‘Palestina esiste già: è un film’.

Palestina esiste già: è un film

Negli ultimi 10 anni una nuova ondata di registi palestinesi ha costruito una specifica identità nazionale sullo schermo. E' più direttamente politica che nei film precedenti che ritraevano la vita e le storie dei palestinesi.

 

di Haider Sabah

Mentre la seconda Intifada (iniziata nel settembre 2000) ancora infuriava in Israele e nei territori palestinesi occupati, il film Intervento Divino (2002), del regista Elia Suleiman nato Nazareth, è stato presentato all'Accademia del Cinema delle Arti e delle Scienze come nomination dalla Palestina all'Oscar per miglior film in lingua straniera. L'Accademia ha respinto il film perché, diceva, “La Palestina non è un paese”. Nel 2006, quando il film Paradise Now (2005) del regista palestinese Hany Abu-Assad è stato nominato nella stessa categoria, l'Accademia ha accettato, e ha individuato il suo paese come “l'Autorità Palestinese”.

Lo studioso Edward Said ha scritto in una introduzione a un libro sul cinema palestinese, Dreams of a Nation: “Tutta la storia della lotta palestinese ha a che fare con il desiderio di essere visibili.” Questo desiderio è quello che ha guidato la nuova ondata di film Palestinesi negli ultimi dieci anni. Il cinema palestinese si è reinventato molte volte nel corso degli ultimi 40 anni, ma sono stati i film prodotti dopo la seconda intifada iniziata nel 2000 che hanno catturato l'attenzione internazionale. Non perché esistano, ma perché fanno un'affermazione sociale, culturale e politica senza precedenti.

Migliaia di sostenitori della causa palestinese in tutto il mondo – non solo i palestinesi – hanno impugnato le telecamere negli ultimi 10 anni, aiutati dalla tecnologia digitale, per fare film sulla Palestina e sul dramma dei palestinesi che continua fino ai nostri giorni. Il loro cinema è caratterizzato dall'uso di comuni fatti storici e sociali per documentare la lotta palestinese, l'occupazione israeliana e l'identità culturale.

I principali studiosi di cinema palestinese, Nureth Gertz e Michel Khleifi, hanno individuato quattro periodi distinti nel loro libro Cinema palestinese: Paesaggio, Trauma e Memoria. Il primo è tra il 1935 e il 1948, l'anno della Nakba (o catastrofe, che descrive l'espulsione forzata dei palestinesi dalla loro terra nel 1948). Il secondo, “l'epoca del silenzio”, è stato tra il 1948 e il 1967, quando nessun film è stato prodotto. Il terzo comprende i film del periodo rivoluzionario fra il 1968 e il 1982 – innescato dall'occupazione della Cisgiordania e di Gaza dopo la Guerra dei Sei Giorni – prodotti in gran parte in esilio in Libano da parte dell'OLP e delle altre organizzazioni palestinesi. Il quarto periodo, iniziato nel 1982, dopo l'invasione israeliana del Libano e i massacri di Sabra e Shatila, continua tutt'oggi.

Senza stato ma nazionale
La dottoressa Lina Khatib, esperta di cinema arabo e accademica presso la Stanford University in California, dice che il rapporto di un film con la storia è 
 soggettivo. Il conflitto arabo-israeliano è, dice, l'esempio più chiaro di come allo stesso evento storico vengano date “diverse, spesso contraddittorie interpretazioni” da Hollywood e dal cinema arabo. Lei dice che le verità costruite da entrambe le parti sono prodotte da specifici contesti storici diversi, e riflettono queste differenze.

I film della nuova ondata palestinese sono intrinsecamente politici. Sono costrutti cinematografici di resistenza specificatamente posteriori al 2000.

La seconda Intifada è un evento chiave nella lotta palestinese, il punto in cui la costruzione dell'identità nazionale definita da fatti sociali e storici ha iniziato a svilupparsi. I film successivi, con una voce palestinese quale alternativa al discorso dominante israeliano sul conflitto, formano questa nuova ondata.

Il cinema palestinese è davvero un cinema apolide nazionale che rappresenta socialmente, economicamente e geograficamente 9,7 milioni di palestinesi sparsi in tutto il mondo – si stima che il 74% dei palestinesi siano profughi. In tutti i territori occupati, i palestinesi non hanno avuto per lo più nessun accesso al cinema: durante la prima intifada Israele ha chiuso tutti i luoghi di svago, tra cui i cinema. Lo stato israeliano ha immobilizzato il popolo occupato e asfissiato i loro sforzi culturali, e ha vietato manifestazioni pubbliche culturali e incontri culturali.

