'La Palestina non è mai stata peggio'.

"La Palestina non è mai stata peggio" 

Jacobo Rivero , Diagona, 2 Luglio 2007   
 
Intervista a Teresa Aranguren, giornalista e scrittice
 

Autrice di El Hilo de la memoriaOlivo roto: Escenas de la ocupación. Attualmente è membro del Consiglio di TVE, designata da IU-ICV. E’ una grande conoscitrice del mondo arabo e dei suoi principali protagonisti.

Diagonal: Come è nato il tuo impegno con la Palestina?

TERESA ARANGUREN: Un po’ per caso, nell’81 mio marito e io ci recammo in Giordania con l’intenzione di conoscere più direttamente il Medio Oriente. E’ così che venni in contatto con i Palestinesi e specialmente con i rifugiati. Il nord della Giordania, allora, raccoglieva tutta la sensibilità dell’esilio palestinese.

D: Come viveste questo contatto con un universo sociopolitico sconosciuto? 

T.A.: Quando vedi la realtà  attorno a te ti rendi conto che gli esseri umani si assomigliano molto, che nel "mondo occidentale" si coltiva una serie di stereotipi e pregiudizi che ci impediscono di vedere, e che il nostro modo di guardare al Medio oriente è impregnato di ignoranza ed arroganza, proiettando un pensiero coloniale per il quale non vediamo mai nell’altro un soggetto umano. Lo vediamo in funzione di interessi strategici, e perciò, quando si conosce da vicino la società palestinese ci si imbatte in una realtà assai lontana dai luoghi comuni. Credo che tutti noi che abbiamo vissuto nella zona dell’Oriente arabo siamo d’accordo sul fatto che si tratta di una società cordiale ed ospitale, assai aperta nel suo contatto con lo straniero. Questa filastrocca dello scontro di civiltà, come a suggerire che non c’è possibilità di comprensione  con il mondo islamico, oltre ad essere storicamente falsa, è molto più che una scuola di pensiero, obbedisce a certi interessi.

D: Nel 1982 Arafat fa la sua famosa dichiarazione, nella Beirut circondata e con l’OLP assediata, "la Palestina è in un tunnel alla fine del quale c’è la luce".

T.A.: Allora, per come io la vissi, sembrava che si fosse prossimi all’eliminazione fisica di Arafat, dell’Olp e della popolazione palestinese in Libano, e da quello si riuscì a venire fuori. C’è una ripetizione di situazioni. Io mi trovavo nei pressi di Beirut nell’82, ma ero anche a Ramallah nel 2002 vicino ad Arafat, e avevo tuttavia la sensazione che "sono passati vent’anni ed è lo stesso", con l’aggravante che ripetendosi la situazione è anche peggio. Alla sensazione di assedio e sofferenza, si aggiunge quella di stanchezza, esaurimento, e sfiducia. Appare la disperazione, che è un combustibile molto pericoloso. Se penso all’82 e alla causa palestinese allora direi che si sta molto peggio.

Io sono pessimista, si sta vivendo un orrore ed una vergogna, ma si deve arrivare ad una soluzione, altrimenti è la catastrofe. La comunità internazionale, cioè USA e UE e Israele, hanno due opzioni: o lo sterminio totale o arrivare ad una soluzione mediamente giusta. Perché il terreno su cui ci troviamo ora è un  autentico disastro, e non si può passare per la rinuncia da parte dei Palestinesi ai propri diritti.

D: Che ruolo giocano i rifugiati palestinesi nella soluzione possibile del conflitto? 

T.A.: Sebbene alcuni abbiano potuto fare ritorno, le prospettive della situazione che si sta vivendo sono terribili. Nei campi profughi la disperazione è totale, specialmente in quelli del Libano. Il concentrarsi di iniziative di pace fallite, uccisioni e speranze frustrate hanno trasformato il Medio Oriente in una bomba ad orologeria. Si è prodotto un rafforzamento dell’elemento islamico all’interno della società e del movimento di resistenza palestinese, che negli anni 80 era marginale, c’è un rafforzamento delle tesi di Hamas. In un primo momento, il movimento islamico fu appoggiato dalle autorità d’Israele e da alcuni settori occidentali per indebolire l’OLP. Ciò si unisce al fallimento delle iniziative di pace, che sono state legate al nome di Fatah e Arafat. Questi accordi sono considerati come un inganno da parte della popolazione palestinese. In questa dinamica Fatah è affondata, per non parlare del problema della corruzione. Ormai la gente accetta solo lo scontro frontale, il che presume, in uno squilibrio di forze, il martirio, l’immolarsi o la sconfitta. Aggiungete a tutto ciò il blocco economico contro un governo eletto democraticamente. Si utilizza la scusa che non c’è un interlocutore valido, già usata ai tempi di Arafat nel 2000, e l’opinione pubblica, in questo processo di demonizzazione dell’islamico, lo crede. Si presume che trattandosi di islamici non sono degli uguali, non si può dialogare, e non possono essere rispettati: Si crea una situazione che colpisce tutta la popolazione. E si ritorna alla disperazione, che nei campi profughi, dove la gente sta rinchiusa, senza risorse, senza possibilità di comunicare, senza speranze, reagisce con lo scontro, distruggendo la coesione sociale palestinese che è stata la grande carta della resistenza. 

