Questa è la loro guerra da raccontare: “I racconti diretti dei giornalisti palestinesi sono essenziali”

MEMO. Di Anjuman Rahman. Il rappresentante del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS), Shuruq As’ad, afferma che nessuno potrebbe raccontare la storia di Gaza meglio dei giornalisti palestinesi che vivono lì, perché vogliono vedere il cambiamento e umanizzare l’esperienza palestinese.

Durante quello che è stato descritto come “il mese più letale per i giornalisti”, Israele sta deliberatamente prendendo di mira i reporter a Gaza. Nel corso della sua offensiva genocida sull’enclave, dove il bilancio delle vittime ha superato i 14.000 palestinesi, Israele sta sistematicamente eliminando i professionisti dei media.

Questa violazione sistematica, secondo il portavoce del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS), Shuruq As’ad, mira a nascondere le indicibili atrocità commesse dall’occupazione, impedendo al mondo di testimoniare gli orrori del suo brutale assalto.

Nata a Gerusalemme, Shuruq ha coperto le notizie nella regione dal 1994 e si è abituata alla minaccia sempre presente per la sua sicurezza. Ha affermato che “Vivere come giornalista e sotto la legge militare israeliana significa non avere alcuna protezione garantita dal diritto internazionale. Non ci sono né sicurezza né regole etiche perché siamo un bersaglio per Israele”.

Il giornalismo è un pilastro cruciale della democrazia che chiede conto a chi detiene il potere, quindi non sorprende che Israele adotti misure estreme per bloccare qualsiasi resoconto accurato delle violazioni dei diritti e dei crimini commessi dalle sue forze di sicurezza nei Territori Palestinesi Occupati.

Mentre i giornalisti palestinesi si trovano ad affrontare minacce, intimidazioni e violenze crescenti a causa della limitazione delle loro libertà da parte dell’occupazione israeliana, Shuruq sottolinea l’allarmante aumento degli attacchi contro i giornalisti dal 7 ottobre. Riferisce che quasi 90 giornalisti sono stati aggrediti, con casi che vanno dall’aggressione fisica alla distruzione delle attrezzature.

Inoltre, 32 giornalisti, sia uomini che donne, sono stati arrestati arbitrariamente in base al codice militare israeliano, che ricorda le leggi di emergenza utilizzate durante il mandato britannico.

Tra questi c’è la giornalista Somaya Jawabra, membro del team di monitoraggio del Centro d’Informazione Palestinese. È stata arrestata dalle autorità di occupazione israeliane all’inizio di novembre, dopo essere stata condotta per un interrogatorio nel campo di Huwwara. È riuscita solo a fare una breve telefonata alla famiglia, informandola della sua detenzione, prima che la telefonata venisse interrotta bruscamente.

Somaya è madre di tre figli ed è attualmente al settimo mese di gravidanza, il che ha destato preoccupazioni per la sua salute e per quella del nascituro. Il suo arresto è avvenuto meno di 24 ore dopo che le forze di occupazione israeliane avevano arrestato il giornalista Amir Abu Aram, dopo aver fatto irruzione nella sua casa vicino a Ramallah.

“Non sappiamo nulla di tutti i giornalisti che sono stati arrestati dal 7 ottobre ad oggi”, ha dichiarato Shuruq. “Le autorità israeliane si rifiutano di informarci sui motivi della loro detenzione o sulle loro condizioni, ma siamo sicuri che sono stati arrestati per i loro post pubblicati sui social media, per le storie e i pezzi che hanno scritto”.

“Vengono messi in detenzione amministrativa, una pratica che risale al periodo del mandato britannico, utilizzata per arrestare i palestinesi senza alcuna accusa. Non li portano davanti a un tribunale e non comunicano loro quanto tempo saranno tenuti in prigione. Succede ogni giorno, con tanti”, ha spiegato Shuruq.

Questo non solo soffoca la libertà di stampa, ma rappresenta anche una palese violazione del diritto internazionale, ha sottolineato l’autrice. Inoltre, Shuruq sottolinea la situazione ancora più grave che i giornalisti di Gaza devono affrontare.

Secondo il PJS, dal 7 di ottobre l’esercito israeliano ha ucciso 60 operatori dei media. Inoltre, il Committee to Protect Journalists ha dichiarato che questo è il mese più letale per gli attacchi ai giornalisti da quando ha iniziato a documentare le violazioni nel 1992.

