Senato Usa: non sono mai esistiti legami tra Saddam e Al-Qa’ida.

Hanno rivelato ciò che già si sapeva: la guerra in Iraq è di rapina. E’ sempre stato evidente.

Il giornalismo ha reso accettabile, diremo anche "possibile", attraverso la diffusione di clamorose menzogne e informazioni manipolate e di propaganda, un conflitto in cui sono stati, e sono tuttora, massacrati migliaia di innocenti. Il governo Usa ha commesso crimini contro l’umanità di cui, se non rappresentasse l’Impero che domina il mondo e le istituzioni internazionali, dovrebbe rispondere, come altri nella storia degli ultimi sessant’anni. Ma sappiamo che ciò non avverrà.

Ci chiediamo, i media italiani e personaggi alla Magdi Allam (che hanno sempre sostenuto la presenza di legami tra Saddam e al-Qa’ida e di ADM), godranno della stessa impunità? Che altre menzogne dovranno inventarsi per giustificare guerre per il petrolio, "caccia alle streghe", persecuzioni, fobie?

Da Reuters e Al-Jazeera.net

Un report pubblicato dal comitato del’intelligence del senato Usa ha reso noto che non c’era legami tra Saddam Hussein, l’ex leader iracheno, e i membri di al-Qa‘ida. 

Il report è stato pubblicato in occasione del 5° anniversario dell’11 settembre. “Saddam Hussein non si fidava di Al-Qa’ida considerava gli estremisti islamici come una minaccia per il suo regime, rifiutando tutte le richieste di al-Qa’ida di fornire materiali e sostegno operativo”, sostiene il rapporto.

 

I Democratici hanno affermato che il report mostra che il governo Bush ha distorto deliberatamente le scoperte dell’intelligence per richiedere supporto pubblico all’invasione dell’Iraq. 

 

"Il report di oggi dimostra che le ripetute dichiarazioni dell’amministrazione riguardo a relazioni passate, presenti e future tra al-Qa’ida e Iraq erano sbagliate e intendevano sfruttare il profondo senso di insicurezza tra gli americani subito dopo gli attacchi dell’11 settembre", ha dichiarato John Rockefeller, senatore del West Virginia ed esponente democratico.

 

Saddam si è opposto a al-Qa’ida.

 

"Le informazioni post-guerra indicano che Saddam Hussein ha tentato senza successo di localizzare e catturare Zarqawi, e che il regime non aveva relazioni con lui, né gli offriva ospitalità o chiudeva un occhio verso di lui", sostiene il report citando l’intelligence Cia. 

In risposta, Pat Roberts, il presidente del comitato repubblicano e senatore del Kansas, ha accusato i Democratici di presentare versioni fuorvianti delle scoperte del comitato stesso.

(…) Carl Levin, senatore democratico per il Michigan, ha dichiarato che il report mostra che Bush ha fatto dichiarazioni false sui legami tra Saddam e Abu Musab Al-Zarqawi, leader di al-Qa’ida in Iraq ucciso recentemente dalle forze Usa.

 

"Le indagini Cia dell’ottobre 2005 hano scoperto che il regime di Saddam non aveva legami, né ospitava o faceva finte di nulla nei confronti di Zarqawi e i suoi membri", ha dichiarato.

 

La guerra giustificata.

 

Il presidente Bush ha sempre sostenuto che, mentre era presidente dell’Iraq, Saddam Hussein avesse contatti con Zarqawi, un militante giordano che aveva frequentato i campi di addestramento di Al-Qa’ida in Afghanistan.

 

Precedentemente all’invasione Usa dell’Iraq, Zarqawi era membro di Ansar Al-Islam, un gruppo armato islamista poi con base nel Kurdistan iracheno – un’area che non si trovava sotto controllo del governo iracheno.

 

Levin ha detto che, a dispetto delle scoperte della Cia, soltanto due settimane fa Bush ha ripetuto le sue dichiarazioni dei legami tra Hussein e Zarqawi.

 

"La dichiarazione del presidente di due settimane fa è spudoratamente falsa", ha affermato Levin. Una devastante accusa del tentativo depistante dell’amministrazione Bush-Cheney di convincere con falsità il popolo americano che Saddam Hussein aveva legami con al-Qa’ida.

 

In fase di invasione dell’Iraq, nel marzo 2003, il governo Bush aveva puntato sui presunti legami tra Saddam e al-Qa’ida per giustificare la guerra per rimuovere il leader iracheno.

 

Le valutazioni nel rapporto della Cia sono simili alle conclusioni raggiunte dalla commissione bi-partisan sull’11 settembre, che aveva scoperto che non esisteva una relazione di “collaborazione" tra Saddam Hussein e al-Qa’ida.

 

Dirigenti Usa di alto rango avevano detto agli americani che Saddam rappresentava una minaccia ai suoi vicini e agli interessi Usa perché possedeva grandi riserve di Armi di distruzione di Massa.

 

Ma neanche queste armi sono state trovate.