D: Come si spiega la impermeabilità della società civile palestinese? Compreso le accuse di antisemitismo alle critiche? 

T.A.: C’è una specie di tela di ragno. Con la questione dell’antisemitismo c’è una strategia per tacitare certe voci. E’ una delle accuse più gravi, perché ti accusano di razzismo. Ma credo che ci sia un utilizzo consapevole dietro questa accusa. Perché la differenza tra sionismo, nazionalismo israeliano e populismo è chiarissima. Nella società israeliana credo che vi sia stato un regresso. Nell’82 ci fu una grandiosa manifestazione della società israeliana contro le stragi in Libano, e dopo vi furono momenti nei quali il movimento pacifista israeliano ha mantenuto un livello di coscienza molto alto. Ma credo che a partire dall’ultima Intifada è praticamente scomparso, e da quando si è iniziato a costruire il muro e la società palestinese rimane rinchiusa si accentua la possibilità di dimenticare che i Palestinesi sono dall’altra parte. Credo che in questo momento la coscienza della società israeliana è in mani a settori minoritari. I Palestinesi sono nei ghetti e si cerca di eliminarli con il ricorso all’argomento, da parte del Governo, che "i Palestinesi non esistono".

D: Dove troviamo la forza per continuare a denunciare?

T.A.: L’essere umano non agisce solo in base a bisogni immediati. Viviamo tempi brutti, sono dieci anni che ci dicono che c’è Guantanamo e noi non ci crediamo, ma rimarrà come uno dei grandi orrori dell’umanità, come Auschwitz. Rimangono sacche di resistenza, il trovare meccanismi che ti impediscano di lasciarti abbattere. Un solo articolo non serve a niente, occorre alzarsi in piedi e denunciare l’annullamento dei diritti umani. Non sono molto ottimista, ma non possiamo rassegnarci.

 

‘El Hilo de la Memoria’ e ‘Olivo Roto’

 

T.A: Direi che dall’82, dopo l’assedio di Beirut, io sapevo che avrei scritto un libro sulla Palestina, che avevo molto da raccontare, allora non avevo fretta. Dovevo scrivere dall’origine. Perché molta gente non sa come tutto ebbe inizio, è un occultamento niente affatto casuale. Io volevo scrivere un libro che portasse la gente a capire perché esistono i profughi, perché esiste questo dramma e perché li cacciarono dalla loro terra. Ho aspettato 20 anni prima di mettermi a scrivere. Ti rendi conto che l’informazione e le notizie non riescono a passare la barriera dell’identificazione, che la gente vede l’orrore della Palestina e dell’Iraq ma non ha una capacità di empatia, di porsi nei loro panni, di identificarsi. Credo che la letteratura sia necessaria, e questo è ciò che ho cercato di fare con il mio secondo libro. Un esercizio di scrittura compiuto nascondendo il mio sguardo e facendo sì che siano le persone che ho conosciuto quelle che esprimono i propri sentimenti. Il primo che viene sollecitato è l’indignazione, la sensazione di "doverlo raccontare", e non essere complice con il silenzio. Inoltre, ogni giorno sento crescere la mia indignazione, non mi abituo, non sopporto l’indifferenza e l’arroganza occidentale. Con quello che accade in Iraq, l’opinione pubblica pensa che gli Iracheni sono diventati pazzi, ma non sappiamo nulla di quello che realmente accade. Dal 1919, dall’Europa sono arrivati solo carri armati, bombe, invasioni, ingiustizie e promesse non rispettate. In cambio, ciò che riceve l’opinione pubblica europea sono messaggi come "attenti agli Arabi", "attenzione alla minaccia islamica", e si utilizza l’11 Settembre o l’11 Marzo, per riaffermare queste teorie. Arrivano qui su delle zattere, mentre noi siamo andati da loro con i carri armati, è una logica perversa.

Tradotto dallo spagnolo da Gianluca Bifolchi, un membro di  Tlaxcala  (www.tlaxcala.es), la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questa traduzione è in Copyleft per ogni uso non-commerciale : è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l’integrità e di menzionarne l’autore e la fonte.

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