Definire il cinema palestinese non è facile. In un saggio, il regista Omar al-Qattan nato a Beirut e cresciuto in Gran Bretagna, si chiede che cosa fa di un regista un regista palestinese, oltre che essere nato da genitori palestinesi. Dice che il suo rapporto con la Palestina è un imperativo etico con relativo bagaglio di storia familiare, patrimonio culturale e amicizie con altri palestinesi. Al-Qattan è fermamente convinto di dover chiamare “palestinese ogni film impegnato con la Palestina, senza limitarsi alla denominazione per meri confini nazionalistici”. Adottando la definizione di al-Qattan, possiamo capire come Bab el Shams (2005) sia considerato un film palestinese, pur avendo un regista egiziano e finanziamenti francesi.

Speranza e disperazione
Dabashi Hamid, regista di Sogni di una nazione, scriveva: “La vera proposta del cinema palestinese indica il carattere traumatico della sua origine e della sua originalità. Il mondo del cinema non sa bene come relazionarsi con il cinema palestinese, proprio perché sta emergendo come un cinema senza stato dalle più gravi conseguenze nazionali”(1). Questo è forse bene espresso nel nuovo film di Elia Suleiman, The Time That Remains (2009), l'ultimo film della sua trilogia palestinese (Cronache di una sparizione (1996) e Intervento Divino sono gli altri due), in cui dice che i telespettatori devono considerare il fatto che, molto semplicemente “il tempo, si sta esaurendo”.

I film della nuova onda palestinese si fondano sulla chiave comune di fatti sociali, come l'occupazione, apolidia e la lotta per il diritto al ritorno, per costruire un'identità nazionale che trascenda la frammentazione della diaspora. L'occupazione israeliana e l'oppressione sono rappresentate attraverso la raffigurazione di checkpoint, blocchi stradali e carte d'identità. La continua mancanza di uno stato e l'aspirazione a una patria nazionale sono mostrate entrambi come speranza e disperazione – Quelli che hanno speranza vanno alla ricerca di una nazione sovrana; quelli cui la speranza manca, come i personaggi dei film di Elia Suleiman, soffrono di frustrazione e disperazione. Il diritto al ritorno sta alla base di tutti questi film. I personaggi cercano di eliminare la causa della loro sofferenza per ritornare ad uno stato di pace e di famigliare sicurezza.

La seconda Intifada ha permesso di vedere i simboli della rivolta: Yasser Arafat, checkpoint e blocchi stradali, il muro in Cisgiordania e l'espansione degli insediamenti. La maggior parte dei film della nuova ondata sono girati nelle 
 Cisgiordania dove i palestinesi vivono dietro il muro e hanno gli stessi pilastri di lotta – apolidia, oppressione, resistenza e diritto al ritorno. E 'stato difficile fare film nella Striscia di Gaza dopo il blocco israeliano, anche se lo scorso anno un film potente, Imad Aqel (2009), su un combattente della resistenza di Hamas ucciso nel conflitto, è nato proprio a Gaza. Fare un film sotto l'occupazione, sotto il blocco israeliano, in un luogo poverissimo, è stato già un risultato, anche se i titoli internazionali hanno puntato l'attenzione soprattutto sul fatto che il film è stato finanziato e prodotto da Hamas. Quattro degli attori del film sono stati uccisi successivamente nell'operazione “Piombo Fuso” – l'attacco israeliano di 22 giorni su Gaza a partire dal dicembre 2008 al gennaio 2009.

Un'arma culturale
L'idea di “specifici contesti storici”, di cui parla Khatib è legata all'idea di identificare le chiavi sottese ai “fatti sociali” – un termine coniato dal sociologo francese Emile Durkheim. A suo avviso, i fatti sociali possono essere contemporaneamente “obiettivo, resistente e persistente” e sono la chiave per comprendere la volontà o coscienza collettiva e l'identità di un gruppo. Durkheim definisce i fatti sociali come “modi di agire o di pensare con la caratteristica peculiare di esercitare una influenza coercitiva sulla coscienza individuale … Anche i simboli che rappresentano queste concezioni cambiano a seconda del tipo di società “(2).

