Testimonianza: dodicenne pestato ed incarcerato insieme agli adulti, settembre 2008

Testimonianza: dodicenne pestato ed incarcerato insieme agli adulti, settembre 2008

Da B’Tselem

Muhammad Khawajah, 12 anni.

Abito con la famiglia a Ni’lin. La nostra casa sta al piano terreno dello stabile. I due zii e le loro famiglie stanno al primo piano e la nonna al secondo.

Giovedì scorso [11 settembre, ndr], alle tre di mattina, all’incirca, mi svegliai sentendo le grida di mia madre: «Alzati! Alzati! Sono arrivati i militari!». Mio padre non era a casa quella notte. Mi alzai e uscimmo nel cortile interno dello stabile, io e mia madre. Lì, si trovavano circa dodici militari con il volto dipinto di nero. Uno dei militari portava in testa un capello nero che gli copriva il volto. Si sedeva in disparte sulle scaline fuori dalla casa. Credo che fosse un collaboratore che portava i militari alle varie case.

I militari si trovavano al primo piano. Ordinarono allo zio Sami di condurli al nostro piano. Uno dei militari chiese: «Dov’è Muhammad?», e mi resi conto che si riferivano a me. Ordinò allo zio di chiamarmi. Mi chiamò. Mi avvicinai a loro. Due militari mi afferraarono e mi condussero fuori. Capii che mi volevano arrestare. Avevo paura, piangevo e chiedevo allo zio di accompagnarmi.

Le manette di plastica che mi misero i militari erano come una morsa. Mi facevano molto male. Un militare mi afferrò per la camicia da dietro, mi spinse davanti a sé. Con la camicia stretta attorno al collo avevo difficoltà a respirare. Cercai di liberarmi. Mi diede un pugno sulla schiena e tirando più forte la camicia. Così mi soffocava: era ancora più difficile respirare. Mentre camminavamo, anche un altro militare mi colpì col pugno e mi tirò per i capelli. Gridai, chiamai lo zio e mio padre. Mi ordinarono di star zitto e mi colpirono. Mi portarono con sé in un vicolo tra le case dove ci sono dei cactus. Uno dei militari mi diede una spinta, facendomi cadere tra i cactus che mi ferivano le mani e le gambe. Strada facendo, spingendomi, mi picchiavano ripetutamente.

Durante il cammino i ragazzi del villaggio scagliavano una fitta pioggia di pietre contro i militari. I militari non sapevano che fare. Alcuni si allontavano in gran fretta e gli altri mi spinsero: dovevano affrettare il passo. Finii per terra. Stavo con la pancia in giù, per terra, e con le mani legate e uno dei militari mi trascinava sopra la terra piena di sassi e di polvere. Mi trascinava per le mani. Piangevo e gridavo. Mi ordinava di stare zitto. Accelerando il passo per sottrarsi alle pietre volanti, mi trascinò per qualche metro prima di raggiungere un muro dove trovammo riparo. Il ginocchio destro e alle palme delle mani mi facevano male. Il ginocchio era insanguinato.

Alcuni dei militari usavano del gas lacrimogene contro i ragazzi che tiravano i sassi. La granata cadde vicino a me. Tossivo e piangevo, mi bruciavano gli occhi. Ci incamminammo nuovamente e i militari mi spinsero in avanti. Arrivammo a una casa che stava a circa 400 metri di distanza: qui, sfondarono le porte. Era la casa di ‘Abd a-Rahman Lu’ai ‘Abd al-Halim, di 14 anni. Andavamo a scuola insieme. Arrestarono sia lui che il cugino, Sufian Nawaf al-Khawajah, che aveva 18 anni. Ci portarono, noi tre, al centro del villaggio che sta a circa 400 metri dalla mia casa e ci costrinsero a restare in piedi con la mani alzate davanti ad un negozio. Anche ‘Abd a-Rahman e Sufian portavano le manette. I militari ci pestarono, facendoci cadere a terra. Per qualche minuto, mentre eravamo stesi per terra, ci camminarono sopra la testa e lo stomaco. Poi ci rimisero in piedi e ci spinsero verso la via d’accesso al villaggio. Dietro di ciascuno di noi un militare che ci teneva per la camicia.

Ripetutamente, i militari ci colpivano coi pugni e coi piedi. Un militare se la prese in particolare con me. Mi pestava e mi strozzava come se mi volesse uccidere. Credo che qualche militare abbia riportato delle ferite a causa delle pietre lanciate dai ragazzi. Gridavo, piangevo, ero terrorizzato. Era ancora buio. Cio portarono per un kilometro verso l’incrocio che porta alla colonia di Nili. Lì erano appostati molti jeep militari. I militari mi bendarono gli occhi e mi fecero salire su uno dei jeep.  Dall’arresto sarà passata circa un’ora. Il jeep s’avviò. Non sapevo verso dove.

