Il New York Times si pronuncia sulla destabilizzazione del Medioriente

Di Chris Marsden. Information Clearing House. Con la guerra settaria in Siria, sostenuta dagli occidentali per il cambio di regime, che si sta riversando tanto in Iraq quanto in Libano tra le diverse forze che si originano nella divisione tra sunniti e sciiti, il New York Times si è fatto avanti attribuendo la responsabilità di questo scenario da incubo all’insufficiente impegno di Washington nella regione.

“Il vuoto di potere in Medioriente favorisce i militari”, afferma la voce dell’imperialismo liberale in un articolo del 4 gennaio 2014.

Il “giornale dei record” americano cita alcuni combattimenti nelle città iraqene di Falluja e Ramadi che coinvolgono “uomini armati e mascherati” combattendo i quali “tanti soldati americani sono morti”.

Esso accolla tutti i conflitti nella regione “all’emergere di un Medioriente post-americano in cui nessun intermediario ha il potere o la volontà di contenere gli odi settari della regione”.

Da quanto ci viene detto, è questo che ha permesso ai “fanatismi islamici” di prosperare in Iraq e la Siria. Il Times attribuisce in seguito questa situazione alle lotte tra “due grandi potenze petrolifere, Iran e Arabia Saudita, i cui governanti, con la pretesa di rappresentare rispettivamente l’Islam sciita e sunnita, cinicamente si impegnano in un’agenda settaria che rende qualsiasi tipo di accordo praticamente un’eresia”.

“Mettere in relazione tutto questo caos è un crescente appello sempre più evidente alle ataviche alleanze a livello di clan e sette”, aggiunge il Times.

Il giornale fa un breve riferimento agli Stati Uniti che hanno scatenato la guerra civile in Iraq con un’invasione che viene poi giustificata come un “tentativo di costruzione della nazione americana”.

Questa spiegazione degli avvenimenti in corso in Medioriente equivale ad una falsificazione intenzionale ed interessata della storia.

La colpa è della crescente crisi che giace sulla porta della Casa Bianca, non a causa di una politica fallita, bensì a causa dei suoi sforzi storici ed attuali di dominare la regione e le sue ricchezze petrolifere.

La prima guerra del Golfo nel 1990, l’invasione dell’Iraq nel 2003, la guerra in Libia del 2011 ed i successivi tentativi per rovesciare il regime di Assad in Siria erano tutti finalizzati ad eliminare l’Iraq e l’Iran nella veste di potenze regionali ed a garantire un’indiscussa egemonia degli Stati Uniti. In ogni caso, gli Stati Uniti sono stati in prima linea nell’incoraggiare e promuovere le “ancestrali lealtà nei confronti di clan e sette”, attraverso una politica di costruzione di fronti di potenze regionali come forze delegate per modellare il Medio Oriente a proprio piacimento.

Citando “l’arco sciita di estremismo” gli Stati Uniti hanno risposto al rovesciamento dei propri regimi clienti in Tunisia ed Egitto nel 2011 attraverso la deposizione del regime di Gheddafi in Libia, sostenendo in Egitto la guida dei Fratelli Musulmani, per poi assemblare una coalizione di poteri sunniti guidati da Turchia, Arabia Saudita e Qatar per spostarsi contro il regime baathista siriano come precursore di un’azione contro l’Iran. Le forze di opposizione che hanno costruito in Siria erano basate su un nucleo di islamisti legati ad al Qaeda.

La politica si è rivelata un terribile fallimento a causa della quale gli Stati Uniti stanno ora soffrendo un contraccolpo su larga scala: questo è ciò che ha generato le lamentele espresse dal New York Times. Di fronte alla schiacciante opposizione interna alla guerra ed alla minaccia di un conflitto diretto con la Russia, gli Stati Uniti hanno sfruttato l’occasione dell’accordo mediato dalla Russia per il disarmo chimico della Siria e la successiva offerta dell’Iran di un avvicinamento come un mezzo alternativo per far valere i propri interessi.

Questo ha alienato e gettato in una crisi politica i suoi precedenti alleati regionali.

La Turchia, per esempio, voleva affermarsi come potenza regionale, con la proposta del partito di giustizia e sviluppo del primo ministro Erdogan avanzato come modello islamista per altri regimi filo-occidentali. Ma l’abbandono degli Stati Uniti del supporto ai Fratelli Musulmani in Egitto e poi la loro ritirata nella guerra contro la Siria hanno destabilizzato Erdogan, che accusa Washington di sponsorizzare un tentativo di colpo di stato contro di lui guidato da Fethullah Gulen, un religioso musulmano con base in Pennsylvania.

