La battaglia di Mumbai, il Pakistan e lo spettro di al-Qa‘ida.

Riceviamo da Apriti Sesamo e pubblichiamo.

Editoriale del prof. Michelguglielmo Torri per la rivista svizzera Galatea 
sui recenti fatti in India e sul possibile coinvolgimento pakistano.


La battaglia di Mumbai, il Pakistan e lo spettro di al-Qa‘ida

L’attacco terroristico di Mumbai (Bombay) è iniziato il 26 novembre e si
è definitivamente concluso il 29. Dieci uomini – bene armati, bene
addestrati e altamente motivati – sono sbarcati dal mare e hanno
condotto una complessa operazione che ha preso di mira la principale
stazione ferroviaria di Mumbai, un ospedale, i due più lussuosi alberghi
della città (il Taj Mahal e l’Oberoi-Trident), un centro ebraico (la
Nariman House) e alcuni obiettivi minori. I morti sono stati poco meno
di 200, compresi 20 appartenenti alla polizia o ai corpi speciali, e 22
stranieri di varie nazionalità, compresi nove israeliani (alcuni con una
doppia cittadinanza).

Fin dall’inizio, l’attacco ha avuto due caratteristiche ben chiare: la
prima è che il suo livello operativo è stato talmente alto da indurre a
pensare alla mano di un servizio segreto straniero (e anche di un
servizio segreto di notevoli capacità); la seconda caratteristica è che
la facilità con cui i terroristi si sono mossi nella città presupponeva
complicità a livello locale, quanto meno nella preparazione dell’azione.

Da queste ovvie constatazioni discendono logicamente due domande: quale
servizio segreto straniero? quale tipo di complicità a livello locale?

Fin dalle prime ore dell’attacco, alcuni esperti, indiani e non, hanno
puntato il dito contro il Pakistan. In genere, costoro hanno anche messo
in luce come, a differenza di quanto era stato il caso negli anni 80 e
90, quella del 26-29 novembre non era un’azione voluta dai vertici
politici e, probabilmente, neppure dai vertici militari pachistani. Ad
essere dietro all’attacco a Mumbai erano, piuttosto, settori deviati
delle forze armate e/o dei servizi segreti. Da questo punto di vista,
l’obiettivo perseguito dai registi dell’attacco era duplice: non solo
colpire il nemico di sempre, l’India, ma mettere in difficoltà il
governo pachistano. Dopo tutto, sia sotto Musharraf sia sotto Zardari, i
vertici politici pachistani hanno portato avanti uno sforzo di
normalizzazione dei rapporti con l’India. Tale sforzo, seppure senza
raggiungere risultati definitivi (e più per le ambiguità e per le
incertezze dell’India che per quelle, che pure vi sono state, del
Pakistan), ha portato ad un notevole miglioramento nei rapporti fra i
due paesi.

Se si esaminano le cose in questa prospettiva è significativo il fatto
che, il 26 novembre, la data d’inizio dell’attacco a Mumbai, è la stessa
in cui gli /Home Secretaries /dei due paesi (cioè i burocrati più alti
in grado dei ministeri dell’Interno di India e Pakistan) avevano siglato
una serie di importanti accordi per promuovere il riavvicinamento fra i
due paesi. Fra questi vi erano l’apertura al movimento di uomini e di
merci di tratti della frontiera che separa il Kashmir indiano da quello
pachistano e la collaborazione nella lotta al terrorismo. Inoltre,
sempre il 26 novembre, il ministro degli Esteri pachistano era a
colloquio a Delhi con il suo omologo indiano, di nuovo per portare
avanti la normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi.

Quali e perché le complicità locali? In India vi è una minoranza
musulmana che ammonta ad almeno 120 milioni di persone; come documentato
anche da un rapporto ufficiale dell’anno scorso, preparato per conto del
governo da un’/équipe/ capeggiata dal giudice Sachar, si tratta di una
comunità marginalizzata sia economicamente sia politicamente, tanto che
solo i fuoricasta vivono una paragonabile situazione di disagio.
Inoltre, a partire dalla fine degli anni 80, la situazione dei musulmani
indiani è stata resa ancora più precaria dall’ascesa politica del
fondamentalismo indù, che li ha fatti oggetto di una serie di violenze;
in alcuni casi, tali violenze si sono tradotte in veri e propri
/pogrom/, a cui hanno partecipato anche le forze di polizia. Nel caso
più grave – il /pogrom /verificatosi in Gujarat nel 2003 e proseguito
per mesi – vi sono stati 2000 morti e circa 150.000 profughi interni
(persone, cioè, che, per mettere in salvo la propria vita, hanno dovuto
fuggire dalle loro case e dai loro luoghi di lavoro, abbandonandoli al
saccheggio e alla distruzione da parte dei fondamentalisti indù, spesso
coadiuvati dalle forze di polizia). Fatto ancora più grave, per quanto i
responsabili politici e i perpetratori materiali di tali violenze siano
ben noti, essi non sono stati né puniti dalla magistratura, né isolati
ed emarginati dal mondo della politica. Questa situazione ha fatto sì
che, a partire dalla fine degli anni 90, se pure la grande maggioranza
della comunità musulmana indiana è rimasta fedele alla metodologia
democratica, alcune minoranze, in genere formate da persone giovani e
altamente alfabetizzate, sono passate alla clandestinità. Costoro sono
diventati il brodo di coltura di un movimento terrorista indigeno e il
prezioso supporto logistico di gruppi, in genere formati da kashmiri,
che hanno le loro basi al di fuori dei confini indiani.