Stavo seduto in basso. Non c’erano militari accanto a me. Dopo mezz’ora, o forse un’ora, il jeep si fermò. I militari mi fecero scendere. Nonostante la benda riuscì a intravedere qualche cosa. Non sapevo dove eravamo, ma era una base militare. Vidi arrivare gli altri due jeep. Da uno di questi fecero scendere ‘Abd a-Rahman e dall’altro Sufian.

Poi ci portarono in macchina da qualche altra parte. Arrivati ci fecero sedere sulle panche. Dopo dieci minuti iniziarono le interrogazioni. Il primo fu ‘Abd a-Rahman. L’interrogazione durò circa venti minuti. Poi entrai io nella stanza, e mi tolsero la benda. Vidi un uomo in abiti da civile. Era corposo, col viso tondo e la pelle chiara. Portava lo zucchetto. Mi disse il suo nome: il capitano Sasson. Sentivo anche altri che si rivolgevano a lui con quel nome. Mi fece sedere alla scrivania. Mi interrogava sui ragazzi del villaggio. Mi mostrò delle foto, tenute in un librone grosso che ne conteneva circa 200. Ripetutamente e in maniera insistente cercava informazioni sul conto di alcuni dei ragazzi. Replicavo che non li conoscevo. Poi passò ad altro: mi mostrò tre foto: ero io, durante una manifestazione contro il Muro di Annessione; nella foto vengo ritratto con una fionda in mano. Confessai dicendogli che mi riconoscevo, ripetendo tuttavia che non conoscevo gli altri ragazzi. Poi mi bastonò schiena, usando uno sgabello di plastica. Piangevo e gridavo. Mi colpì alle gambe due volte con un bastone di legno.

Il militare, che portava una pistola al fianco, mi ordinò di alzarmi e di affacciarmi o alla finestra o al armadio a muro. Posizionata davanti a me c’era una macchina fotografica. Mi fotografò. Poi l’interrogatore mi ordinò di firmare un documento per mezzo dell’impronta digitale, Il documento era scritto in ebraico. Non so che cosa ci fosse scritto. Il militare non me l’ha letto. Immagino si tratti di una confessione. Firmai il documento. Non avevo scelta, non volevo essere picchiato e avevo paura di questo. L’interrogatore mi prese le impronte digitali, integrali, di entrambi le mani, e poi disse al militare di rimettermi la benda agli occhi. Mi accompagnò fuori dalla stanza e mi fece sedere sulla panca. L’interrogazione era durata circa una mezzoretta. Ora portarono dentro Sufian, per un’altra mezzoretta, all’incirca.

Poi che caricarono, tutti e tre, su un grande furgone cellulare e dopo circa un quarto d’ora ci fecero scendere di nuovo. Ci tolsero le bende. Vidi un’insegna: «Ofer». Capii che eravamo al carcere di Ofer. Ci portarono nella sala delle perquisizioni. Ci spogliarono per la visita medica. Ci diedero delle borse contenenti pantaloni, una camicia e un paio di ciabbatine. Arrestarono Sufian e lo portano in una sala  per i detenuti. Un poliziotto in divisa blu [della polizia civile] parlava con i militari. Capivo che egli voleva che fossimo rilasciati. Si rivolse a noi in arabo: «Siete dei ragazzini e dovreste essere rilasciati».

Venimmo trattenuti, io e ‘Abd a-Rahman, nello spazio antistante la sala  per i detenuti e poi ci trasferirono di nuovo al cellulare. Eravamo ancora in manette. Dopo circa venti minuti ci portarono due scatole di gelatine al gusto di frutta, una per ciascuno. Ci tolsero le manette e ci lasciavano mangiare. Dopo circa trenta minuti ci rimisero le manette.

Nel cellulare, due militari ci sorvegliavano. Non ci permisero di parlare tra noi. Non appena aprivamo bocca ci azzittirono. C’era molto caldo nel cellulare, eravamo molto sudati. Non ci diedero né da mangiare né da bere. Ci lasciavano andare al bagno, togliendo e poi rimettendo le manette al nostro ritorno.

Restavamo così fino a dopo l’ora in cui i muezzin chiamano i fedeli alla preghiera, alle otto di sera, all’incirca. Poi ci trasportarono ad un altro campo. Mi sembrava fosse il campo di Beit Sira.  

Al campo ci diedero una tazza di cioccolato e venimmo diretti in una piccola stanza con matterassi di colore verde militare. I letti erano assenti. Potevamo liberarci dalle manette, che si erano ormai allentate. Dopo aver bevuto il cioccolato ci mettemmo a dormire.