Shuruq descrive in dettaglio l’attacco deliberato contro 61 edifici dei media, alcuni dei quali sono stati completamente demoliti. L’autrice sostiene che questi attacchi non possono essere archiviati come danni collaterali, poiché i luoghi erano ben noti alle autorità israeliane.

La giornalista ha spiegato: “Fin dall’inizio della guerra, siamo continuamente molto preoccupati per i nostri colleghi, perché dal terzo giorno di guerra abbiamo iniziato a perdere un giornalista al giorno. Solo il terzo giorno ne abbiamo persi tre insieme e poi, ogni settimana, abbiamo perso circa altri dieci colleghi. Sono numeri enormi, considerando la popolazione di Gaza. Sono stati presi di mira nei loro uffici e, in totale, sono stati bombardati 61 edifici dei media. Alcuni sono stati completamente demoliti e altri parzialmente”.

Aggiunge inoltre che “nessuno può negare che gli edifici siano stati presi di mira volontariamente perché Israele ha tutte le informazioni e, quando si sparano tre missili contro tre uffici che sono uno sopra l’altro, non ditemi che questo non è un obiettivo. È inequivocabilmente un obiettivo chiaro”.

Dopo aver ricevuto la devastante notizia in diretta che un raid aereo israeliano aveva causato la morte di sua moglie, suo figlio, sua figlia e suo nipote, Wael Al-Dahdouh, capo ufficio di Gaza per Al Jazeera, si è precipitato all’ospedale, seguito dalle telecamere. Quando ha trovato suo figlio all’ospedale, si è inginocchiato accanto al corpo senza vita, esprimendo il suo dolore, piangendo: “Si vendicano di noi attraverso i nostri figli”.

“Il dolore della perdita non può essere descritto… È stato insopportabile, ma sono una persona diversa grazie alla professione che svolgo. Credo pienamente che Dio abbia perle di saggezza e che sia lui a fornire all’uomo pazienza e forza”.

Per Wael, documentare i crimini di Israele non è solo un dovere professionale; è un modo per onorare la memoria della sua famiglia e resistere di fronte alla tragedia.

È proprio questa resilienza e questo legame con la gente e la terra che Shuruq sottolinea perché è importante amplificare le voci dei giornalisti palestinesi che trasmettono le realtà della vita sotto l’occupazione. Pur riconoscendo il prezioso contributo dei giornalisti internazionali, Shuruq sostiene che i giornalisti locali offrono una prospettiva unica, intimamente legata ai luoghi e alle storie che trattano.

“Per i giornalisti palestinesi, il giornalismo è più di un lavoro”, spiega Shuruq. “È una realtà vissuta non solo da loro stessi, ma anche dalle loro famiglie, dai loro vicini e dalle loro comunità. Ho iniziato a fare giornalismo per condividere la mia storia e quella del mio Paese, che ha resistito ad oltre un secolo di occupazione. Gerusalemme, la mia città, conserva i ricordi di Al-Aqsa, dove giocavo da bambina e pregavo con mia madre. Le strade percorse dai coloni un tempo erano i miei percorsi scolastici. Quindi, per i palestinesi di Gaza, quando vedono bombardare l’ospedale Al-Shifa, per loro non è solo un ospedale. Per loro è l’ospedale più antico e un punto di riferimento, attorno al quale hanno molti ricordi”.

L’autrice sottolinea come i giornalisti palestinesi rischino la vita per raccontare queste storie, spinti dal desiderio di essere parte della lotta per la libertà e la giustizia, oltre che di contrastare la disumanizzazione nelle narrazioni straniere.

Per sottolineare ulteriormente la gravità del significato del giornalismo per i palestinesi, Shuruq ha raccontato un episodio che ha coinvolto un collega a Gaza durante la seconda settimana di guerra. Ha raccontato che “un collega di Gaza, un cameraman, mi ha detto che stava aspettando in una lunga coda per prendere due pezzi di pane per i suoi figli. Ma all’improvviso c’è stato un bombardamento nelle vicinanze e non sapeva se lasciare la fila per documentare ciò che stava accadendo, come suo dovere di giornalista, o comprare il pane da portare a casa per i suoi figli. Alla fine, si è precipitato a filmare il bombardamento israeliano nel quartiere locale e non ha preso il pane”.

Le loro voci e le loro storie dirette, ha concluso, sono essenziali per trasmettere il lato umano e crudo del conflitto. “La guerra è la loro storia da raccontare”.

Traduzione per InfoPal di Aisha T. Bravi