A partire dal fallito attacco contro il parlamento di Delhi del 13
dicembre 2001, la capacità del terrorismo di colpire non solo in
Kashmir, ma anche nel resto dell’India è diventata, da evento
eccezionale, la normalità. Solo nel 2008, prima dell’episodio di Mumbai
ci sono stati attentati dinamitardi in varie parti dell’Assam, ad
Ahmedabad (la capitale del Gujarat), a Delhi e a Jaipur. E, solo nella
prima serie di attentati in Assam, vi sono stati 68 morti.

Vero è che il governo indiano ha sostenuto che l’attacco di Mumbai non
avesse avuto bisogno di un supporto locale, in quanto l’azione era stata
pianificata su una mappa satellitare ad alta definizione della città. Ma
sta di fatto che i servizi segreti indiani erano stati preavvertiti già
da mesi di un attacco a Mumbai, in seguito alle confessioni di un
terrorista catturato, un musulmano indiano dell’Uttar Pradesh (il grande
stato nel Nord dell’India). Se, quindi, militanti clandestini musulmani
indiani (che, per di più, non erano neppure di base a Mumbai) sapevano
dell’attacco con mesi di anticipo, è quanto meno difficile credere che,
alla sua preparazione, non vi sia stato l’apporto di una quinta colonna
presente in India. Chiaramente, la decisione da parte del governo
indiano di smentirne l’esistenza è dovuta a ragioni ben comprensibili,
in parte apprezzabili (impedire un aumento di tensione fra indù e
musulmani indiani) e in parte meno (evitare uno scrutinio sulla sua
incapacità di farsi carico delle legittime doglianze della comunità
musulmana). In ogni caso, però, si tratta di ragioni che nulla hanno a
che vedere con la realtà dei fatti.

La strategia alla base dell’attacco a Mumbai ha caratteristiche
assolutamente nuove nel panorama del terrorismo indiano. Non si è
trattato di attentati dinamitardi, magari particolarmente sofisticati e
devastatori (come quello, sempre a Mumbai, del 12 marzo 1993, che fece
oltre 300 morti), ma di una vera e propria azione di guerra urbana,
condotta da un numero minimo di uomini (appena 10), che si sono
dimostrati mortalmente efficienti. Inoltre, per la prima volta nella
storia del terrorismo indiano, gli stranieri, anche se nel complesso una
piccola minoranza rispetto al numero complessivo di persone uccise, sono
stati presi deliberatamente di mira; fra gli stranieri, poi, sono stati
prescelti gli americani, i britannici e gli israeliani. L’altro elemento
atipico è stato l’attacco al centro ebraico, la Nariman House, cioè una
località praticamente sconosciuta non solo ai turisti che frequentano
Mumbai (a parte gli israeliani), ma alla grande maggioranza degli stessi
abitanti di quella che, dopo tutto, è una megalopoli di oltre 10 milioni
di abitanti.

È stata proprio la scelta degli obiettivi occidentali e israeliani che
ha spinto molti a fare l’ipotesi che dietro l’attacco di Mumbai ci fosse
/al-Qa‘ida/. /Al-Qa‘ida/ – ha sostenuto ad esempio Ahmed Rashid, un
riconosciuto esperto di geopolitica dell’Asia Centrale – avrebbe
organizzato l’attacco per determinare una crisi fra Pakistan e India,
inducendo il Pakistan a spostare le proprie forze armate dal confine con
l’Afghanistan a quello con l’India.

È una teoria suggestiva, che però non collima né con i primi dati
raccolti dai servizi segreti indiani, né, soprattutto, con l’effettiva
capacità operativa di /al-Qa‘ida/. La vera /al-Qa‘ida /non è quella
specie di organizzazione centralizzata e tentacolare, estesa a tutto il
globo, che esiste solo nella fantasia di chi la descrive, bensì un
insieme di bande armate che, al fianco dei talibani, sono impegnate in
una guerra a morte in Afghanistan (una guerra che, forse, stanno
vincendo). È difficile credere che, data la situazione operativa in
Afghanistan, la vera /al-Qa‘ida/ sia in grado di concepire e di
realizzare una delicata e complessa operazione, che per di più
presuppone una lunga e non facile preparazione, come quella alla base
dell’attacco del 26-29 novembre.

Quindi, l’attacco di Mumbai può anche sembrare opera di /al-Qa‘ida/,
salvo che /al-Qa‘ida/ non aveva la capacità di organizzarlo. Da qui
l’ovvia domanda: chi ha interesse a dare consistenza allo spettro di
/al-Qa‘ida/? Chi, avendo le risorse per ideare e organizzare
un’operazione come quella di Mumbai, ha interesse a continuare a
promuovere l’idea dello «scontro di civiltà»? E la domanda che viene
subito dopo è: se i registi dell’attacco di Mumbai sono effettivamente
stati i servizi deviati pachistani, chi sta dietro di loro? Dopo tutto,
come anche le esperienze della prima repubblica italiana tendono a
dimostrare, in genere (anche se non necessariamente sempre), dietro
all’operare di servizi deviati si intravedono altri e ben più potenti
attori.

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