La roulette russa di Netanyahu

Thecradle.co. Costretto a una tregua a Gaza da un pubblico arrabbiato che chiedeva lo scambio di prigionieri, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ora affronta la sua sfida più difficile da quando ha iniziato gli attacchi aerei e terrestri sulla Striscia di Gaza, in ottobre.

La frequenza delle sue minacce sia a Hamas a Gaza che agli Hezbollah in Libano sul fronte settentrionale di Israele è aumentata vertiginosamente da quando Netanyahu ha accettato con riluttanza la tregua mediata dal Qatar.

Mentre gli obiettivi del primo ministro e di Washington coincidono nel condurre una guerra contro la resistenza palestinese e, per estensione, contro Gaza, le loro politiche divergono sulla strategia e sulla durata del conflitto. Di fronte alle proprie minacce e agli attacchi delle fazioni della resistenza nell’Asia occidentale, gli Stati Uniti preferiscono impiegare un approccio militare a proprio vantaggio, senza alcun coinvolgimento esteso sul terreno.

Ultimamente l’amministrazione Biden ha adottato un approccio più severo nei confronti delle azioni di Tel Aviv nel nord della Striscia di Gaza e ha chiesto il coordinamento di Israele con gli Stati Uniti nella guerra di terra. Ore prima dell’attuazione della tregua, il Segretario di Stato Antony Blinken ha sottolineato che “la massiccia perdita di vite civili e lo sfollamento della portata che abbiamo visto nel nord di Gaza [non dovrebbero] ripetersi nel sud”.

Anche il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha recentemente detto ai giornalisti che l’amministrazione Biden “non sostiene le operazioni nel sud a meno che o finché gli israeliani non possano dimostrare di aver dato conto di tutti gli sfollati interni di Gaza”.

Prolungare la guerra per un guadagno personale.

Netanyahu, tuttavia, nutre un programma diverso, cercando di prolungare il conflitto per vantaggi personali piuttosto che per il successo politico. La continuazione della guerra significa che resterà in carica più a lungo e avrà il tempo di concludere accordi interni ed esterni che garantiscano la sua sopravvivenza postbellica.

Per ora “Re Bibi” deve affrontare una pressione crescente sia da parte degli alleati che degli avversari. Le richieste internazionali per ottenere risultati tangibili dal conflitto si stanno intensificando, con i media mainstream sempre più costretti – attraverso i social media – a evidenziare i crimini di guerra israeliani a Gaza. A livello nazionale Netanyahu è alle prese con richieste quasi quotidiane di dimissioni o di rimozione di ministri estremisti dall’Otzma Yehudit e dai partiti religiosi sionisti.

All’indomani dell’operazione Al-Aqsa Flood l’opposizione israeliana ha tentato il partito Likud di Netanyahu con l’offerta di licenziare il ministro delle finanze Bezalel Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir – nonché con la rimozione dello stesso primo ministro – come condizione per partecipare a un governo d’emergenza.

Queste proposte miravano a risolvere i disordini politici e sociali in corso in Israele dal 2019, che hanno portato a cinque cicli elettorali consecutivi in quattro anni e a frequenti proteste antigovernative di massa. Un governo di unità nazionale potrebbe anche riprendere ed eventualmente sviluppare gli Accordi di Abraham, messi a dura prova dalla presenza di partiti estremisti nel governo. I ministri radicali di Netanyahu hanno spesso influenzato negativamente sia queste nascenti relazioni arabo-israeliane sia il rapporto di Tel Aviv con i democratici statunitensi.

In particolare, la partecipazione del leader del Campo Nazionale Benny Gantz e dell’ex capo di stato maggiore Gadi Azinkot al governo di emergenza israeliano post-7 ottobre dipende dalla durata della guerra o dall’evoluzione del rapporto tra l’amministrazione Biden e Netanyahu. I problemi di fiducia tra Netanyahu e Gantz aggiungono un ulteriore livello a una crisi politica già complessa.

Tutti gli uomini del re.

Anche gli alleati del “re” mostrano scarso sostegno, ribaltando la situazione contro Netanyahu in mezzo a incessanti manovre politiche. I suoi partner di coalizione, un tempo risoluti, stanchi delle sue continue minacce e delle interruzioni del governo, ora minacciano di ritirarsi dal suo governo a meno che la guerra di Gaza non continui – una mossa legata al rilascio dei prigionieri di entrambe le parti.

Durante i negoziati di tregua alla fine di novembre, il ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir ha espresso pubblicamente queste minacce sulla piattaforma di social media X, affermando: “Cessare la guerra equivale a sciogliere il governo”. Il ministro delle Finanze Smotrich, sempre in un post su X, ha definito la cessazione della guerra in cambio del rilascio di tutti i detenuti a Gaza “un piano per eliminare Israele”.

