Palestina. Tutto è possibile

 
Palestina. Tutto è possibile
Yigal Bronner, The Electronic Intifada, 22  Giugno  2007
Fa una strana sensazione discutere possibili soluzioni al conflitto israelo-palestinese. Preferiamo la formula ad un solo stato o a due stati? Quale delle due è più realistica? Queste domande appaiono così lontane dalla difficile realtà sul terreno, dove la soluzione del conflitto non è mai apparsa così distante. Attualmente, Israele sta drammaticamente ed unilateralmente cambiando il paesaggio regionale. Il progetto chiamato in modo fuorviante "Recinzione di sicurezza"  sta perpetuando ed espandendo largamente le colonie che Israele aveva occupato nel 1967, mentre sacrifica una manciata di insediamenti nelle lontane e più popolate aree palestinesi. Il progetto è poi completato dal sistema di strade per soli Ebrei e dai numerosi checkpoint che frammentano la West Bank — concentra i Palestinesi in aree densamente popolate, enclave impoverite, ed assicura il completo controllo israeliano sulle più prezione risorse della regione: terra libera ed acqua.
Molte comunità Palestinesi nella West Bank sono già rinchiuse da tutti i lati (e in qualche caso persino tagliate nel mezzo) da un sistema di trincee, muri di cemento e filo spinato. Anche Gaza è sigillata. Il movimento tra le sacche palestinesi è estremamente difficoltoso. L’accesso all’assistenza sanitaria, all’istruzione, e al lavoro è limitato e in qualche caso impossibile. La povertà è ovunque (60% della popolazione è sotto la linea di povertà delle Nazioni Unite di due dollari di reddito al giorno). Nel giro di qualche mese, il progetto sarà completato con successo. Esso rinchiuderà i Palestinesi in piccoli ghetti, connessi da strade sotterranee sotto il controllo di Israele. Non ci sarà alcun aeroporto, alcun porto, ed il passaggio via terra per i paesi vicini sarà sorvegliato da soldati israeliani. Il risultato finale — già operativo nella Striscia di Gaza ed in varie "strisce" della West Bank — è un sistema di affollate prigioni all’aria aperta. E se i reclusi si fanno prendere la mano e si rivolteranno, i secondini li bersaglieranno con raid aerei e cannoneggiamenti.
 
Notate che quanto accade nei Territori Occupati nel 1967 non è essenzialmente nuovo. Il conflitto israelo-palestinese è vecchio non di 40 ma di 120 anni. In tutto questo periodo, Israel Yeshuv [l’entità sionista prima della nascita dello stato d’Israele — ndt]  ha usato una varietà di mezzi per acquisire quanta più terra possibile e sfrattare o strangolare la popolazione nativa. Un grande punto di svolta in questo sforzo ebbe luogo durante la guerra del 1948, quando almeno 700.000 Palestinesi o scapparono spaventati o furono scacciati dai loro villaggi e dalle loro città sulla canna dei fucili. Le loro case vennero sistematicamente abbattute dallo stato di nuova fondazione di Israele e non gli fu più permesso di fare ritorno.
 
Per quanto riguarda quei Palestinesi che nel 1948 si tennero stretti alle loro case (e che resistettero ad un’ulteriore tentativo di espulsione negli anni 50), gli venne concessa la cittadinanza israeliana, ed oggi costituiscono il 20% della popolazione di Israele. Ma le politiche di espulsione e furto di terra hanno coerentemente continuato ad essere attuare anche all’interno di Israele, contro i suoi stessi cittadini arabi. Nel Negev, per fare un solo esempio, circa 80.000 beduini vivono in "villaggi non riconosciuti", che lo stato si rifiuta di rifornire con acqua, elettricità, scuole adeguate e servizi sanitari. Mentre parliamo le forze israeliane stanno lavorando duro per risistemare questa popolazione, contro la sua volontà, in affollate città. Non passa una settimana senza che case, qualche volta interi villaggi, vengano distrutti, il bestiame confiscato, le coltivazioni estirpate, mentre il governo sta generosamente distribuendo queste terre a coloni ebraici. Soprattutto, l’opinione che lo stato dovrebbe revocare la cittadinanza ai suoi cittadini arabi, e che questi dovrebbero essere costretti in aree recluse o addirittura espulsi, sta diventando una posizione dominante tra gli Ebrei d’Israele.
Alla fine del 19mo secolo gli immigranti ebraici in Palestina furono mobilitati dallo slogan "una terra senza popolo per un popolo senza terra" , e sembra che il movimento sionista non abbia mai smesso di svuotare la terra dalla sua popolazione nativa. Un altro slogan assai noto parlava della redenzione della terra "un acro qui e un acro lì" (dunam po ve-dunam sham). La slealtà, la visione storica e l’inesorabiltà del progetto sionista appaiono tutte in questo slogan, insegnatoci a scuola: differenti porzioni di terra potrebbero essere ottenute col ricorso a diversi mezzi — comprandola, confiscandola o prendendola con la forza. La terra conquistata può non essere contigua all’inizio, un pezzo qui e un pezzo lì, ma alla fine "acro dopo acro", essa sarà presa tutta.

Lo slogan non dice niente della gente che abitava già qui. Ancora negli anni 70, il Primo Ministro Golda Meir insisteva che non esiste alcun popolo palestinese. E Ariel Sharon, che ebbe un profondo impatto sulla colonizzazione israeliana della West Bank alla fine degli anni 70, disse ripetutamente che se i Palestinesi volevano uno stato dovevano andarselo a cercare in Giordania. E ancora, in anni recenti, lo stesso Sharon ha improvvisamente adottato la retorica dei due stati per due popoli, ed ha invitato alla fondazione di una entità palestinese nelle aree che Israele occupò nella guerra del 1967.

