Il sionismo progressista non esiste

MEMO. Di Asa Winstanley. Una componente della propaganda israeliana di lunga data presenta il sionismo come causa «progressista». Ad esempio, negli ultimi anni abbiamo sentito dire che le politiche israeliane per le donne, la comunità Lgbtq, le persone di colore, l’ambiente e il progresso tecnologico sono buone.
Il «pinkwashing», il «greenwashing» e molti altri risultati della propaganda diplomatica (hasbara) sono reali, ma non hanno avuto molto successo. In sostanza essi equivalgono a ciniche strategie di public relation facilmente rilevabili.
Si tratta di tentativi di spostare il dibattito su argomenti irrilevanti. Lo potremmo definire un «che ne dici di»? «Che ne dici della Siria», chiedono i sionisti. Che ne dici della Cina? Che ne dici delle donne? E così via.
Queste crude distrazioni sono diventate più difficili da far passare nell’ultimo anno, con l’appoggio aperto di Israele al presidente Usa Donald Trump e alla sua coorte di suprematisti bianchi, sionisti di estrema destra e personaggi allineati al nazismo come l’ex consigliere Sebastian Gorka.

«Mentre il movimento Bds, basato sui principi dei diritti umani non-violenti e anti razzisti, continua a crescere nel cuore e nella mente di milioni di persone in tutto il mondo», come mi ha riferito il co-fondatore del movimento del Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni Omar Barghouti, «Israele diventa sempre più un modello della crescente alleanza globale xenofoba di estrema destra guidata dall’amministrazione Trump».

Il risultato è che Israele sta velocemente perdendo la corrente liberale, compresi molti giovani ebrei americani. «Un’indagine della Brooking Institution del 2016 dimostra che quasi la metà degli americani – e il 60% dei democratici – supporta le sanzioni contro Israele. 
Contando sempre più sugli estremisti di destra e sui fan di Trump per la sua base di appoggio, Israele sta via via abbandonando gli sforzi di conquistare i progressisti e la sinistra. Sa che si tratta di una battaglia persa. Lo stesso partito laburista israeliano ha deviato apertamente a destra negli ultimi anni.

Quando fu lanciato Bicom (Britain Israel Communications & Research Centre), all’inizio del millennio, la principale lobby israeliana della Gran Bretagna dichiarò che il suo obiettivo era «far cambiare opinione, a favore di Israele, al grande pubblico». Un decennio più tardi, però, questo obiettivo venne abbandonato preferendo focalizzarsi sui «formatori di opinioni» – giornalisti influenti, decisori politici e altri membri dell’élite.

Gli attivisti del Bds avevano fondamentalmente vinto il dibattito alla base dei sindacati britannici, facendo deviare la politica sindacale. 
Ci sono però ancora sionisti liberali che cercano di ottenere successi «progressisti» per Israele. Essi sono in aumento nella minoranza del movimento sionista, e alcuni vengano ascoltati dai decisori politici israeliani, che sostengono tale strategia.
Ma, fondamentalmente, la realtà è che il sionismo è sempre stato un movimento razzista reazionario, con l’obiettivo di espropriare il popolo palestinese. Questo è il conto che chi cerca di «sostenere il progressismo per Israele» non riesce a far tornare.

Un esempio perfetto ed ironico di ciò lo si è visto di recente, quando il tentativo di far apparire Israele favorevole ai diritti delle donne è crollato sotto il peso delle sue contraddizioni. Un gruppo, che si è nominato «Zioness», ha pubblicato un poster definendosi «I sionisti per i diritti delle donne», e dichiarando di far parte di una «#resistenza» che si oppone a Donald Trump.
Il poster riportava la foto stilizzata di una donna con i dreadlock, le braccia incrociate e una catena con la stella di David. L’immagine richiamava lo stile iconico del poster della campagna elettorale «Speranza» di Barack Obama, e sembrava voler far apparire il gruppo formato da una componente razziale mista, nonostante la pelle bianca della modella.
Esso ricordava la precedente propaganda governativa israeliana, finanziata dal gruppo di governo Stand With Us, che in un annuncio dichiarava che «Israele celebra le diversità», con l’immagine di un uomo bianco con i dreadlock.
Il poster «Zioness» è anche più vergognoso di quello. E’ emerso che l’immagine della donna è stata utilizzata senza il suo consenso e a sua insaputa, ovviamente senza il suo permesso.
L’artista hip-hop sudafricana Dope Saint Jude ha confermato su Twitter che si trattava di una sua immagine modificata: «Non sapevo che stessero usando la mia immagine, non sono collegata in alcun modo con il movimento Zioness… sono solo una ragazza sudafricana che va in moto, fa musica e non ho alcun legame con Israele». Né con il movimento sionista, andrebbe sottolineato.

Si è poi scoperto che la foto è uscita dagli archivi Getty, dove era catalogata come foto di repertorio, presentando erroneamente la cittadina sudafricana come «americana africana».
Zioness prese l’immagine, schiarì il colore della pelle di Dope Saint Jude, eliminò con Photoshop i suoi tatuaggi, che rappresentano iconografie cristiane, e aggiunse un simbolo preso dalla bandiera israeliana. Facendo ciò, poco saggiamente il gruppo ha dimostrato la falsità che sta al cuore del sionismo, e la falsa pretesa che esso ha di essere un’ideologia «progressista». La realtà è semplice: il sionismo progressista non esiste.

Traduzione di Stefano Di Felice