 

US senate Report on Saddam-al Qaeda links

Da www.corriere.it

«Inutile parlare di guerra al terrorismo, il nemico è come un virus, non un’armata in campo». Dal suo studio di presidente al Council on Foreign Relations di New York, Richard Haass, l’ambasciatore che ha coordinato la politica estera al Dipartimento di Stato per il presidente Bush, fa un amaro bilancio a cinque anni dall’11 settembre: «La guerra in Iraq è stata uno storico errore. Vinciamo ora se togliamo ad Al Qaeda le nuove reclute, privandola di legittimità e motivazione».
La palazzina neoclassica all’angolo di Park Avenue, a New York, è il crocevia del mondo. Passa il presidente della Commissione europea Barroso, litiga il ministro della Difesa Rumsfeld, ammonisce il decano di Israele, Shimon Peres, si fa ammirare il mantello del presidente afghano Karzai. Il 28 tocca a Romano Prodi sottoporsi alle domande dei membri del Council on Foreign Relations, dal 1921 il più esclusivo centro studi di politica internazionale. Nel salone, la copia della rivista Foreign Affairs, con l’articolo firmato X, 1947, pseudonimo di George Kennan, la strategia del «contenere» l’Urss. Su un altro fascicolo le note di pugno di Lenin.
Oggi il Council è retto dal presidente Richard Haass, discreto ambasciatore nato a Brooklyn, «Rhodes Scholar» a Oxford come l’ex presidente Clinton. Haass ha lavorato con Bush padre ai tempi della prima guerra a Saddam Hussein e quando è toccato a George W. Bush arrivare alla Casa Bianca, il segretario Colin Powell ha chiamato ancora Haass a dirigere la strategia politica del Dipartimento di Stato, nei durissimi mesi dall’11 settembre 2001 alla seconda guerra del Golfo. Il bollettino che l’ambasciatore stila nell’anniversario della strage alle Torri Gemelle non ha trionfalismi: «La minaccia del terrorismo s’è dispersa, s’è fatta capillare. In Iraq si sta formando una nuova generazione di terroristi e la radicalizzazione nel mondo islamico porta reclute al terrore. Il pericolo cresce. Queste son le cattive notizie. Le buone dicono che l’intelligence è migliorata e il coordinamento antiterrorismo tra i Paesi è cresciuto. L’offensiva del terrorismo fondamentalista è più forte che l’11 settembre, ma anche noi siamo più forti. Difficile dire chi sta vincendo la guerra».
Lunedì, per commemorare i caduti nella strage di al Qaeda, il presidente Bush, in difficoltà nei sondaggi, parlerà di guerra al terrorismo ed esportazione della democrazia. Funziona? «Sono scettico. Non credo sia efficace parlare di "esportare la democrazia" come una merce, al massimo potremmo parlare di diffonderla. Ma, in ogni caso, ci vogliono generazioni perché le istituzioni democratiche si radichino in una società e nel frattempo la scelta liberale non ha effetto su chi s’è già arruolato nelle file della
jihad. Per chi crede, come i militanti di al Qaeda, che si debba tornare al Califfato islamico del VII secolo, la democrazia non è attraente e del resto abbiamo visto cittadini inglesi pachistani, ben ambientati a Londra, scegliere il terrorismo e seminare morte».
Dopo l’11 settembre il fondamentalismo ha colpito a Madrid, a Londra, Bali, in Indonesia, Egitto, India. L’Afghanistan brucia, con l’attacco all’ambasciata Usa e al contingente militare italiano. Come vincere? «Credo che "guerra al terrorismo" sia una pessima metafora. Le guerre, anche quella dei Trent’Anni, hanno un inizio e una fine, un nemico preciso. La minaccia di al Qaeda è un virus, non opera in un campo di battaglia, ma nei ristoranti, in metropolitana, negli uffici. Se colpisce dobbiamo reprimerlo e risanare l’ambiente dove prospera, non illuderci di spiantarlo. Il terrorismo fondamentalista sarà attivo per decenni e va sradicato anche con le armi: ma la forza non è la risorsa principale. Conta quel che si predica nelle moschee, nelle scuole. Contano l’intelligence, la polizia, la diplomazia».
Nel sito del Council, www.cfr.org, lei parla di «togliere ai terroristi legittimità e motivazioni». Che significa? «Deve passare il tabù che non si possa essere insieme un buon arabo, un buon musulmano e un terrorista. I kamikaze devono
essere disprezzati, non ammirati dai ragazzi e dalle ragazze del Medio Oriente. Ma noi occidentali siamo, su questo, poco credibili, la battaglia per il consenso, l’egemonia sulle coscienze, tocca ai leader islamici e arabi. I politici in tv, i religiosi con le fatwa, gli intellettuali con i libri. Quando Hezbollah ha rapito i soldati israeliani c’è stato qualche buon segnale di condanna tra gli arabi. Sulle motivazioni il discorso è più sottile. I militanti radicali non cambiano idea perché noi ci impegniamo a risolvere la questione palestinese, odiano la vita moderna, non si recuperano. Ma per gli altri musulmani che Stati Uniti ed Europa negozino una pace stabile tra palestinesi e Israele conta. E conta la tregua in Libano. Dobbiamo trovare un consenso tra sunniti e sciiti in Iraq. Non è possibile debellare il terrorismo, ma si può indebolirlo e vivere in libertà e nel benessere».
Ieri sul Corriere lo studioso Allison ha detto che occorreva occuparsi di Iran, prima che di Iraq. «Vero. In Iraq la guerra è stata un doppio errore storico, non andava fatta o andava fatta in modo da vincerla. Adesso possiamo solo sperare di evitare la guerra civile. In Iran temo che la diplomazia arrivi tardi, ma l’alternativa, un’operazione militare, è poco razionale, siamo costretti al negoziato». Resta il Libano, presidente: «E’ bene che gli italiani e gli europei siano andati con la forza di pace. Ma non potranno disarmare Hezbollah e al massimo ritarderanno la nuova guerra con Israele. I caschi blu comprano tempo, speriamo che in fretta il governo di Siniora smobiliti i miliziani del Partito di Dio. Serviva però il gesto, come carta utile alla cruciale ricerca di consenso e legittimità».
Gianni Riotta
09 settembre 2006

I politici del partito democratico hanno affermato che il documento – pubblicato ieri, venerdì 8 settembre, contraddice le dichiarazioni fatte dal governo Usa nel periodo di preparazione dell’invasione dell’Iraq.

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