Alle ore 10 della mattina seguente ci fecero salire su un cellulare e ci rimisero le manette, ma questa volta non non ci misero la benda agli occhi. Eravamo diretti al carcere di Ofer dove ci consegnarono al reparto delle tende. Il nostro era il Dipartimento 2, con i suoi 83 detenuti, di tutte le età. Ciascun dipartimento consiste in quattro tende per circa venti detenuti ciascuna.

I detenuti ci trattavano bene, regalandoci caramelle, cioccolato e patatine. Stavo piuttosto bene, fisicamente. Digiunavo di giorno e giocavo a calcio e a tennis. Il Dipartimento era dotato di alcuni televisori, uno per tenda. Durante il giorno c’erano i programmi per bambini e alla sera uno spettacolo siriano, Bab al-Hara. Un detenuto era intervenuto presso il medico affinché mi curassero la gamba. Mi portarono alla clinica dove mi fasciarono il ginocchio dopo aver trattato la ferita con dell’iodina.

All’inzio avevo paura e qualche volta piangevo perché la mia famiglia era lontana. Non ero mai stato tenuto in stato di fermo. No so perché perché volevano fermarmi. L’intero villaggio e tutti i ragazzi erano presenti alla manifestazione. Perché hanno scelto me?!

Gli adulti mi accudivano perché ero il più giovane di tutti i detenuti del Dipartimento. Decisero di nominarmi assistente del sergente del Dipartimento.

Mi svegliavo ogni mattina alle sei e annunciavo il controllo: «Andiamo! È l’ora del controllo». Si alzavano, e poi si presentavano i militari per la verifica del numero dei detenuti. Stavo accanto al militare che contava. I militari mi trattavano con rispetto. Avevano chiesto ai detenuti più anziani di occuparsi di me. Il sergente del Dipartimento mi dava una mano sempre. Era più anziano della maggior parte degli altri detenuti, e parlava l’ebraico. Lavoravamo insieme per prestare assistenza ai detenuti, e inoltravamo le richieste di questi ai responsabili del carcere e alle guardie.

Io e ‘Abd a-Rahman venimmo portati davanti al tribunale di quella domenica [14 settembre]. Partimmo alle sei di mattina. Ci misero le manette e delle catene di ferro alle gambe. Al nostro arrivo, venimmo diretti in una stanza dove attendevamo l’udienza, che si tenne alle ore 14:00. Con il digiuno non abbiamo fatto richiesta né di mangiare né di bere.

Arrivato il momento dell’udienza ci portarono, ammanettati, dentro l’aula. C’era mio padre e anche un uomo di B’Tselem. Verrò a sapere più tardi che si chiama Iyad Hadad. Altre persone erano presenti per seguire l’udienza. Ero contento di questo. Ero molto felice di vedere il mio padre, ma i militari mi impedirono di abbracciarlo. Non mi permisero nemmeno di toccargli la mano.

La mia difesa era affidata ad un’avvocatessa israeliana. Non so come si chiama. Fece richiesta che mi venisse concessa la libertà provvisoria dietro cauzione e il giudice acconsentì. Ma richiese una cauzione di 3.000 shekel. Mio padre non aveva la somma richiesto, dunque non potevamo effettuare il versamento.

Dopo l’udienza mi riportarono in carcere. Il giorno dopo, mio padre ruiscì a farsi prestare i soldi necessari per la cauzione. Venni rilasciato a condizione di presentarmi all’udienza del martedì successivo [16 settembre]. Tornai alla casa dei genitori e della famiglia. Ero felicissimo. Perché accusavo dei dolori al collo e alle spalle, ma anche a causa delle escoriazioni e della ferita al ginocchio, mi presentai all’ambulatorio del villaggio, dove mi fecero la visita e ricevetti delle cure; mi prescrissero una settimana di riposo, seguita dalla visita di controllo.

Mio padre mi accompagnò all’udienza di martedì. L’udienza venne rimandata al 21 ottobre 2008.  

Da quando mi hanno rilasciato avverto qualche problema. Mi sveglio di notte con sensazioni di paura. Dormo con estrema difficoltà. Sono andato dallo psicologo: si chiama Khaled Shahawan. Mi ha dato alcuni medicinali e sedativi. Sento che ho difficoltà di concentrazione a scuola. L’anno scorso, il valore medio del mio voto scolastico era 94.

Muhammad Salah Muhammad Khawajah, 12 anni, studente, è residente di Ni’lin nel Distretto di Ramallah. Il resonconto fu raccolto da Iyad Hadad il 18 settembre 2008, alla casa dello stesso testimone.

(Traduzione di Alexander Synge)

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