L’Arabia Saudita ha dichiarato che d’ora in avanti seguirà un percorso indipendente da quello di Washington per quanto riguarda la Siria ed a livello internazionale, rifiutando un seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per protestare contro lo spostamento sulla Siria e l’apertura degli Stati Uniti ai colloqui sul nucleare con l’Iran. L’ambasciatore saudita a Londra, il principe Mohammed bin Nawwaf, ha scritto sul New York Times il 17 dicembre che “questo significa che il Regno Saudita non ha altra scelta se non quella di diventare più risoluto negli affari internazionali… Agiremo per adempiere tali responsabilità, con o senza il supporto dei nostri partner occidentali”.

Il principe ha affermato che il continuo armamento all’opposizione siriana da parte della monarchia saudita è una prova della sua indipendenza. Avrebbe potuto anche citare il suo coinvolgimento nei combattimenti in Iraq, proprio dove il cambiamento di politica degli Stati Uniti è più evidente, occasione in cui Washington sta armando tanto gli sciiti quanto il regime filo-iraniano di Nour al-Maliki, con 36 aerei caccia “Lockheed Martin F-16 IQ Block 52” per combattere le stesse forze sunnite di Al Qaeda che erano, fino a poco tempo fa, impiegate come delegati nella vicina Siria.

In alleanza con un nuovo partner imperialista, l’Arabia Saudita ha promesso un massiccio investimento di 3 miliardi dollari per pagare le armi fornite dal governo del presidente francese Francois Hollande all’esercito libanese al fine di colpire gli Hezbollah, alleati di Iran e Siria.

Queste squallide manovre dimostrano soltanto che ogni potenza imperialista si attiene all’ingiunzione restrittiva di Lord Palmerston , “Non abbiamo alleati eterni né nemici perpetui. I nostri interessi sono eterni e perpetua ed è nostro dovere seguire tali interessi”.

Ciò che sta avvenendo in Medioriente è un’evidente politica di potenza imperialista, in cui è del tutto possibile che, almeno per una volta, i nemici di ieri possano diventare alleati di domani e viceversa.

Tuttavia, se i regimi del Medioriente di tanto in tanto si presentano come “anti-imperialisti” o meno è unicamente motivato da considerazioni tattiche, soprattutto per la necessità di atteggiarsi come tali nei confronti delle loro stesse popolazioni. Nella misura in cui uno qualunque dei poteri borghesi della regione si trovasse in conflitto con gli Stati Uniti, esso non desidera altro che una sistemazione che gli permetta di continuare a presiedere lo sfruttamento della classe operaia e dei poveri delle aree rurali.

Il settarismo e la rivalità tra clan non sono sopravvivenze ataviche di un’epoca passata. Essi sono utilizzati come strumento per mantenere una presa sugli operai ed i contadini e per favorire il supporto nel contendersi i regimi borghesi. A ciò è stato attribuito un peso aggiuntivo dal fallimento dei movimenti nazionalisti laici e dai regimi – in Egitto, Iraq, Siria e Palestina – per mettere a disposizione dei genuini e reali strumenti per combattere la dominazione straniera e garantire il progresso sociale.

Il Medioriente oggi si trova prima di tutto come prova del ruolo maligno dell’imperialismo nel costringere la massa di persone nel mondo a soffrire di una povertà opprimente, di livelli brutali di sfruttamento e della sempre crescente minaccia di guerra. In secondo luogo, è una severa conferma dell’incapacità della borghesia nazionale di contrastare l’oppressione imperialista.

L’unica forza anti-imperialista inarrestabile nel mondo è costituita dalla classe operaia internazionale. Il compito fondamentale affidato ai lavoratori del Medioriente è quello della costruzione di un nuovo movimento socialista che diffonda il suo appello indipendentemente da tutte le distinzioni nazionali e religiose costruite. A loro volta, i lavoratori degli Stati Uniti e di altri paesi imperialisti devono respingere con disprezzo gli sforzi cinici da parte del New York Times et al. di legittimare o nascondere le rapaci mire dei loro governi sulle risorse e sui mercati strategici del mondo attraverso la costruzione di un forte movimento socialista contro la guerra.

Traduzione di Erica Celada