Nei film dellla nuova onda palestinese, il rapporto tra cinema e realtà è storicamente e politicamente inflesso per creare un'arma culturale che funge anche da resistenza. Questi film sono testi storici degli oppressi.

In pochi a Londra o a New York sono consapevoli del significato politico della kuffiyah che hanno comprato da H&M o Top Shop. La kuffiyah è diventata un simbolo di solidarietà e di resistenza palestinese, al tempo della Nakba, non del tutto deliberatamente. E 'stata una coincidenza culturale. La Palestina era una società agricola prima della creazione di Israele, terra e aziende agricole erano gran parte del patrimonio culturale palestinese. Durante la Nakba, quando i sionisti distrussero i villaggi e i palestinesi fuggirono, i borghi rurali sono stati distrutti per primi. Quelli erano scappati erano agricoltori, che indossavano la kuffiyah per proteggersi dal sole in estate e dal freddo in inverno, nei loro campi, negli agrumeti e negli oliveti. La kuffiyah è un simbolo ricorrente nelle nuovo cinema palestinese.

Altri simboli sono la mappa originale della Palestina (pre-1948), la stessa terra e la bandiera palestinese. La storia dimostra che, come esseri umani, confidiamo sui simboli per progettare la nostra identità quando le nostre voci e le nostre azioni non ne sono capaci (in Francia, la festa della Bastiglia non sarebbe la stessa senza la bandiera francese), e la bandiera palestinese è il simbolo più importante di solidarietà, di resistenza e nazionalismo nei film della new wave.

Intervento Divino di Suleiman e Paradise Now di Abu Assad, per esempio, mettono in relazione i personaggi col clima dell'occupazione israeliana e col paesaggio dei territori occupati, dando loro un contesto e integrando con essi anche parte della narrazione. Nella sequenza della lotta fantastica di Intervento Divino, la fidanzata del protagonista è mascherata da un kuffiyah mentre combatte i soldati israeliani, e li distrugge. Senza kuffiyah, il soggetto avrebbe potuto essere percepito come una femminista. Invece, con la kuffiyah che ne maschera l'identità, diventa il simbolo della resistenza palestinese.

Entrambi questi film identificano l'obiettivo collettivo del ritorno. Ma Intervento divino può essere letto come l'allegoria del crollo dell'aspirazione nazionale, mentre Paradise Now può essere visto come l'allegoria che sfocia nella determinazione. In Sale di questo mare (2008) della regista palestinese-americana Annemarie Jacir, la protagonista, Soraya, è una testarda profuga palestinese di terza generazione nata a Brooklyn e giovane americana. Lei va alla ricerca della sua casa avita a Jaffa (oggi in Israele) per verificare la sua identità personale, la storia familiare, e anela a reclamare la sua casa di famiglia. Come disse lo storico Issam Nassar: “L'esodo forzato e l'espulsione dei palestinesi nel 1948 e la costruzione di eventuali campi profughi in tutto il Medio Oriente ha determinato il contesto per la trasformazione dei vecchi palestinesi a carattere locale e comunitario in nazionalisti” (3).

I registi della nuova ondata sono riusciti a costruire una identità nazionale palestinese che trascende la diaspora frammentata, hanno reso il cinema un mezzo fondamentale per la documentazione e la conservazione della storia della loro lotta.

Soprattutto, custodiscono il dialetto arabo palestinese – cosa non facile, considerando la dispersione geografica della comunità. La giornalista americano-araba Nana Asfour dice: “Ciò che lega i film palestinesi, insieme, sono la lingua – arabo palestinese – il soggetto – la vita dei palestinesi – e il desiderio di ogni autore di illustrare il suo proprio punto di vista su quello che vuol dire essere palestinese” (4).

Di recente ho incontrato Elia Suleiman a Beirut, dove è andato a promuovere il suo nuovo film The Time That Remains, presentato in anteprima a Cannes l'anno scorso. Egli suggeriva quanto opportuno sia considerare la molteplicità delle voci dei registi palestinesi. “Io non so se il microcosmo del conflitto arabo-israeliano è un riflesso del mondo, o se il mondo è un microcosmo della Palestina. Globalmente, la Palestina si è moltiplicata e ha generato tante Palestine. Sento che se si va in Perù, anche lì si trova pesantemente la Palestina.”


 

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