Venendo dall’uomo che ha guidato le politiche di insediamento, gli avamposti, e, più recentemente, lo strangolamento delle città della West Bank con muri, questa nuova retorica segnala una svolta storica. La popolazione araba della Palestina storica è diventata sufficientemente disintegrata ed espropriata. Le enclave senza terra e con deboli legami della West Bank stanno per essere fissate — non possono più espandersi da nessuna parte. Sharn, Olmert e Barak possono ora cambiare il loro linguaggio — con l’applauso dell’amministrazione Bush e delle nazioni occidentali. Se i Palestinesi issassero le loro bandiera nei loro ghetti isolati, o tenessero elezioni, Israele non potrebbe essere più felice. Chiamando stato questo sistema di prigioni a cielo aperto potrà lavarsi le mani delle miserabili condizioni dei detenuti.


Dunque, c’è una soluzione possibile? Alcuni dicono
che la realtà che Israele ha creato sul terreno è irreversibile, e che la partizione della Palestina storica in due stati non è più pratica. Altri sostengono che è la soluzione ad un solo stato ad essere inattuabile, dal momento che gli Israeliani non saranno mai d’accordo a dividere il potere sul modello nord irlandese.

Entrambi gli argomenti sono sbagliati — niente è impossibile. De Gaulle portò un milioni di coloni francesi fuori dall’Algeria quando pochi credevano che l’avrebbe fatto. Per decenni, i bianchi del Sud Africa hanno detto che loro non avrebbero mai consentito a dividere il potere con una maggioranza di colore, e invece, nel giro di una notte fecero proprio questo. La cortina di Ferro cadde, e così fece il Muro di Berlino, e dal momento che non conosciamo il futuro, non abbiamo modo di capire cosa è impossibile. 

Ma se il conflitto israelo-palestinese consiste nel trovare una giusta e stabile soluzione — un solo stato, due stati, qualche altra soluzione ancora — questa dovrà prevedere una vera condivisione della terra, dell’acqua, e in verità, del potere.  Dovrà essere il risultato di un negoziato bilaterale tra due partner di pari dignità.  Dovrà permettere ad entrambe i gruppi di esercitare i loro diritti politici e culturali, per conservare le proprie narrative, i linguaggi e le tradizioni religiose.

Ad una tale condivisione il movimento sionista non ha mai dato il suo assenso. Alcuni sostengono che il piano di partizione del 1947 consisteva in una sincera offerta di condivisione della terra. Ma chiunque abbia studiato la storia della regione sa che l’accettazione ebraica a questo piano rientrava nella logica dell’"acro per acro" in attesa che quell’"acro lì" entrasse in loro possesso. Lo Yeshuv non aveva intenzione di accontentarsi di ciò che allora gli fu offerto, Altri dicono che ad Israele aveva intenzione di dividere realmente la terra con l’OLP, ma chiedetelo ad ogni Palestinese che viva nella West Bank: gli anni 90 di Oslo, quando Israele raddoppiò la popolazione degli insediamenti, costruì molte nuove colonie, ed eresse gli avamposti, costituiscono il peggiore decennio dell’occupazione israeliana — fino a ben dentro gli anni 2000.

La ben oliata macchina di espulsione e furto ha funzionato per decenni senza fermarsi mai. In realtà, essa ha conquistato sempre più forza ed ormai è come dotata di vita propria. Le orecchie di Israele sono diventate così abituate a questo rumore di fondo — gli scricciolii delle demolizioni e degli sradicamenti per fare posto ai nuovi coloni — che non lo sentono neanche più. Sentono solo quando  qualcuno gli spara addosso. Ma da molto tempo non sentono più i lavori in corso del processo di colonizzazione, e non riescono ad immaginare la calma che risulterebbe dal fermarli.

 
Io ho osservato in prima persona questa inarrestabile macchina in funzione. Con i miei amici di Ta’ayush ed altri gruppi per la pace abbiamo costruito case che essa aveva buttato giù, solo per vederle demolite di nuove, ancora e ancora, fino a cinque volte di seguito. I bulldozer ritornano sempre. O considerate la lotta degli abitanti di Susya, nelle colline a sud di Hebron. Anni di tremendi sforzi di centinaia di persone sul posto, in tribunale, sui media, non sono in alcun modo riusciti ad assicurare il mantenimento di un fragile status quo per una manciata di famiglie che si tenevano strette alle loro piccole, fragili baracche. I soldati israeliani le abbatterono al tempo del Primo Ministro Barak, e a dispetto di tutti gli sforzi, i bulldozer torneranno a sgombrare l’area per i coloni del vicinato.

La macchina dell’espropriazione non si ferma un momento. Continua a funzionare nei territori occupati, ed anche in Israele, da Rafah al Negev, da Hebron a Gerusalemme, da Budrus a Bil’in, da Jenin a Sakhnin. Ruba un acro qui e un acro lì. Vorrei essere chiaro: nessuna soluzione al conflitto israelo-palestinese è possibile finché essa è al lavoro.

Ma una volta smantellata,  tutto diventa possibile. 

Yigal Bronner insegna letterature sud asiatiche presso l’università di Chicago. E’ un attivista di Ta’ayush: Arab Jewish Partnership, oltre ad essere un refusnik che ha passato gran parte dello scorso decennio battendosi per la pace e contro l’ingiustizia in Israele/Palestina.

Tradotto dall’inglese da Gianluca Bifolchi, un membro di  Tlaxcala  (www.tlaxcala.es) , la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questa traduzione è in Copyleft per ogni uso non-commerciale : è liberamente riproducibile, a condizione di rispettarne l’integrità e di menzionarne l’autore e la fonte.

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