale catturato dopo un’incursione dei militanti in una postazione israeliana sul confine di Gaza nel giugno 2006. Hamas, che ha in custodia il detenuto, ha testualmente offerto di rilasciarlo in cambio delle donne e dei bambini rinchiusi nelle carceri israeliane.

Negoziati condotti in vista di un simile scambio si sono rivelati finora infruttuosi. Israele si è mostrata riluttante a trattare fin dall’insurrezione palestinese, l’Intifada, avviata nel settembre del 2000.

Nel 2003, Avigdor Lieberman – ora ministro degli Esteri – rispose alle pressioni ricevute dall’allora presidente USA George W. Bush per la liberazione di alcuni detenuti palestinesi, come previsto dalla proposta di pace della Road Map – fallita in partenza – , affermando nel corso di una riunione di gabinetto: “Sarebbe meglio affogare questi prigionieri nel Mar Morto se possibile, visto che si tratta del punto più basso del mondo.” Aggiunse inoltre che, in qualità di ministro dei Trasporti, avrebbe fornito degli autobus per portare a termine l’operazione.

Nei nove anni seguiti all’inizio dell’Intifada, più di 70.000 palestinesi sono stati arrestati dalle autorità israeliane, secondo az-Zeghari, e tra loro almeno 850 donne. Ad ogni modo, in uno stato ininterrotto di occupazione dati precisi sono difficili da ottenere in qualsiasi circostanza.

“Non è facile per noi indicare un numero esatto – afferma infatti l’attivista – , dal momento che gli israeliani invadono costantemente la Cisgiordania per effettuare arresti. È quella che noi chiamiamo ‘la porta girevole’: alcuni sono stati arrestati e rilasciati più di 10 volte!”

L’ultimo rapporto settimanale del Centro palestinese per i diritti umani (relativo alla settimana dal 23 al 29 luglio 2009) cita 214 arresti – che hanno incluso due bambini – , avvenuti durante almeno 21 incursioni dell’esercito israeliano in Cisgiordania.

“Come in qualunque comunità umana, esistono delle contraddizioni – commenta Khawla – , ma esiste anche un filo conduttore nell’esperienza in carcere che ci dà forza, ci fornisce un obiettivo comune, uno scopo comune. Siamo unite nella lotta, e le nostre esperienze ci rendono solo più forti.”

(END/2009)

 

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