Per Netanyahu, la priorità non è la guerra a Gaza e i suoi obiettivi genocidi, ma piuttosto il modo migliore per affrontare il conflitto interno tra i suoi timori di un colpo di stato. Continuano a circolare notizie sulla tendenza del Likud a deporlo attraverso un voto di sfiducia della Knesset e a selezionare un altro membro del partito per formare un governo, senza dover tenere un’ulteriore elezione generale.

Queste proposte sono arrivate al punto di nominare possibili sostituti: uno di questi candidati è l’attuale presidente del Comitato per gli Affari Esteri e la Sicurezza della Knesset, Yuli Edelstein, che sarebbe nominato Primo Ministro ad interim fino all’elezione del nuovo leader del partito.

Il mese scorso, in un disperato tentativo di assicurarsi il sostegno del suo partito di destra, Netanyahu avrebbe ricordato ai membri del Likud: “Io sono l’unico che impedirà uno Stato palestinese a Gaza e [in Cisgiordania] dopo la guerra”.

Sacrificare Israele per salvare Bibi.

Essenzialmente la strategia di sopravvivenza politica di Netanyahu è incentrata sul presentarsi come l’unico difensore contro la superficiale retorica statunitense a favore di una soluzione a due Stati. Nel tentativo di sottrarsi alla responsabilità per i fallimenti dello Stato occupante, Netanyahu si trova ora ad affrontare un risorgente Benny Gantz all’opposizione. Recenti sondaggi israeliani prevedono un cambiamento significativo, tra il grande pubblico, a favore dell’opposizione e dei partiti arabi rispetto all’attuale coalizione di destra. Secondo i sondaggi ci si potrebbe aspettare che una nuova coalizione ottenga 79 seggi rispetto ai 41 seggi dei partiti dell’attuale governo di estrema destra del Likud.

La precaria situazione politica di Israele spinge Netanyahu a resistere a qualsiasi soluzione, accordo o uscita che potrebbe portare a conseguenze legali per lui. Egli indebolisce il suo partito minacciando elezioni immediate nel dopoguerra se le macchinazioni interne del Likud contro di lui non si fermano, avendo già rifiutato di dimettersi dal suo incarico.

Ancora più preoccupante è che, nonostante le devastanti esperienze di guerra passate di Israele in Libano, Netanyahu potrebbe vedere una guerra nel nord come la sua unica potenziale via di fuga – un modo per rimescolare le sue fortune politiche per evitare accuse di corruzione e affrontare i suoi fallimenti militari. Perché non giocare alla roulette russa con il Libano quando l’unica altra opzione è un lungo periodo in una cella di prigione?

Da parte loro, gli Stati Uniti, consapevoli delle opzioni restrittive di Netanyahu e della sua potenziale mossa, trasmettono messaggi sfumati a Hezbollah e al governo libanese attraverso vari intermediari, sollecitando moderazione.

Anche se l’esercito israeliano non può intraprendere una guerra per proteggere il futuro politico e personale di Netanyahu, le indiscrezioni delle ultime settimane mostrano che l’esercito sembra essere più entusiasta di dichiarare guerra al Libano rispetto alla maggior parte dei politici israeliani.

Non vorrebbero altro che distruggere la Radwan Force, l’unità delle forze speciali di Hezbollah, o almeno allontanarla dal confine. A ciò si aggiunge l’ambizione a lungo termine dell’esercito israeliano di distruggere l’arsenale di armi strategiche della resistenza libanese e costringerla a ritirarsi dall’area a sud del fiume Litani. È qui che i calcoli di Netanyahu si intersecano con quelli dei vertici del suo esercito, che sono ugualmente minacciati dalle responsabilità che dovranno affrontare alla fine della guerra. Gli eventi senza precedenti del 7 ottobre hanno messo in luce profonde lacune nell’intelligence e nella preparazione militare di Israele, e l’esercito quasi certamente ne pagherà un prezzo in futuro.

Nonostante la sovrapposizione di opinioni tra Netanyahu e i suoi comandanti dell’esercito, una guerra israeliana al Libano non è necessariamente inevitabile – in linea di principio. In realtà, gli Stati Uniti e alcuni decisori di Tel Aviv sanno molto bene che i calcoli di una guerra con Hezbollah sono diversi dai calcoli di una guerra su qualsiasi altro fronte. Ciò non è dovuto solo alle considerevoli capacità militari e all’esperienza sul campo di battaglia di Hezbollah, ma anche al coordinamento serrato che ha luogo tra l’Asse di Resistenza della regione: Iran, Iraq, Yemen, Siria, Libano e Palestina.

Sebbene Netanyahu e i suoi generali possano vedere la guerra con il Libano come un percorso personale verso la salvezza, dovranno affrontare ostacoli già sulla linea di partenza, come il rifiuto certo di Washington a un conflitto che devasterà completamente gli interessi statunitensi in tutta l’Asia occidentale.

Traduzione per InfoPal di Stefano Di Felice